Barabàn – Il violino di Auschwitz (ACB, 2024)

Chi suona nell’album?
Aurelio Citelli - Insieme ai membri storici, Vincenzo Caglioti (organetti diatonici e cori), Giuliano Grasso (violino e cori) e al sottoscritto (voce solista, tastiere, bouzouky e percussioni) compaiono i musicisti dell’attuale line up di Barabàn: Maddalena Soler (voce solista e violino), Alberto Rovelli (contrabbasso e cori) e il nuovo acquisto Antonio Neglia che, oltre a cantare, ha suonato le chitarre (acustica e classica) e il bouzouky. In alcuni brani compaiono poi il raffinato violino di Francesco Grasso, i clarinetti di Gianluigi e Matteo Midali, pregevoli musicisti del Corpo Bandistico di Rosate e la chitarra di Paolo Ronzio.

C’è un passaggio di generazione con il giovane Grasso al violino…
Giuliano Grasso - Barabàn ha spesso avuto ospiti nei propri dischi ed è fisiologico che col passare degli anni i nostri collaboratori siano giocoforza più giovani di noi. Un passaggio generazionale c’è già stato anni fa con l’ingresso di Maddalena Soler che è di una generazione successiva a quella del nostro nucleo fondatore. Oggi è gratificante vedere che ottimi giovani musicisti, Francesco suona stabilmente in orchestra e Matteo in Banda, si siano prestati a un progetto che non rientra certo nei modelli culturali che vengono proposti ai giovani dai media. 

Tra i collaboratori ci sono anche il direttore e un musicista del Corpo Bandistico di Rosate. E qui apriamo una parentesi sulla vostra ricerca sul rituale della Piva Natalizia. Di cosa si tratta?
Aurelio Citelli - 
Gianluigi Midali, direttore della banda di Rosate, e il giovanissimo Matteo, figlio di Gianluigi – due assi del clarinetto – hanno partecipato con entusiasmo a questo lavoro. Con la banda di Rosate (MI), uno dei più stimati e ben diretti sodalizi musicali lombardi, vi sono da tempo oltre a una reciproca stima, forme di collaborazione. Tutto è nato dalla ricerca sulla Piva natalizia avviata da Giuliano e da me nel 1983 e poi pubblicata nel volume “La Piva natalizia tra Milano e il Ticino” edito nel 2019. La Piva è un rito molto diffuso, specie nel Milanese, che deriva dalla tradizione Ottocentesca di fare una questua per la novena natalizia da parte di suonatori di strumenti pastorali (cornamuse, pive, zampogne, pifferi), provenienti sia dal Nord che dal Centro-Sud Italia. Oggi sono i suonatori delle bande locali a continuare questa tradizione e la Piva di Rosate, fra le poche a svolgersi ancora di notte, è indubbiamente sia sotto il profilo musicale che rituale, la meglio conservata.
L’abbiamo raccontata nel libro e in un video allegato al volume.

Un’altra importante ricerca è quella tua, Giuliano, sulla Monferrina, il cui esito è stato il volume “La Monferrina”, sempre pubblicato dalla vostra Associazione. Che rilevanza ha avuto questa danza?
Giuliano Grasso - La Monferrina è un chiaro esempio di quanto ancora poco si sappia della nostra musica: si tratta della danza popolare più diffusa nel nord Italia ma della quale nessuno conosce l’interessante e intrigante storia che ne ha fatto un grande fenomeno di moda in tutta l’Europa dell’Ottocento, dalla Francia, alla Germania, dalla Bretagna all’Inghilterra. Anche qui il soggetto è in realtà un pretesto per indagare seriamente le misconosciute origini del nostro repertorio tradizionale, nonché il rapporto fra musica colta e popolare e fra musica scritta e orale, temi che nel libro vengono ampiamente approfonditi e documentati. 

Vi siete anche occupati di medicina popolare…
Giuliano Grasso - La nostra conoscenza della cultura popolare delle Quattro province un territorio dove svolgiamo intense ricerche su vari temi sin dai primi anni Ottanta, ci ha portato a esplorare anche il mondo 
dei guaritori di campagna che ancora praticano il “segno”, un fenomeno ancora vivo sul quale abbiamo intensamente lavorato per un intero anno (avevamo già fatto una analoga ricerca trent’anni orsono nel Piacentino) raccogliendo segni e formule magiche registrati anche in video. Una ricerca che documenta la persistenza di rituali di guarigione, assimilabili a quelli studiati in Lucania da de Martino negli anni Cinquanta, che abbiamo raccolto nel libro “Int u segnu”, uno dei titoli tuttora più richiesti della nostra collana di ricerche etnografiche che, come le altre nostre produzioni, si può ordinare online al negozio della Fototeca Gilardi che ci distribuisce.

Dal vostro osservatorio, come guardate al mondo del nuovo folk o nuova musica tradizionale in Lombardia e, allargandoci, nell’arco alpino?
Giuliano Grasso - Archiviati i revival degli anni Sessanta e degli anni Ottanta, sembra che oggi non ci sia un nuovo filone precisamente caratterizzato. Da una parte c’è il fenomeno bal folk, un mondo dove prevale l’aspetto ludico-ricreativo e che in genere mostra poco interesse verso la cultura delle classi popolari. Altri artisti cercano invece di sviluppare una via autoriale alla musica di tradizione indirizzandola verso composizioni più elaborate e ritagliandosi una propria nicchia di pubblico, ma non vedo un movimento organico come nel passato. Per fortuna l’autentica musica “tradizionale”, quella che viene eseguita in determinate occasioni e località, negli ultimi decenni ha dato qualche visibile segnale di rinascita e in alcune situazioni è tornata a svolgere, pur tra difficoltà, il ruolo che ha sempre avuto nel mondo popolare, cioè un momento di coesione delle comunità. Mi riferisco ai tanti repertori musicali che nell’occasione di particolari feste o rituali ancora caratterizzano alcune vallate, anche nella moderna e industrializzata Lombardia.

Dal vivo, preferite il recital tematico o un concerto che dia il senso del vostro lungo percorso artistico? 
Aurelio Citelli - Da molti anni la nostra attività concertistica si basa quasi esclusivamente su concerti tematici – si trovano tutti sul nostro sito – spettacoli che seguono un filo coerente dove l’esecuzione di musiche e canti, è talvolta intrecciata alla proiezione di video, alla lettura di testimonianze o di poesie, a performance coreutiche. È un’impostazione mutuata dal teatro, che tuttavia non svilisce l’aspetto musicale che anzi, talvolta, ne risente positivamente, acquista un quid in più.


Barabàn – Il violino di Auschwitz (ABC, 2024)
Di meriti ne ha tanti “Il violino di Auschwitz”, che accoglie i temi di uno spettacolo multimediale sulla memoria che i Barabàn portano in scena da tempo. Una proposta artistica interpretativa, capace di attingere a storie locali, testimonianze, etnografie come a un canzoniere storico e contemporaneo che mette al centro una delle pagine più nefaste del Novecento. Oltre che per la specificità del tema, l’album si segnala come chiusura di una trilogia iniziata con “Venti5 d’Aprile” e proseguita con “Voci di trincea”.
Il programma si snoda in tredici tracce, a partire da “Capelli di cenere”, tema di taglio autoriale di Aurelio Citelli, contenente una citazione della danza tradizionale klezmer “Araber Tanz”, che sostiene un adattamento dei versi di “Todesfuge” (Fuga di morte), la lirica di Paul Celan, potente riflessione sull’orrore dell’Olocausto. È il clarinetto a guidare la suite strumentale “Bublichki - Ma Yofus”, in cui il primo motivo è la versione strumentale di una canzone della Russia degli anni Venti del ‘900, costruita su una melodia ebraica, che denuncia la condizione di disagio del popolo, spinto a vendere in strada dolcetti (è il significato di bublichki) per sopravvivere; la canzone fu proibita sino agli anni Ottanta e divenne molto popolare in clandestinità. Nella seconda parte il gruppo lombardo ripropone una composizione tra le più note del repertorio dei musicisti ebrei ashkenaziti, che marcava passaggi significativi della vita sociale degli shtetl dell’Europa orientale. Finemente interpretata da Maddalena Soler, segue “Andonis”, una delle canzoni della “Trilogia di Mauthausen”, composte dal poeta e drammaturgo greco Iakovos Kambanellis al suo ritorno da sopravvissuto dal campo di sterminio, e musicate da Mikis Theodorakis. L’organetto diatonico apre la via alla “Hora Tiganeasca”, danza romena dal repertorio del celebre virtuoso del flauto di pan Gheorge Zamfir – arrangiata con gusto per violini, organetto, contrabbasso, chitarra acustica e pianoforte –, emblema della persecuzione e sterminio delle popolazioni Sinti e Rom. Dal repertorio concentrazionario c’è “Die Moorsoldaten”, la cui genesi è tutta da conoscere e ben raccontata nelle note che accompagnano il lavoro e divenuta un inno della Resistenza tedesca, eseguita in tedesco e italiano. Si produce un’accoppiata di violini (Grasso e Soler) nel bel “Set klezmer”, medley che riunisce “Sherele”, una sorta di contradanza figurata imperniata sulla scala Freygish, un modo frigio alterato con la terza maggiore, e una danza da matrimonio delle comunità ebraiche ungheresi. “Dos kelbl” (ossia “Dona, Dona”) fu scritta negli anni Trenta dal musicista ebreo Sholom Secunda a partire da una canzone popolare polacca. Il testo in yiddish è di Aaron Zeitlin, con musica dello stesso Secunda; Dalle nostre parti è nota per la versione italiana cantata da Herbert Pagani. Il motivo successivo è un valzer di tradizione chassidica. Invece, “Wiegala” è una struggente ninna nanna della scrittrice Ilse Weber, cantata per l’ultima volta nell’ottobre del 1944 ad Auschwitz, prima che arrivasse la sua fine insieme al figlio Tommy e altri bambini. Proposta in un’esecuzione live, “Lullaby” di Goran Bregovic apre lo sguardo a un altro orrore del finire del Novecento. Giuliano Grasso ha composto la melodia di “Il viaggio di Marollo / Battare prosciutto”, ispirata alla testimonianza de fotografo e giornalista Ando Gilardi, che rievoca le gesta del comandante partigiano Primiano Marollo, che dopo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz fece diversi viaggi su una vecchia nave da carico trasportando di notte forniture clandestine di armi provenienti dall’Europa dell’est, destinate dall’URSS al nascente esercito israeliano. Il secondo brano è un classico della tradizione musicale klezmer, solitamente eseguito durante le feste di matrimonio. “Con “Asma Asmaton” si ritorna alla coppia Kambanellis/ Theodorakis. Concludono il lavoro quattro “Danze resiane” (Ta Bantava, Ta Solbaska, Pravimi no pravico, Ta lipavska) a rammentare che la violenza nazista, sostenuta dal fascismo, si abbatte anche sulle comunità alloglotte del Friuli orientale, deportate negli speciali campi di concentramento “per slavi”.  
Memoria come forza attiva nel presente: il “Violino” dei Barabàn è opera resistente, contro la brutalità di tutti i tempi.


Ciro De Rosa

Foto di Elena Piccini (1); Roger Berthod (2, 3, 10); Ralf Schulze (4, 5, 6); Federico Buscarino (7, 8); Luca Cattaneo (9)

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