Of yiddish love and hate

 “...quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore...”  
Liliana Segre
Mi sono permesso di plagiare nel titolo il terzo disco del compianto Leonard Cohen, sommo cantore biblico dell’era rock, in virtù della risaputa genealogia delle sue origini. Parlare d’amore è una delle cose che le canzoni yiddish sanno fare benissimo, “farlibt” come molti vocaboli ebraici, proviene dal tedesco “verliebt” ovvero “innamorarsi”, la parola “amore” non esiste nel vocabolario yiddish, quella che comunemente utilizziamo in termini romantici è pura invenzione della cosiddetta civiltà occidentale. Ma sono certo che anche dall’altra parte del mondo, seppure Violeta Parra avesse conosciuto le atrocità inflitte al suo Paese, avrebbe ugualmente cantato “...ciò che può l’amore non lo ha potuto la conoscenza, neppure il procedere più chiaro, neppure il pensiero più vasto...solo l’amore con la sua scienza ci rende innocenti...è un turbine di purezza originale, perfino l’animale più feroce sussurra il suo dolce canto…”. Alcuni torturatori del boia Pinochet erano d’altronde gli stessi criminali fuggiti in America Latina dalla Germania nazista. “Dimmi, cosa ti aspettavi di vedere in quel cervello aperto dopo che la città ebraica è stata fatta a pezzi? “Forse l'eterno che sopravvive alla morte; io gli ho anche dato un nome: nucleo radiante.” (Abraham Sutzkever, 1913 - 2010). Dell’odio si finisce per riparlare continuamente, non solo per non dimenticare ma anche perché nelle nostre società “progredite” e “multi-etniche” ne vengono offerte ciclicamente occasioni. A poco sono evidentemente valse le pagine di Dante Alighieri, se così in tanti sembrano sempre preferire le latrine dell’universo e le storie che finiscono nell’orrore, confondendo “Divina Commedia” con Divina Tragedia.
Già nell’Europa medioevale si coglievano radici d’antisemitismo quando le comunità ebraiche venivano saccheggiate regolarmente in forma di vendetta per presunti rapimenti o assassinii rituali di bambini cristiani. Lo raffigurano svariate stampe tedesche del XVI secolo, lo lasciano intuire murder ballads inglesi come “Sir Hugh”. Ma terrore e odio nero riprendono fiato periodicamente un po’ ovunque, nonostante siano trascorsi oltre cinque secoli da quando duecentomila Sefarditi furono costretti dagli indegni regnanti Ferdinando e Isabella, a fuggire, dopo settecento anni di convivenza, verso Portogallo, Navarra, bacino Mediterraneo, Est Europa. Da quando si rifugiarono nell’Impero Ottomano dove all’infame decreto di Alhambra, l’ottavo Sultano musulmano Bayezid II “il Saggio” rispondeva inviando navi, impartendo severe istruzioni per l’accoglienza dei profughi e minacciando di morte chi li respingesse. Quell’illuminato sovrano era mecenate sia di cultura orientale e occidentale, protettore di poeti e aveva studiato arabo, persiano, matematica, teologia e filosofia. E poi, dopo l’allucinate “purezza del sangue” inseguita dai tribunali spagnoli del Consiglio dell'Inquisizione Generale e Suprema a fine ‘400, toccò ai tremendi pogrom del 1880 in Russia che provocarono l’emigrazione di migliaia di Ebrei polacchi, rumeni e russi. La cultura yiddish è però sempre rinata, portando musica carnale e parole ancestrali all’interno del proprio teatro umano di tragedia e assurdità. È un vivo e vibrante monumento alla memoria che ha subìto una serie continua di scossoni anche nel corso del XX secolo. Il popolo ebraico ha ricevuto “in dono” perfino un’improbabile e falsa “terra promessa” di trentaseimila chilometri quadrati, creata da Stalin nel 1934 ai confini con la Cina. Provincia autonoma confezionata appositamente per loro (“Evrejskaja
avtonomnaja oblast” in russo, “Yidishe avtonome gegnt” in yiddish) che avrebbero dovuto vivere in quella remota località siberiana a sette fusi orari da Mosca, piena di paludi, permafrost e terra dura. Il suo nome, Birobidžan, deriva dall’unione di Bira e Bidžan, i due affluenti del fiume Amur che l’attraversano. Gli Ebrei Russi venivano considerati etnia e non gruppo culturale, al pari di Tartari, Ucraini o Ceceni e catapultati tra zanzare e sciami di moscerini, quaranta gradi sotto zero d’inverno, piombarono nel grande inganno: più che di una “terra promessa” si trattava di una specie di “fine del mondo”. A Stalin va attribuita, come ultima infame azione in vita, anche la “Notte dei poeti assassinati”, ovvero l’esecuzione di tredici ebrei sovietici ingiustamente accusati di spionaggio e condannati a morte nella prigione moscovita di Lubjanka. Tra loro cinque scrittori del JAC (Jewish Anti-Fascist Committee) che l’aveva sostenuto contro Hitler nel corso della seconda guerra mondiale. Se ne parla tanto ma non tutto si sa nemmeno dell’Olocausto, non esistono documenti ufficiali a certificare il numero reale delle vittime poiché nell’ultimo anno e mezzo di conflitto i nazisti interruppero di documentare l’orrore dei lager. Quando intuirono che per loro sarebbe finita male distrussero gran parte delle prove del tentato sterminio di massa degli ebrei dalla faccia della terra. Come scriveva su Le Monde il 29 aprile 1995, la grande giornalista bretone Anniek Cojean: “I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini uccisi con veleno da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini bruciati da diplomati in scuole superiori e
università. Diffido, quindi, dall’educazione. Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti.”
Tra le conseguenze minori e collaterali va annotata anche la poca presenza sulla scena folk mondiale delle sfortunate canzoni tradizionali tedesche, storie di boschi e foreste teutoniche che, come per la ballata epica dei Nibelunghi, sono state infettate da mano e marce naziste. Qualcosa continua a resistere di quei canti di cinque secoli fa che nel tempo affascinarono compositori come Petrovič Musorgskij, Béla Bartók, Ralph Vaughan Williams o Luciano Berio. Il mondo intellettuale musicale folklorico contemporaneo ne parla poco ma qualche madre canta ancora ninnananne imparate al tempo dell’infanzia. Come tutte le altre narrano anch’esse con misteriose parole, di cavalieri disperati, principesse delle acque, chiavi magiche, spiriti dai poteri sconosciuti, messaggeri di profezie, del sibilare della falce del “Triste Mietitore”. I temi tradizionali sono universali. La lingua yiddish in fondo può essere intesa anche come una varietà di tedesco e, per i suoi argomenti liturgici di carattere biblico, la cultura ebraica ha generato canzoni che incorporano pure elementi di tradizione germanica (oltre che polacca, rumena, ungherese, araba…). Ma nonostante il secolo passato sia arazzo di fallimenti e brutalità e su questa terra alcuni abbiano prodotto enormi e devastanti depressioni globali, c’è sempre un barlume di ottimismo da qualche parte nel fondo della disperazione. Una piccola luce raggiante nel buco di un pozzo nero. Il Mahatma Gāndhī sosteneva “Quando perdo speranza ricordo che nel mondo ci sono tiranni e assassini, per un certo periodo sono sembrati invincibili ma alla fine non hanno mai vinto”. L’anarchico poeta bretone
Armand Robin (1912 - 1961) nell’ottobre 1943 ebbe perfino il coraggio di inviare una lettera al quartier generale della Gestapo che allora si trovava in Avenue Foch 82-84 nel XVI arrondissement di Parigi. L’ingenua missiva, che non venne presa ovviamente in alcuna considerazione, recitava: “...io vi disapprovo di una disapprovazione per la quale non esiste nome in nessuna delle lingue che conosco, siete degli assassini, signori e siccome la caratteristica principale dei criminali è soprattutto di essere ignoranti, dovrei perdere tempo a segnalarvi le camere a gas motorizzate che voi fate circolare nelle città russe oppure i campi in Polonia in cui fate morire milioni di innocenti…”. L’odio non ha limiti e si nutre della dimenticanza: in Provenza nel 1990 vennero profanate le tombe ebraiche del cimitero di Carpentras, sede della sinagoga più antica di Francia (1367), un luogo che aveva saputo attraversare Rinascimento e Rivoluzione Francese. In quell’occasione delle persone vive arrivarono a impalare un cadavere “…i venti dell’oblio spengono i nomi e tutte le nascite hanno il volto delle macerie” (Leyzer Aychenrand, Paesaggio del Destino, Tel Aviv, 1979). Comunque la fiammella, coraggiosamente nutrita dalla gioia che autori yiddish sono stati capaci di creare da indicibili dolori, è riapparsa sempre in poesia e musica. Negli angoli più riposti di una canzone o di una poesia, in mezzo a qualche sconquasso, rispuntano brandelli di fiducia e fratellanza. Come testimonia la sovversiva “Dachaulied” composta a memoria nel lager, da due prigionieri (Jura Soyfer, testo e Herbert Zipper, melodia): “Filo spinato carico di morte è teso tutto intorno al nostro mondo, sopra un cielo privo di pietà invia gelo e raggi roventi...ma un giorno la sirena annuncerà l’appello finale, ci sarai tu e la libertà riderà di noi...”. Perfino una piccola
canzone può rivelare l’insulsa ottusità di un regime come fece l’irresistibile swing di “Bei Mir Bistu Shein” composta per un musical nel 1932 da un emigrato ebreo-ungherese e da uno ucraino, sfuggiti ai pogrom. Rappresentava un hit popolarissimo e ballato allegramente da tutti nella Germania nazista finché un giorno si scoprì l’identità giudaica dei suoi autori e “dunque” venne vietato all’istante in tutto il Paese. E sempre luminosissima, risplenderà la stella di Mordechaj Gebirtig, monumentale e umilissimo folk-singer dell’amore negli abissi del ghetto. Colui che da povero cronista musicale descrisse tanto mirabilmente il gusto di paradiso racchiuso nelle grandiose e miserabili esistenze dei lavoratori ebrei. Questo falegname-poeta, vera impersonificazione del bene, sapeva riflettere nelle sue parole l’anima di un popolo intero. Non è servito a niente falciarlo in una strada di Varsavia, le sue icastiche canzoni hanno sfondato porte e finestre, scavalcato mura e fili spinati anche dei luoghi dove le lancette battevano sempre la stessa ora. Sono diventate un patrimonio che ha messo radici per l'eternità e continueranno ancora a rimbombare diuturnamente dai teatri europei, di Buenos Aires, Johannesburg, Montreal, New York, Sydney o Tokyo. Risuoni forte oggi anche per lui, questo struggente inno sefardita composto da Flory Jagoda (Sarajevo 1923 - Alessandria 2021) nell’interpretazione della svedese Louisa Lyne (con Mohammad Reza Mortazavi e Di Yiddishe Kapelye):


Flavio Poltronieri

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