Il Folk Club, piccolo grande scenario sonoro di Via Perrone 3 Bis a Torino. Un seminterrato in un palazzo storico della città piemontese, ambiente unico dall’unione di sei cantine, è stato un tempo rifugio antiaereo, poi un club e, infine, dal 1988 uno dei luoghi della musica in Italia. Un volumetto di brevi scritti di Jacopo Tomatis (“1958-1988 Breve storia del folk italiano – raccontata da Torino”), del compianto fondatore Franco Lucà (dal suo libro “FolkClub” del 2006), di Marco Bertozzi (“Quel desiderio di suoni e d’immagini”), Franco Rosso (“Con Franco a Roccasèravera 13 luglio 2007”) e Paolo Lucà (“Incomparabile eredità”) accompagnano il documentario (2022), della durata di poco più di un’ora, diretto da Elia Romanelli, antropologo visuale, autore di diversi documentari televisivi e d’autore per i quali ha ricevuto riconoscimenti internazionali. La sceneggiatura è di Elisa Pajer, la fotografia di Simonluca Chiotti, montaggio di Alice Lorenzon e Maddalena Quaggia, la produzione StudioLiz in collaborazione con lo stesso FolkClub, il Centro di Cultura Popolare “Michele L. Straniero”, la Scuola Alto Perfezionamento Musicale Saluzzo; Edizioni Nota, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico; Centro Studi Alan Lomax e con il sostegno di Piemonte Doc Film Fund - Fondo regionale per il Documentario.
Il titolo si riferisce a quelle cantine diffuse nelle colline del Monferrato, ambienti sotterranei scavati nella roccia. Il Folk Club di Torino è il palcoscenico sul quale in oltre trentacinque anni di programmazione si sono avvicendati le tante stagioni della musica folk e tradizionale italiana ed internazionale ma anche nomi del jazz, della canzone d’autore più nobile e della nuova musica acustica. Un palinsesto gestito da Francò Luca, poi, dopo la sua scomparsa e a tutt’oggi, da suo figlio Paolo (insieme a Davide Valfré dal 1997 al 2016). Un ritrovo ormai punto di riferimento in una città ritenuta a torto austera ma che – precisa Paolo Lucà nelle prime sequenze del film – è “calda palpitante e animata”. Un luogo speciale, perché la vicinanza tra artista e pubblico comporta per entrambi il vivere un’esperienza intensa.
Un intreccio di storie e memorie (tante inedite), che il documentario costruisce con immagini d’epoca e scene colte dal vivo sul palco del Folk Club, interventi di studiosi e protagonisti, tra cui gli stessi Tomatis e Paolo Lucà e artisti come Fausto Amodei, Michele Straniero, Vinicio Capossela, Giovanna Marini, Martin Hayes, Maria del Mar Bonet, Eugenio Finardi, Davide Ambrogio e Riccardo Tesi, che diventa occasione per tracciare una sinossi del movimento folk in Italia.
Perché Torino è stata la città del Cantacronache, il gruppo di intellettuali, musicisti e letterati, capisaldi del primo folk revival italiano. Se poi si allargalo lo sguardo alla prospettiva regionale, ci si ricorderà che nel Piemonte fiorisce una nuova stagione di folk music dalla seconda metà degli anni 70 figlia delle ricerche di Maurizio Martinotti, Franco Castelli, Amerigo Vigliermo, Emilio Jona con gruppi come Cantambanchi, La Lionetta, Cantovivo, Prinsi Raimund, Coro Bajolese, Ciapa Rusa, Tre Martelli, La Cantarana, Lou Dalfin e altri ancora.
Il compendio storico arriva agli anni Ottanta, mettendo al centro il disco “Bella Ciao” e, soprattutto, lo spettacolo presentato a Spoleto nel 1964 (interesse primario di studio di Tomatis, che sulla canzone e sullo spettacolo ha scritto pagine magistrali e irrinunciabili in “Bella Ciao”, pubblicato da Il Saggiatore), quello originale, diventato snodo dirompente per il successo del folk in Italia, e l’omaggio per il cinquantennale nella rivisitata orchestrazione di Riccardo Tesi con figure di rilievo della nuova tradizione. Nel documentario anche significativa anche nel documentario la lucidità con cui Davide Ambrogio rivela in poche, misurate parole la difficoltà ad usare certe categorie classificatorie (folk, popolare e tradizione). Non da ultimo il fatto che le immagini iniziali e finali ci restituiscono il suono del progetto Linguamadre (creato dalla direzione artistica e organizzativa del Premio Loano per la Musica Tradizionale Italiana) che aveva messo insieme quattro delle personalità più innovative e creative del folk italiano di questi anni.
È indubbio che dalla metà degli anni Ottanta il folk in Italia si sia trasformato, pur non uscendo di scena, anzi prosperando e aprendo la via a una nuova generazione di cultori, di nuovi strumentisti che delineano nuove traiettorie, anche con ampi riconoscimenti internazionali. Su questa nuova articolazione ancora non è stata prodotta una riflessione a tutto tondo, che superi la visione velata di nostalgia dei tempi contraddittori dell’impegno e dell’”evadere dall’evasione” e il consolidato storytelling sulla “Crëuza de mä” deandreana come capo d’opera (che certo è stato) che avrebbe dato nuova linfa alla musica tradizionale in forma “world”, ma che renda davvero conto di quanto di notevole è stato realizzato nei due decenni precedenti che portano al nuovo millennio.
Negli scritti, oltre all’intervento storico musicale di Tomatis e alla testimonianza del fondatore Lucà, lo storico del cinema Bertozzi mette a fuoco, confrontandoli i due orizzonti espressivi (musica folk e il cinema documentarista di Romanelli), Russo affida alla memoria di un viaggio il ricordo di Franco Lucà di cui vita, imprese culturali e visionarietà sono scandagliate dal figlio Paolo, nel cui intervento scritto si mischiamo sofferenze, concerti, aspettative ma anche disillusioni (Maison Musique), per far comprendere quanto sia stato difficile raccoglierne l’eredità del padre ma anche ribadire la centralità a Torino e in Italia del luogo su cui punta i riflettori il bel lungometraggio.
Ci si chiede, tuttavia, se negli scritti (e – perché no? – in parte nella stessa pellicola), l’occasione non fosse propizia per procedere oltre il primo folk revival, muovendo proprio da quella seconda metà degli anni Ottanta (quando si conclude il compendio storico musicale), per mettere a fuoco dinamiche ancora non dispiegate nella loro pienezza. Prendere in considerazione forme, strumenti, nuovi meccanismi di circolazione delle musiche ascrivibili alla tradizione orale, ragionare sulle connessioni tra fenomeni transnazionali, dare conto di ricerche, estetiche ed ambiti creativi, del farsi avanti di nuovi linguaggi e di nuovi immaginari ideologici, nuovi processi di appropriazione e di rappresentazione che alimentano la nuova onda folk in Italia.
D’altra parte, non è un caso che il FolkClub nasca proprio nel 1988, di certo collocato nella traccia storica di quel fenomeno sociale e politico che è stato il primo folk revival e che è efficacemente sintetizzato nel volume, ma che si è impiantato in uno nuovo spazio musicale su cui c’è ancora tanto da dire.
Insomma, “Infernòt” si rivela un’appassionata e ricca pagina documentaria, in cui la macrostoria (il folk revival in Italia) interseca la microstoria dell’impareggiabile palcoscenico musicale che è il FolkClub torinese.
Ciro De Rosa