Baìa Trio – Sono (K-Brothers/EgeaMusic, 2023)

Enrico Negro (chitarra acustica, classica, elettrica, basso elettrico e voce), Francesco Busso (ghironda elettro-acustica e voce), Gabriele Ferrero (violino, mandolino, sax soprano e voce) condividono note ed esperienze. I loro nomi scorrono fianco a fianco alla crème de la crème delle musiche tradizionali dell’arco alpino occidentale. ‘Suonadour’ di classe, funzionali al ballo nelle feste delle valli occitane e all’intrattenimento nell’informalità di un’osteria, ma anche performers che spingono sul pedale del tasso espressivo e spettacolare sui palchi folk in Europa: Gran bal de l’Europe a EtèTrad e Folkest, solo per citarne qualcuno tra quelli che contano. Il primo album dei cuneesi, “Coucanha” (Rox Records), datato 2016, ci era piaciuto tanto; coglie nel segno anche il secondo capitolo, “Sono”, che scorre gioioso, solido e intenso, registrato e mixato live presso Kalakuta ReCpublic Studio, prodotto da K-Brothers e distribuito da EgeaMusic. “Tessere una tela nuova, un nuovo disegno con gli elementi delle memorie, quella collettiva e quella nostra, che è la più intima”, scrivono nelle note di presentazione del disco, che vede compartecipe il cantante provenzale Renat Sette, che dona la sua voce sempre affascinante in quattro brani. La nostra intervista a Enrico Negro.

Da “Coucanha” a “Sono” cosa è accaduto?
Dal 2016, anno di pubblicazione di “Coucanha”, sono accadute molte cose soprattutto a livello individuale, le nostre vite sono cambiate molto e il tempo da dedicare al lavoro di insieme si è drasticamente ridotto. Questo, però, non ci ha impedito di continuare a dedicarci con passione, dedizione
ed una maggior consapevolezza alla nostra ricerca artistica.

Nella presentazione dell’album parlate di sonorità più sporche e più scure: ci spieghi questa scelta estetica?
Nel riproporre la musica tradizionale non cerchiamo semplicemente di reinterpretare una melodia o una sequenza di note che arrivano dal passato e crearne un arrangiamento. Cerchiamo di andare più a fondo, muovendoci intorno ai suoni, ai timbri, ai ritmi della danza, all’improvvisazione (che è parte integrante del nostro approccio creativo, sia in studio che sul palco), al confronto con altre esperienze. La presenza di sonorità più sporche o scure non è tanto una scelta estetica, quanto piuttosto il risultato di una ricerca sonora ritmica, timbrica ed armonica.

Come nasce la collaborazione con Renat Sette? Cosa vi ha portato quest’incontro?
Conosciamo Renat da tanti anni e siamo molto amici, personalmente io (Enrico) ho lavorato tantissimo con lui in progetti prodotti dal compianto Maurizio Martinotti, come Dona Bèla o Pau i Treva, Gabriele con un progetto di Patrick Vaillant che si chiamava Arco Alpino. Nel 2019 in occasione del festival biennale del violino popolare “La Vioulounado”, in Val Varaita, di cui curiamo la direzione artistica, abbiamo prodotto un concerto in quartetto, che abbiamo poi replicato in diverse occasioni. “Sono” contiene alcune tracce con Renat, ma vogliamo pensare a questa prima collaborazione discografica come l’embrione di un futuro lavoro insieme.

La Valle Varaita è un po’ il focus del repertorio contenuto in Sono, cosa rappresenta questo territorio?
In Valle Varaita la tradizione musicale è viva e vegeta e non chiusa in sé stessa come si potrebbe pensare. Questo territorio  è una fucina di differenti esperienze: da quelle più legate alla tradizione, ad altre che sono culla di fermenti musicali, come ad esempio il “Cianto Viol” (una manifestazione ideata in tempi non sospetti, ma con profonda consapevolezza da Piero Dematteis, all’inizio degli anni Ottanta del ‘900), una pagina di grande apertura musicale, culla di confronti ed incontri musicali, dove tradizione e folk revival si sono incontrati, dove gli occitani d’Italia dialogano con gli occitani francesi e il canto spontaneo si unisce alla danza, dando luogo ad  un momento di festa che ha sempre portato ospiti da lontano. È una vallata alpina peculiare per la sua capacità di mantenere vive le tradizioni pur essendo un ponte culturale tra Italia e Francia e tra le generazioni; qui hanno operato intellettuali come Gianpiero Boschero, Dino Matteodo, Cecco Dematteis ed altri. Insomma, un territorio di riflessione e confronto tra il mondo alpino del passato e la contemporaneità.

Musica per danzare ma soprattutto musica per l’ascolto: cosa implica sul piano sonoro questa diversa funzionalità della musica che suonate?
La nostra musica nasce in stretta continuità con la danza, questa è l’essenza ritmica, ipnotica e costante della nostra ricerca. La nota che abbiamo inserito nel CD, in cui mettiamo in evidenza il fatto che il l’album sia da ascoltare, mentre per ballare preferiamo incontrarci di persona, vuole significare che la danza ha ragion d’essere nel momento dell’incontro tra chi suona e chi balla; quando questo incontro non è possibile o non è ricercato, il tutto assume un livello di sublimazione intellettuale che può creare, nell’ascoltatore che non danza, un momento di esperienza ritmica e timbrica che trascende il movimento corporeo.

Come si è sviluppata la fase di elaborazione dei brani in trio?
In tanti anni di lavoro comune abbiamo maturato un grande affiatamento e spesso le idee nascono proprio dal nostro suonare insieme. Il lavoro di gruppo costituisce la parte essenziale dell’elaborazione, poi, dalla base comune, ciascuno di noi affina alcuni elementi, talvolta passando per la scrittura oppure tramite l’utilizzo di supporti informatici e audio.

E la costruzione della tracklist?
In più di cinque anni di concerti e infine di lavoro in studio, abbiamo selezionato una lista di brani che
esprimessero la logica dell’incontro tra gli elementi principali che costituiscono Sono: la tradizione, il bal folk, la composizione, l’improvvisazione, la ricerca sonora e l’incontro con Renat Sette.

Sono due le vostre composizioni originali: la prima è “Passavamo sulla terra leggeri”.
“Passavamo sulla terra leggeri” è una mazurka, scritta da Francesco, che trae la sua origine dalle suggestioni emerse dalla lettura dell’omonimo romanzo dello scrittore sardo Sergio Atzeni, in cui forti sono i temi legati alle radici, all’ identità e alla cultura orale. Francesco ha un grande gusto melodico che si era già esplicato con una precedente mazurka (“Il Buon Cammino”) pubblicata in “Coucanha”. È un brano estremamente chitarristico, in cui ci siamo divertiti a realizzare strati sonori su cui si esprime liberamente la melodia.

La seconda è il valzer “Apres la penitence”. 
Questo valzer nasce da una ricerca timbrica, un'incursione nella musica che trae origine dalle scale modali, utilizzate nel canto monodico provenzale e occitano. Gabriele ha immaginato, con slancio quasi narrativo, una festa dopo un momento di penitenza. Questo brano è strettamente collegato alla canzone “Lei Penitents”. La canzone è il momento della pratica di penitenza, lo potremmo immaginare come un momento di riflessione profondamente interiore, mentre la conseguente apertura del valzer, una danza di coppia, diventa un momento di risoluzione, l’intimo che incontra l’altro, il mondo interiore che incontra
timidamente il mondo esteriore in una sorta di rinascita... “Après la pénitance”.

Cosa vi attrae di un testo o di un canto?
Il suono, il ritmo e la musicalità, innanzitutto. Che si tratti di una filastrocca tradizionale come “Mi balu pa coun ti” oppure di un'antica ballata d’amore provenzale come “La filha dau ladrier”, la poesia in lingua occitana, che da più di mille anni affascina l’Europa, ci appassiona e ci rapisce.

Parlando di penitenti, prima nella scaletta c’è “Lei Penitents”, un tradizionale in cui c’è lo zampino di un altro grande, Manu Theron…
Questo brano proviene dall’esperienza che Gabriele ha avuto con Arco Alpino, accanto ad importanti violinisti tradizionali provenienti da un vasto territorio: dal Delfinato al Friuli; un progetto ideato e diretto da Patrick Vaillant a cavallo del millennio. In questo antico canto provenzale il testo è stato rielaborato da Manù Theron che era, al tempo, il cantante del progetto.

Da dove arrivano le suggestioni che animano la vostra musica? Ci sono ascolti che hanno preceduto la genesi di “Sono”?
Non siamo più giovanissimi e di ascolti consapevoli nella vita ne abbiamo fatti molti; ovviamente non ascoltiamo solo folk, anzi… Però, forse, negli ultimi anni, soprattutto grazie alla frequentazione del festival “Fête des violons populaires” di Sauve in Languedoc, ci siamo avvicinati ad una serie di musicisti
che gravitano intorno all’etichetta La Novia, o che si muovono intorno a La compagnie du Rigodon, come ad esempio Basile Bremaud, Perrine Bourell e i fratelli Vargoz. Questi incontri ci hanno stimolato a riflettere su una sperimentazione che si muove partendo da alcuni elementi costitutivi della musica tradizionale come la modalità, l’agogica, la dinamica ed il timbro.  

Dite che non fate innovazione ma pure di non perseguire un approccio diciamo “filologico”: ma che musica è quella del Baìa Trio?
Sulla scia di quanto dicevo prima, partendo dagli elementi costitutivi della nostra musica, come la modalità (in senso musicale, ossia le scale utilizzate), i timbri dei nostri strumenti, i ritmi della danza, cerchiamo di trovare delle strade creative personali che riflettano il nostro gusto ed il nostro pensiero. Possiamo chiamarla innovazione? Sperimentazione? A noi piace chiamarla in primo luogo “riflessione”.

Che ne pensi delle critiche mosse al movimento bal folk in termini di superficialità e di consumo effimero? 
Il movimento del Bal Folk è un’esperienza che coinvolge moltissime persone in Europa, potremmo dire che nasce con l’Europa unita e che esprime molte suggestioni che i giovani degli anni Novanta si erano immaginati dell’Europa. Un happening culturale a tutti gli effetti. Anche se non si può parlare di movimento di massa, possiamo dire che è un fenomeno abbastanza ampio, e coinvolgendo così tante persone, presenta aspetti positivi ed anche aspetti negativi come quelli che hai citato. Ecco, noi ci
concentriamo su quelli positivi come il cercare di divulgare il più possibile i contenuti culturali ed identitari della musica che proponiamo.

Pensi possa esistere una sorta di pregiudizio o snobismo nei confronti delle musiche del Nord Italia rispetto a mode tarantolate o comunque riconducibili al meridione d’Italia? Non mi sembra così forte la presenza di artisti, diciamo, dell’arco alpino nei festival e nelle rassegne del sud della Penisola…
Non vogliamo pensare che ci sia un pregiudizio, ma sicuramente è opportuno guardare allo stato della cultura della musica tradizionale e del folk in Italia, ci sono poche produzioni di qualità e queste poche faticano ad incontrarsi. Sicuramente se il budget per la cultura e per le culture altre fosse adeguato, le idee e le musiche sarebbero di più, e circolerebbero meglio tra le varie regioni. Resta comunque un dato di fatto effettivo che le musiche del nord Italia siano meno rappresentate in genere delle altre. Un po’ forse per scarsa conoscenza dei nostri suoni e delle nostre tradizioni ma anche, come dicevamo prima, per la scarsità di proposte di qualità.

Quale la dimensione migliore per ascoltare e vivere “Sono”?
Forse la dimensione migliore per “ascoltare e vivere” “Sono” è quella di dedicarcisi con attenzione, possibilmente con un buon impianto audio; oppure venire direttamente ad un nostro concerto o ballo e viverlo in diretta.

Buoni proposti per il 2024?
Proseguire il lavoro con Renat Sette, ma soprattutto stare bene, cosa non così scontata in questi tempi faticosi.


Baìa Trio – Sono (K-Brothers/EgeaMusic, 2023)
Nuovo giro di danza per Francesco Busso (ghironda elettro-acustica e voce), Gabriele Ferrero (violino, mandolino, sax soprano e voce) ed Enrico Negro (chitarra acustica, classica, elettrica, basso elettrico e voce), il Baìa Trio, che non ha la memoria corta, nel senso che siamo di fronte ad artisti di lungo corso che scavano nei repertori popolari dell’arco alpino, ma sono pure propensi a tenere le orecchie aperte abbracciando altri mondi tradizionali, a partire da quelli d’oltralpe. Nelle note introduttive a “Sonos” dichiarano sommessamente di non innovare: forse perché, invece, a dirla tutta, per colori strumentali, per spirito sanguigno e per ispirazione in questo secondo capitolo discografico di aria nuova se ne respira. Pure, schermendosi, dicono di non essere inclini alla filologia, tuttavia se è vero che è nella natura della musica tradizionale cambiare sulla base dell’estro e dello stile del performer e del contesto esecutivo, direi che senza avere conoscenza e memoria delle fonti, non si va da nessuna parte. E quanto a solida consapevolezza dei percorsi storici delle musiche nell’area storica occitana, i tre piemontesi ne hanno da vendere.  La musica dei Baìa rivela la stretta continuità con la danza, essenza primigenia della loro ricerca; qui, però, la funzione è rivolta alla fruizione d’ascolto, con l’aria nuova che soffia per la presenza di sonorità più “ruvide” (ma non meno tecniche) e scure, esito di una ricerca che si muove al contempo sul terreno timbrico, ritmico e armonico.  Non si può che essere catturati dalla vigorosa scrittura strumentale (violino, voce, ghironda e chitarra acustica) della "Courenta 'd Couston d'Me d'Ton”, la danza della Val Varaita che apre l’album incrociando prima la filastrocca tradizionale “Mi balu pa coun ti” e poi un “balet” dall’impatto rockeggiante; oppure, switchando alla quarta traccia, “Countradanso di Juzep da’ Rous /Baletas”, dal tratto improvvisativo che esalta il motivo proveniente dal repertorio del grande violinista popolare della Val Varaita, combinato con un incalzante baletas, ballo praticato nella stessa valle, terra elettiva del trio per scelta estetica dovuta alla ricchezza dei repertori di quest’area occitana (va detto che i brani della Val Varaita provengono dalle ricerche di Giampiero Boschero, pubblicate dall’associazione Soulestrelh). Riprendendo la sequenza della tracklist, troviamo l’autorevolezza canora del provenzale Renat Sette in “Rigoulet”, cui segue la frizzante “Poulcros-Poulkross”, ancora una rivisitazione dal “catalogo di danze” del violinista occitano di Sampeyre. Busso è l’autore della mazurka “Passavamo sulla terra leggeri”, ispirata al capolavoro di Sergio Atzeni, superba prova di raffinatezza chitarristica e violinistica.  Di nuovo forme da ballo con il coinvolgente medley “Tolo doubio di Juzep da’ Rous / Balet di Miquellou”. Il magnetismo canoro di Sette ritorna nella seconda escursione provenzale, “La filha dau ladrier”, una delle più antiche storie d'amore cantate nella regione occitana, andata in stampa nel 1862 nella raccolta “Chants populaires de la Provence”. Si tratta di un episodio giocato sull’accoppiata di archetto e ghironda che sostengono la narrazione poetica e su una sorprendente impennata finale. Le variazioni ritmiche e melodiche sulle danze “Gamàoucho / Balet di Miquellou” rappresentano un’ulteriore convincente prova dell’affiatamento d’insieme e dell’abilità elaborativa del trio, che procede senza remore pure in “Filettes”, altro tema dell’Alta Val Varaita, dove un baldanzoso sax soprano si fa largo tra armonizzazioni canore e sostanza dei plettri. Racconta Negro che “in questa zona alpina, alcune melodie sono di origine molto antica e seguono un’impostazione musicale modale tipica dell’adiacente Delfinato. Nello specifico è una ‘ghiouno’, assimilabile a un rigodon francese”. Invece, “Lei penitents” è un canto religioso dei penitenti (arrivato attraverso la rielaborazione di un altro eccelso cantore, il marsigliese Manu Theron), tratto dal repertorio dei monaci de La Chartreuse, affidato ancora al timbro ammaliante di Sette, fortemente appoggiato ai bordoni e all’articolato fraseggio del violino che si ritagliano uno spazio solista che di nuovo ci conduce in territori musicali contemporanei. Si ritorna nelle valli occitane con “Gigo vièio” e con la courenta “Oh che bel piasì”. Ferrero è l’autore della composizione che chiude il lavoro, “Apres la penitence”,  brano tra i più alti del disco, un valzer che testimonia la caratura del trio nel fare uso di scale modali del canto monodico provenzale, con la melodia introdotta dalla chitarra che incontra violino, mandolino, ghironda e le percussioni dell’ospite Sergio Caputo: raffinata squisitezza del “Sono”.


Ciro De Rosa

Illustrazione di Dada (4) - Foto di Marc A. Deckers (6, 7 e 8)

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