Poco più di dieci anni fa, Shabaka Hutchings, con il quartetto Sons of Kemet e con l’album “Burn” proponeva un primo tassello di una originale narrazione sonora individuale e collettiva che si sarebbe poi sviluppata anche attraverso gruppi come The Comet Is Coming e the Ancestors, con album capaci di leggere con energia i segni distopici del presente, in particolare il disco che coincise con la crisi pandemica del 2020 “We Are Sent Here By History”. Proprio quel lockdown fu l’occasione per Shabaka Hutchings per praticare il flauto giapponese shakuhachi: “Ha lentamente cambiato le dimensioni del mio paesaggio musicale interiore e mi ha avvicinato a una moltitudine di altri strumenti della famiglia dei flauti", ha spiegato. "Man mano, altri flauti si sono aggiunti, come i flauti bordone Maya Teotihuacan, i pifano brasiliani, le quena andine, i flauti delle popolazioni originarie americane; ho iniziato a capire i principi di fondo che fanno risuonare questi strumenti nel modo più completo e ho usato questa comprensione per formare un approccio che mi permettesse di muovermi liberamente tra gli strumenti".
Un primo assaggio di questo approccio l’ha offerto nel 2022 con l’EP “Afrikan Culture” cui ha fatto seguito l’annuncio che il 2023 sarebbe stato un anno di transizione e che nel 2024 avrebbe sospeso la sua pratica strumentale legata ai sax e, conseguentemente, la collaborazione con i gruppi in cui suona le ance.
Il nuovo album, dedicato ai flauti, ha preso forma nel mitico Van Gelder Studio, nel New Jersey, avvalendosi della co-produzione di Dilip Harris, e si apre con il pianoforte acustico di Jason Moran e il clarinetto di Shabaka a dialogare in modo pacato su di “End of Innocence”;
nel suo profilo Instagram, Shabaka ha scritto: “Fine dell'innocenza, fioritura, comprensione del complesso legame tra lotta e crescita. Mentre i pianeti e le stelle si scontrano, assistiamo allo smantellamento di strutture (mentali, istituzionali e così via) che pretendevano di essere infallibili, che promuovevano il mito della propria longevità. Insicurezze, il percorso non è mai certo, nessun risultato è promesso se non l'insistenza di lezioni ripetute. Continuo a guardarmi alle spalle. Gestire il mio respiro, ciò che la paura era diventata. Un richiamo alle antiche tecniche di radicamento, di ricordo, di forza. Le ferite hanno bisogno di essere curate. L'energia vitale deve essere restituita allo spirito”.
La successiva e ariosa “As The Planets And The Stars Collapse” segnala il punto di svolta sonoro e ci fa ascoltare Shabaka al flauto shakuhachi sulle onde di due arpe (Brandee Younger e Charles Overton) e degli archi (violino, viola e violoncello) suonati da Miguel Atwood-Ferguson. Ognuno degli undici episodi sa disegnare una propria autonoma nicchia acustica coinvolgendo diversi partner, in particolare cantanti: Moses Sumney (“Insecurities”), Eska (“Breathing”, dove ricompare il sax di Shabaka), ELUCID (“Body to Inhabit”), Saul Williams (“Managing My Breath, What Fear Had Become”), Lianne La Havas (“Kiss Me Before I Forget”) e André 3000 che qui interviene col flauto Teotihuacan in “I’ll Do Whatever You Want” con un organico che coinvolge le tastiere (new age) Rhodes Chroma di Floating Points, la voce di Laraaji, Dave Okumu alla chitarra Guitar, Tom Herbert e Esperanza Spalding ai bassi e Marcus Gilmore e Carlos Niño alla batteria e percussioni. Si chiude con i versi scritti e recitati dal padre, Anum Iyapo, in “Sons of the Motherland”, in sintonia con il registro introspettivo e fluido che accompagna la scelta di Shabaka di far risuonare la famiglia dei flauti.
Alessio Surian