La musica possibile nell’opera di Cesare Pavese

Malgrado questo, non si può affermare per certo che Pavese amasse intimamente la musica, nonostante ciò diversi compositori dopo la morte furono stimolati a musicarne liriche, in stili anche molto diversi tra loro. O rimasero talmente affascinati dalla figura, come nel caso del giornalista, documentarista e chansonnier Mario Pogliotti, da dedicargli una canzone di frasi estrapolate da “La luna e i falò” e “La bella estate” fuse a versi da lui stesso composti: “Un paese vuol dire non essere soli (Ricordo di Pavese)”. Verrà pubblicata con testo e musica dal Nuovo Canzoniere Italiano nel settembre del 1963 e, non essendo tra quelle censurate nell’occasione dalla Rai, proposta in televisione all’interno delle dieci puntate del programma “Canzoniere Minimo. Antologia di canzoni popolari e di curiosità musicali” presentate da Giorgio Gaber, per la regia di Umberto Simonetta, che prese il via all’inizio del mese dopo. Nel 1964 Pogliotti la inciderà in un 45 giri per l’etichetta torinese DNG e il brano, un valzer lento che ricalca le tipiche rengaines francesi popolari, nel 1965 verrà poi ripreso da Milly (Carolina Mignone) della quale Pavese, nel lontano 1927, si era invaghito 1.  Al tempo di Pavese, in Piemonte come altrove, vigevano strumenti popolari come la fisarmonica che in antichità, prima di prendere il posto dell’organetto (venendo così nobilitata dalla musica folk) erano appartenuti al mondo della povertà. Da tempi lontani erano i miseri viandanti che la suonavano per strada chiedendo la carità. Esistevano autori anonimi, sconosciuti o misteriosi come quello detto “Galucio ‘l barbon”, di cui non si è mai saputo neppure il vero nome e che scrisse numerosissime canzoni. C’erano anche in quella Torino, canzoni di denuncia e rivendicazione, canti di lotta e di lavoro e poi, quando venne il tempo, si aggiunsero quelle di guerra, patriottismo, eroismo, penuria alimentare, oscuramento notturno, strazi per partenze e morti al fronte di figli e innamorati. C’erano i “cantor dle cort” ovvero i “cantastorie dei cortili” protagonisti di una autentica forma di cultura popolare, che si esibivano lungo le vie o nelle “piole”, tipiche osterie piemontesi, che intrattenevano le genti dei quartieri operai con “cansonette” di apparente repertorio popolaresco dai temi
sentimentali, satirici, di attualità o di cronaca, alternando disinvoltamente italiano e piemontese senza farsi troppi problemi a riguardo la correttezza ortografica sia nei confronti dell’uno che dell’altro. C’erano nelle fiere in vendita per pochi spiccioli pure i “fogli volanti”, al pari dei più ricordati d’Inghilterra, Francia o America, che si trovavano in occasione delle esibizioni e recavano le parole delle canzoni con l’aggiunta spesso di vignette o disegni stampati. Sempre rigorosamente con inchiostri e carte di pessima qualità, per risparmiare. A volte addirittura le immagini si ripetevano accompagnando testi differenti o che c’entravano davvero poco con la canzone stessa. E poi nella stessa regione vivevano umili persone ma di altissima statura artistica come l’astigiana Teresa Viarengo Amerio di Scurzolengo, nata diciassette anni prima di Pavese e a soli ventidue chilometri di distanza da Santo Stefano Belbo, la quale, come ricorda Cattia Salto, è oggi riconosciuta come «depositaria di più di trecento ballate piemontesi». Si trattava di ballate tradizionali e vernacolari capaci di contenere ogni tematica, compresa quella epico-lirica come “Doi anelin”, un dramma d’amore e gelosia, che nulla ha da invidiare al celebre “Otello” shakespeariano. Componimenti di origine medievale, che di villaggio in villaggio tramite cantastorie, erano giunti col tempo, più o meno in tutte le regioni italiane, spesso anche dall’estero, trasformandosi durante quei viaggi o adattandosi ai differenti contesti incontrati, in un immaginario che confrontandosi col simbolico, finiva per dialogare con l’inconscio delle genti. Canzoni piemontesi tradizionali che sono giunte perfino a manifestare interfaccia sorprendenti con talune di origine bretone, come dimostrerà magistralmente Donata Pinti, scrivendo il tragico testo in dialetto “Marion” e cantandolo sulla melodia di Eliz Iza 2 oppure Anne Auffret nel cantare al contrario il gwerz “Ar c’hallezh vilan” su quella di “Cecilia”. Chissà quale musica apprezzava davvero Cesare Pavese quando nel racconto “Il Blues delle Cicche” fa dire al Maestro napoletano «– […] Sa, le parole sono il corpo della canzone […] come la musica ne è
l’anima […]. Penso a parole che rispondano interamente allo spirito della musica d’oggi: sa, un fox non è più un valzer e un blues […] non è più una romanza […]»
. La musica popolare che, allora come oggi, serviva a ballare e a fare festa non era certo “d’ascolto”, aveva funzioni puramente di divertimento, incontro, aggregazione, era occasione di conoscenza e condivisione. Quei raduni si svolgevano quasi esclusivamente di giorno, talvolta per raggiungerli a piedi si rinunciava al Vespro pomeridiano o si scappava di corsa appena era terminata la funzione. Nessuno indugiava in quelle occasioni a discutere sul bagaglio di storia e tradizione di cui la cultura popolare musicale era portatrice, molto meglio il fascino di due begl’occhi o il piacere di un buon bicchiere di vino in compagnia. E perfino i bambini talvolta avevano il permesso di rimanere ad osservare i ballerini sul palchetto di legno. Il ballo popolare era sempre stato parte integrante della trasmissione orale della cultura contadina, al pari del teatro liturgico all’interno del quale esistevano rappresentazioni come quella di Sant’Alessi, la cui vicenda ne fa parte fin dal medioevo. La storia, in dialetto piemontese, narra del sacrificio di Alessio per guadagnare il Paradiso per sé e per la propria donna. Costui aveva fatto voto di pellegrinaggio a Gerusalemme ma durante il tragitto era stato informato che la moglie intanto era andata a ballare, ciononostante aveva proseguito il cammino di fede e al suo ritorno nessuno lo aveva riconosciuto neppure lei, tranne che sul punto di morte. Le origini della lingua piemontese di quelle canzoni affondavano le radici nei Sermones Subalpini del XII° secolo, mentre risale al 1783 la prima grammatica ufficiale ma sarà solamente negli anni Venti del secolo scorso che verrà realizzata la stesura definitiva. In quel momento Cesare Pavese è ancora un adolescente. Ma pure il sangue alpino non mente e, per secoli, fame e fede hanno spinto altre genti, come quelle provenzali, a salire oltre i loro monti e oltre i confini tracciati, e a questo ha contribuito inoltre la sete di conoscenza o l’avventura di
una festa oltre frontiera. La loro migrazione raggiunge l’apice nelle valli alpine sud occidentali di Cuneo e Torino a inizio secolo scorso. Talvolta un identico motivo musicale era presente su entrambi i versanti alpini: nella parte italiana aveva finito per assumere un testo in piemontese oppure capitava che un brano nizzardo originario di Cimiéz (l’antica Cemenelum) incorporasse diverse varianti in Piemonte. Charlon Rieu era un autore occitano di canzoni di povertà, nato a Parador, Boques del Roine nel 1845 e dove era morto nel 1924. Le sue canzoni sono ancor oggi molto conosciute nella Provenza del Rodano e, tra le tante, c’è n’è una dal titolo “La mazurka de Sant-Andiou” che contiene strofe descrittive illuminanti di quello che significava recarsi ad una festa. Narrano nello specifico di una ricorrenza religiosa in periodo di Carnevale, che riuniva il 21 di gennaio la gente dei dintorni per i festeggiamenti relativi ma potrebbe venire applicata indistintamente a qualsiasi evento collettivo dell’epoca; gli strumenti citati nel testo sono quelli che componevano la tipica orchestra da danza provenzale a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.
Dansarèm d’accòrd totis ensèms.
Au son doç dei clarinetas
Dei flutets e dei violons
Lei jouvents, lei chatonetas,
Venetz leu d’un liuen valon.
Lo vent s’a tombat lei fuelhas
Ai vielhs oume dau draiòu
La mazurka desennuèlha,
[…].
En renguiera,
[…].
Coma de pijons ramiers
A grand destre, per lèu i estre,
Fasent voguejar sei lambrusquieras,
Vers lei pibas, sensa gibas,
D’un valat plen a demieg,
Au boscatge, dau vilatge,
Elei, iè saran lei bèus promiers,

De Cabana, lei mai cranas,
Davalaran mai que d’un.
Per la festa, longa vesta,
Lusent soliers prim, braias de lana.
Plen de jòia e de vòia,
Oublidaran sei plantuns,
De violetas frescoletas,
Quand auran son fresc boquet cadun.
(Danzeremo bene insieme. / Al suono dolce dei clarinetti / Dei flauti e dei violini /Ragazzi, ragazze, / Venite presto dalle valli distanti. / Il vento ha fatto cadere le foglie / Vecchie orme sul sentiero /La mazurka toglie la noia, / […] In fila, / […]./  Come dei colombacci / A grandi passi per arrivare più in fretta, / Facendo svolazzare tralci di vigne selvatiche, / Verso i pioppi lisci, / Da un torrente mezzo pieno, / Nel bosco del villaggio, / Saranno i primi, / Dalle capanne, i più fieri, / Ne verrà più d’uno. / Per la festa, lunghe vesti, / Scarpe nuove, brillanti, pantaloni di lana. / Pieni di gioia e di brio, / Dimenticheranno i campi, / Di violette fresche, / Quando ciascuno avrà il suo mazzolino.) 3

All’ora della morte di Rieu, il giovane Cesare Pavese era un sedicenne. Intorno a lui tutti ballavano in paesi e frazioni, durante le funzioni religiose e soprattutto nelle feste, ritrovandosi presso i casolari di maggiori dimensioni e forniti perciò di un'aia a disposizione più ampia. Qualche volta, si ballava ugualmente il liscio ma nelle frazioni tale genere non era particolarmente apprezzato in quanto il suolo, spesso formato da terra battuta, non sempre permetteva una corretta esecuzione dei passi. Nulla vieta di pensare che, oltre al folklore originario tipico del Piemonte, durante le riunioni danzanti sull’aia, non potessero venire interpretati alcuni brani occitani. Magari con strumenti tradizionali utilizzati da quella musica, come l’accoppiata consueta galobet/tambourin, ovvero il piccolo flauto a tre fori suonato con un’unica mano e il tamburo allungato a tracolla la cui pelle si percuoteva con una corda che fungeva da bordone, chiamata “chanterelle”. Niente impedisce di immaginare che potessero anche essere simili a queste le melodie e le atmosfere danzanti, evocate ma mai chiarite da Cesare Pavese e che si univano alle note del clarino di Nuto. Dopo giornate di massacrante lavoro c’era chi arrivava al ballo a piedi da borgate, colli o valloni, giù per declini alpini, su per displuviali come si trattasse di una piccola, immaginaria trasmigrazione. Passando tra andane, tra rumori attutiti dagli alberi alti e voci di animali selvatici persi fra i silenzi degli spazi grandi. Forse il giorno prima erano terminate le fienagioni e le falci erano state riappese al chiodo. Ogni cosa avveniva a suo tempo nel ciclo contadino, ai limiti dei misteri e dei fatalismi, i balli diventavano consolazione dalle fatiche. I valzer, le polke e le mazurche stavano soppiantando oramai anche all’interno della realtà occitana, le danze più arcaiche quali “gigo”, “cadriho”, “bourrétho”, ma i balli tradizionali di coppia o di gruppo come il “balèt” o la “courenta” in ritmo ternario non erano imprigionate in una musicalità rigida e venivano indicate al musicista semplicemente con delle
note. Fisarmonica cromatica a bottoni e clarinetto le eseguivano con soddisfazione, talvolta accompagnate dall’effetto percussivo di due cucchiai. Il folklore può essere anch’esso universalmente inteso, al pari di tante parole di Pavese, come l’angoscioso grido di furore appassionato di chiunque veda aggrediti dal mondo moderno i propri affetti ancestrali, le proprie ritualità quotidiane. Come per il popolo bretone o basco o di innumerevoli altri luoghi, la terra dei propri antenati “non si tocca” e così vale pure per quella dei “reires” occitani, è ancor oggi e ovunque, altare di una sacralità, pena e eredità di chi è venuto prima e da cui si proviene. Il folklore è una delle svariate risposte di ribellione al tentativo di annientamento materiale e spirituale: dentro la pupilla del suo occhio iridescente, il passato diventa sempre glorioso, contrapponendosi così all’ombra incombente di un incerto futuro. Il folklore esprime la dimensione contemplativa che sta al di là dell’invisibile barriera di tempo e spazio, il sospiro liberatorio di chi si riappropria di un valore. Narrare del tempo che non esiste più si impasta con il quotidiano, lo arricchisce e oggi molte di queste manifestazioni sono istituzionalizzate o rappresentano patrimonio colto di una comunità. Le tradizioni musicali possono contenere doti di resistenza perfino superiori a quelle linguistiche, indicando ad esempio l’inequivocabile provenienza di un popolo qualora la sua lingua fosse andata perduta. Un buon esempio di ciò è rappresentato dalla Cornovaglia, nella quale l’originale idioma cornico è da due secoli estinto ma la cui tradizione musicale sopravvive. 

Flavio Poltronieri
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1. La considerazione di cui ha goduto Pavese presso i musicisti è argomento dell’elenco ad opera di Flavio Poltronieri e        Manlio Todeschini, pubblicata nel volume: Monica Lanzillotta, Cesare Pavese. Una vita tra Dioniso e Edipo, Roma, Carrocci, 2022, pp. 267-281.
2. Approfondimento su Terre Celtiche
3. Mont-Jòia, Cançons dei festas provençalas, in LP Le Chant Du Monde, Francia, 1978 (trad. Flavio Poltronieri).

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