Barabàn – Il violino di Auschwitz (ACB, 2024)

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C’è di che rallegrarsi del ritorno discografico di una delle formazioni di punta nella ricerca e nella riproposta della musica tradizionale dell’Italia settentrionale che, attraversando l’arco alpino, si spinge lungo la dorsale appenninica in quell’area di comunanze umane che sono le Quattro Province. Non sono artisti qualsiasi, perché animati dalla voglia di raccontare, di trasmettere memorie, di indagare su strumenti desueti ed espressioni coreutiche, analizzare dinamiche tra colto e popolare, suonare e cantare, sempre con sensibilità e gusto contemporanei. fuori dal coro fin dall’origine, era il 1982, quando scelsero quel nome che deriva dall’aramaico “bar aba” (figlio del maestro) ma che anche un ballo e tanto altro e che nel nord Italia assume il significato di emarginato, ribelle e vagabondo. Nel 1984 – quando il folk era scomparso, secondo una risibile vulgata giornalistica italica – esordiscono con l’ottimo “Musa di pelle, pinfio di legno nero” (Madau), frutto dell’intento di presentare i repertori dell’area lombarda, dalla Valtellina all’Oltrepò, dalla montagna bresciana all’hinterland milanese. Con il secondo elleppì, “Il valzer dei disertori” (1987) presentano tematiche sociali del passato più pressanti.
I milanesi sono protagonisti di numerose ricerche etnomusicologiche in Lombardia e oltre fino all’area delle Quattro Province, ma compongono anche temi su modelli tradizionali. Tra i primi si aprono a commistioni con l’elettronica in “Naquane” (1990), dopo un “Live” (1994) pubblicano materiali sui repertori natalizi di area padana in “La Santa Notte dell’Oriente” (1996), partecipano all’omaggio in vita a Fabrizio De André, “Canti Randagi” (1995), con una formidabile versione della “Canzone del
Maggio” in milanese (che diventa “Cansun del Mag”. Saranno presenti con “Fiume Sand Creek”, anche nel meno incisivo secondo volume del 2010). Affrontano il tema delle migrazioni e della clandestinità con il notevole “Terre di Passo” (2002), che accoglie anche testi di Franco Loi. Accanto ai concerti, c’è da sempre l’instancabile attività di ricerca, con la fondazione, a partire dal 1987, dell’Associazione Culturale Barabàn, che ha prodotto e pubblicato studi, monografie e dischi sugli strumenti popolari, sulle danze, sui repertori delle mondine e tanto altro ancora. “Venti5 d’Aprile” (2005) è il loro DVD uscito in occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, tra canzoni e memorie di testimoni della Resistenza.  Più recentemente, è uscito “Voci di trincea” (2015), lavoro che ha dato voce alle testimonianze dei soldati più umili per raccontare la tragedia della Grande Guerra. Sulla scia del loro impegno civile e politico, i Barabàn hanno appena pubblicato “Il Violino di Auschwitz”, già concerto-spettacolo portato nei teatri di tutta Italia, che raccoglie canti e musiche sull’Olocausto, ma non solo. Di oltre quarant’anni di ricerca e musiche abbiamo parlato con due membri storici della band, Aurelio Citelli e Giuliano Grasso.

Siete parte della generazione del secondo folk revival: volgendo lo sguardo a quel periodo come lo racconteresti?
Aurelio Citelli - Sono stati anni di grande fervore, di ricerca, conoscenza. Dopo l’ubriacatura celtica – almeno qui nel Nord – abbiamo rivolto lo sguardo alla nostra cultura musicale, al patrimonio vocale, in buona parte già riscoperto dal folk revival degli anni Settanta, ma soprattutto ai repertori strumentali dei quali si sapeva ancora poco (penso al patrimonio del piffero delle Quattro province, alle musiche natalizie della pianura lombarda, al corpus dei balli carnevaleschi della Val Caffaro, alla tradizione violinistica della collina pavese, al repertorio di campane delle Alpi bergamasche). C’erano strumenti musicali da ricostruire, come la müsa (di cui esce in questi giorni per ACB, la nostra etichetta, un esaustivo saggio di Daniele Bicego intitolato “Cantami, o müsa. La cornamusa delle Quattro Province”), il lavoro di costruttori e liutai da sostenere, il rapporto con gli enti pubblici da costruire. Noi ci siamo buttati a capofitto in questo mondo con l’obiettivo di diffondere la conoscenza della tradizione musicale del Nord
Italia attraverso progetti culturali e di spettacolo, la produzione di materiali sonori e film, l’organizzazione di eventi e momenti didattici. 

Barabàn è uno dei pochi gruppi di revival che erano apprezzati da Roberto Leydi. Come era connotata la vostra riproposta e qual è stato il vostro rapporto con questo padre dell’etnomusicologia italiana (e non solo)?
Aurelio Citelli - Non so se Leydi apprezzasse il nostro lavoro di riproposta: certamente valutava positivamente le nostre ricerche che si rifacevano ai modelli dell’Ufficio Cultura del Mondo Popolare della Regione Lombardia da lui promosso. Roberto non è stato tenero con il folk revival degli anni Ottanta, esprimeva riserve specialmente nei confronti della riproposta vocale: credo fosse un giudizio ingeneroso. Molti interpreti della “seconda ondata” hanno forse operato meno nel campo della ricerca e dello studio teorico ma, in molti casi, hanno prodotto performance vocali nettamente superiori a quelle dei loro predecessori. Non bisogna dimenticare che negli anni Ottanta tra l’etnomusicologia italiana e il folk revival si era creato un solco: accuse di “purismo” e accademismo da un lato e asservimento ai modelli celtici e d’oltralpe dall’altro. Schermaglie puerili che hanno danneggiato tutti. All’inizio la nostra riproposta si rifaceva alle tendenze degli anni Ottanta: repertorio regionale, uso di strumenti acustici con particolare attenzione a quelli ancora presenti o dei quali vi era memoria (piffero, musa, violino, organetto diatonico, chitarra, flauti), cura della vocalità sia nella forma solistica che corale. E, poi, attenzione a tutti quei repertori mai, o quasi mai, presi in considerazione come il canto da piffero, le musiche natalizie, i balli della collina pavese, i canti antimilitaristi. Più tardi si è sviluppato un legame forte nei confronti delle tematiche civili,
impegno che dura tuttora.

Avete partecipato a “Canti Randagi”, l’omaggio in vita a Fabrizio De André: che ricordi avete di quella incisione, che poi ha avuto anche un secondo capitolo…
Giuliano Grasso - Un bel ricordo, è stato un progetto interessante che in quel periodo ci ha permesso di avvicinare un pubblico diverso dal solito. Alcuni speravano che fosse anche un’occasione per “sdoganare” un po’ il nostro genere, spesso snobbato dai media. In realtà poi, nonostante sia stato un bel disco apprezzato dalla critica e che è andato presto esaurito, la Ricordi non l’ha più voluto ristampare e addirittura il secondo volume, ormai senza più Fabrizio, è passato sotto silenzio. Su Barabàn, però, questa esperienza ha lasciato un segno: per anni abbiamo eseguito in concerto il brano di quel disco e tuttora abbiamo uno spettacolo, quello contro la violenza sulle donne, dove eseguiamo diverse canzoni di Fabrizio. 

Siete stati tra i primi a sperimentare con l’elettronica…
Aurelio Citelli - Sì, sia attraverso l’uso di strumenti non acustici, sia con l’uso di suoni campionati, sequencer e altre diavolerie digitali. Siamo sempre alla ricerca di un equilibrio tra le sonorità, i repertori, la memoria del mondo popolare - che rimangono la nostra stella polare - e la tecnologia che, se governata in modo intelligente, può essere utile. 

A un certo punto vi siete allontanati dalla riproposta folk: cosa è accaduto? 
Aurelio Citelli - Da anni il “revival” del Nord Italia, tranne lodevoli eccezioni, appare stanco, rinchiuso in spazi angusti, ripetitivo, senza idee. Allargare l’orizzonte mescolando le suggestioni che ci arrivano da altre esperienze culturali e musicali – come i repertori da ballo degli immigrati italiani nelle Americhe o la letteratura di grandi poeti del nostro tempo come Franco Loi e Francesco Biamonti - rinnovare il repertorio uscendo dai confini regionali, ci è parso un modo per incontrare un pubblico diverso, per comunicare in modo più efficace e immediato. Anche per questo abbiamo allestito spettacoli tematici: quelli dedicati alla donna, alla Grande Guerra, alla cultura musicale alpina, al tempo del Natale, alla Shoah, alle danze italiane. Spettacoli che lanciano messaggi, anche sul tempo di oggi, e che cercano di 
trasmettere emozioni. 

Il lavoro di ricerca e documentazione è sempre stato centrale: in quali aree della Lombardia avete svolto le vostre indagini?
Giuliano Grasso - Agli esordi la ricerca è stata anche una necessità, la musica popolare del Nord era poco conosciuta e nonostante ci fosse un bell’archivio regionale abbiamo voluto andare a trovare di persona la musica per i nostri spettacoli, in modo da creare un nostro repertorio originale. All’inizio abbiamo raccolto molto in Lombardia, soprattutto nella montagna pavese e bresciana, ma anche nel milanese, in Lomellina, nel piacentino e nel Verbano. Poi abbiamo esteso la raccolta anche ad altre regioni: Friuli, Liguria, Emilia… il nostro archivio oggi dispone di un patrimonio di molte centinaia di ore di registrazione sia audio che video. In generale crediamo sia stato molto importante conoscere direttamente come questa musica fosse eseguita nel mondo popolare in modo che la riproposta attuale, anche se non filologica ma improntata alla creatività, sia comunque sempre consapevole dei contenuti e della storia del materiale trattato.

La documentazione dei materiali della cultura orale in Lombardia – qui penso a Bruno Pianta – ha avuto tratti di unicità nel nostro Paese in termini di interesse delle amministrazioni pubbliche.
Aurelio Citelli - Per molti, noi fra questi, i libri, dischi e film prodotti dall’Ufficio Cultura del Mondo Popolare (ora AESS, Archivio di Etnografia e Storia sociale) sono stati una scuola. Nel corso degli anni abbiamo avuto la fortuna di collaborare con Bruno Pianta che dirigeva quell’Ufficio la cui attività è stata unica in Italia per le metodologie di ricerca utilizzate e la qualità della produzione editoriale. Dietro, ancora una volta, c’erano il bagaglio culturale, le intuizioni e i rapporti intessuti da Leydi.

Il rapporto tra colto e popolare si fatto più intenso nel suono di Barabàn rispetto ai tempi del revival? 
Giuliano Grasso - Diciamo che nel tempo è maturata la consapevolezza del nostro ruolo. Nei primi gruppi folk vi era una confusa convinzione di eseguire musica “tradizionale”. In realtà quest’ultima ha veramente poco in comune con le esecuzioni dei gruppi di revival, che hanno invece aderito ad un modello di folk europeo, influenzato da quello francese, che ha costruito i propri canoni estetici e i propri stereotipi, esattamente come hanno fatto il rock, il jazz o il pop. Un genere nato con la suggestione di ricostruire un immaginario mondo sonoro arcaico che, ove esistito, era spesso diverso da quello idealizzato. Oggi chi compone voci, arrangiamenti o elaborazioni compie una operazione che è colta per definizione anche se ripropone materiale popolare, cosa che del resto hanno sempre fatto tutti i grandi compositori di musica “classica”. Anche la musica di Barabàn è una espressione colta, somma di singole esperienze e attitudini che si fondono in una costante narrazione del mondo popolare così come noi lo abbiamo direttamente conosciuto. 

Poi la vostra discografia si è concentrata su temi specifici: “Natale”, “Terre di passo”, la poesia, la Prima guerra mondiale, la Resistenza...
Giuliano Grasso - Teniamo molto al lavoro culturale che accompagna la nostra musica, il poter comunicare qualcosa che dà valore aggiunto ai nostri spettacoli e arricchisce il pubblico. Ci piace rappresentare il mondo popolare raccontando storie, grandi e piccole vicende viste dalla parte del popolo, di chi spesso non ha alcuna voce in capitolo ma è comunque coinvolto negli eventi della grande storia ed
elabora una propria originale risposta agli stessi, siano la guerra, la religione, l’emigrazione etc. È proprio nei nostri spettacoli a tema, spesso contenenti proiezioni video che li avvicinano a performance teatrali, che riceviamo i maggiori consensi da parte di un pubblico che non è quello dei grandi raduni ma che apprezza l’opportunità di ascoltare della buona musica in grado di offrire anche importanti spunti di riflessione.  

Barabàn ritorna ad incidere dopo parecchi anni. Cosa è successo in questi anni quasi dieci anni?
Aurelio Citelli - È “successa” la vita. Abbiamo continuato ad allestire spettacoli in Italia e all’estero, fare ricerca, raccogliere documenti sonori e visivi, prodotto video-documentari, libri, DVD. Dopo il disco “Voci di trincea”, dedicato alla Grande Guerra, e ora uscito “Il violino di Auschwitz”: sono progetti discografici che nascono dall’attività concertistica e che, anche considerando la non ottima salute dell'album (Barabàn, per scelta, non è sulle piattaforme digitali), escono con tempi molto diluiti.

In che rapporto è il disco “Il violino di Auschwitz” con il percorso musicale e politico di Barabàn? Come avete costruito il programma dell’album?
Aurelio Citelli - Il nuovo album nasce dall’omonimo spettacolo multimediale dedicato all’Olocausto che Barabàn porta nei teatri dal 2010: è un progetto dove mescoliamo le liriche di Kambanellis-Theodorakis, come Asma Asmaton alle musiche klezmer, la ninna nanna “Wiegala” di Ilse Weber (poetessa e musicista amatoriale che cantò l’ultima volta questo brano al figlio Tommy ad altri bambini prima di entrare nelle “docce” di Auschwitz-Birkenau) ai valzer chassidici, la profondità poetica di Paul Celan alle musiche 
rom, le Danze resiane” a “Die Moorsoldaten” (I soldati della Palude), composto nel campo di Börgermoor (in Germania) nel 1933 come sfida alle SS e alle SA e che negli anni della Seconda guerra mondiale si diffuse in tutti i campi diventando una sorta di inno della Resistenza europea. Della “Trilogia di Mauthausen” di Kambanellis-Theodorakis abbiamo inserito anche la celebre “Andonis” dove si narra la storia di un prigioniero che per aiutare un altro detenuto porta non uno ma tre pesanti massi su per una scala di 180 gradini, sfidando così la guardia nazista; ci siamo ispirati alla versione che venne eseguita da Maria Farandouri allo stadio Karaiskakis di Atene il 10 ottobre 1974 quando cantò, accompagnata dall’orchestra popolare di bouzouky diretta da Theodorakis, di fronte a migliaia di giovani che festeggiavano la caduta dei Colonnelli: un momento topico per la democrazia greca ed europea.

Che importanza hanno i testi nel vostro repertorio?
Aurelio Citelli - La parola è l’essenza di un disegno musicale: anni fa, per “Terre di passo”, abbiamo lavorato sui testi di Loi, sulle suggestioni di Biamonti, tra i più profondi autori del nostro tempo. Da anni portiamo in spettacolo le più belle canzoni sulla donna di De André che, intrecciate a brani di letteratura contemporanea (Maraini, De Gregorio e altre scrittrici) e a canti della tradizione popolare, costituiscono il cuore del nostro spettacolo sulla violenza di genere “Voce al silenzio”. Ne “Il violino di Auschwitz” le canzoni hanno testi di grande forza, a partire dal brano di apertura, “Capelli di cenere” adattamento della celebre poesia di Paul Celan “Tudesfuge”, che pur non citando mai i campi di sterminio è diventato l’emblema poetico della riflessione critica intorno all’Olocausto: un duro atto di accusa contro gli 
sterminatori nazisti.

Riprendete pure “Lullaby” di Bregovic.
Aurelio Citelli - È: un omaggio a un musicista e compositore che stimiamo, ma soprattutto a Sarajevo, città multi-etnica, simbolo di convivenza tra diverse religioni, etnie, popoli che nel Novecento è stata al centro di immani tragedie. L’album, e lo spettacolo, coniugano musica e memoria, storia e cultura, accostano la ricchezza e la vitalità delle musiche di comunità che la follia nazista voleva cancellare ai canti antirazzisti e “concentrazionari”: è frutto di un percorso musicale e di una sensibilità che non chiudono gli occhi di fronte a ciò che è accaduto, e accade, in Europa e nel mondo.

E c’è anche “Dona, Dona”, di cui da noi si conosce la versione italiana di Herbert Pagani in cui canta “Ti racconto questa storia/ perché un giorno pure tu/ dovrai fare l’impossibile/ perché non succeda più”. Eppure dagli anni ’90 in poi nel cuore dell’Europa, prima si parlava di Sarajevo, e in Medioriente assistiamo a forme di violenza e di sterminio di massa… 
Aurelio Citelli - Oltre ad avere una bella melodia, Il capretto – traduzione della famosa “Dos kelbl” (“Dona, Dona”) di Sholom Secunda, derivata a sua volta da una canzone popolare polacca – lancia messaggi contro l’indifferenza, esorta a non tacere di fronte ai soprusi, anche a quelli più piccoli. Inoltre, ci piaceva l’idea di ricordare la figura di Herbert Pagani, ebreo, uno dei cantautori più anticonformisti del panorama musicale italiano. Fuggì dalla Libia per sottrarsi ai pogrom antisemiti. Purtroppo non si impara mai a sufficienza dalla storia, basti pensare al recente genocidio di Gaza, o al massacro di Buča, in 
Ucraina. “Dona, Dona” è un piccolo gioiello musicale e poetico che parla del rispetto dei diritti umani e delle libertà. E si inserisce perfettamente nel nostro percorso.

Tra le danze ci sono anche melodie provenienti dal mondo Rom...
Giuliano Grasso - Come sempre, oltre a prendere spunto dal fenomeno unico e, speriamo, irripetibile della shoah, il disco è anche un pretesto per una riflessione più generale sulla violenza dell’uomo sull’uomo, per ricordare anche altre comunità che hanno subito un Olocausto. Sinti e Rom furono perseguitati dal nazismo insieme a tante altre minoranze, etniche, politiche o intellettuali e ci è sembrato giusto ricordare anche il carattere “trasversale” della violenza nazifascista.

Infine, concludete con una suite di danze resiane…
Giuliano Grasso - Anche qui, abbiamo usato la particolare musica della comunità alloglotta resiana come simbolo. Fra le minoranze che furono perseguitate vi erano infatti anche quelle che parlavano le lingue slave, dislocate lungo il confine orientale del Friuli o nella Venezia Giulia, che spesso finivano in appositi campi dove morivano di inedia o di torture. I più sfortunati finivano nel campo di Arbe, in Dalmazia, un esempio delle inenarrabili atrocità compiute dai fascisti in Jugoslavia, crimini che hanno poi generato un violento odio contro tutti gli italiani. Cinque o sei Lager per slavi esistevano anche in Veneto e in Friuli ma della loro esistenza oggi è stata fatta sparire ogni traccia. 

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