Ndox Electrique – Tëdd ak Mame Coumba Lamba ak Mame Coumba Mbang (Bongo Joe Records, 2023)

Fra le perle del senegalese Omar Pene c’è “Ndawrabine”, del 2006, dedicata al ritmo-danza-canto omonimo dei Lébou: un rituale sacro che celebra un profondo legame con il mare e in cui ogni gesto e movimento onorano i geni protettori delle acque (“ndox” in wolof) che vegliano sui viventi e ne plasmano i destini. È al centro delle cerimonie “n’döep” i cui canti e ritmi sono stati scelti dal duo Gianna Greco e François R. Cambuzat, i Putan Club, per proseguire la loro elettrificazione dei rituali di trance africani. Dopo due album con l’ensemble Ifriqiyya Électrique dedicati ai rituali stambeli e banga – “Rûwâhîne” e “Laylet el Booree” – si sono trasferiti per qualche mese in Senegal e hanno dato vita a Ndox Èlectrique con cui hanno registrato i dieci brani raccolti nell’album “Tëdd Ak Mame Coumba Lamba Ak Mame Coumba Mbangnon”, già presentato dal vivo anche in Europa, a cominciare dal festival Le Guess Who di Utrecht. Ne abbiamo parlato con François R. Cambuzat e Gianna Greco.

Sono passati dieci anni dalla nascita di Putan Club, come li riassumeresti?
Gianna Greco - Putan Club non sono propriamente un gruppo, né rock, né punk, né electro, ma molto di 
più. È il banco di prova per tutto quello che facciamo insieme, Gianna Greco e François R. Cambuzat. Amiamo e dobbiamo provare fonicamente, spesso con e nel pubblico, ciò che costruiamo prima di svilupparlo ulteriormente, in passato con i dolan dello Xinijiang, gli aleviti di Ovacık, i sufi della banga, come con Lydia Lunch, Eugene R. Robinson, Lotfi Bouchnak o Denis Lavant. Sono stati dieci anni di una media di 150 concerti annuali (Europa, Asia, Africa, Oceania, Oceano Indiano, America, Asia centrale & Russia) e mesi/anni di richerche nello Xinjiang (Cina), nel Djerid (Tunisia), in Kurdistan (Turchia), Senegal e Oceano indiano (Madagascar, La Réunion) per dei film su certi rituali che ci interpellano per i loro ruoli sociali.

Come Putan Club avete partecipato nel 2014 alla compilation "SAVE GAZA - Free artists for free Gaza". Come artisti, come è possibile agire di fronte al massacro in corso?
François R. Cambuzat -  Pfffffff…. Anche diffondere nel nostro piccolissimo sembra ormai quasi inutile. La doxa dominante, capitalista poi governativa, ha preso il sopravvento, soffocando l’informazione, coltivando l’ignoranza e la precarietà che impedisce di lottare. Ormai criticare Israele è considerato antisemita, proprio come marciare contro Macron è targato delinquenza. E cosi sono più di dieci anni che possiamo provare a parlare disperatamente dello genocidio degli Uyghur nello Xinjiang cinese, della Papuasia di Bambang Soesatyo o della Palestina sotto Netanyahu, e tutti rimangono dubitativi se non totalmente indifferenti. Siamo non-violenti senza esito, e dopo decenni passati civicamente a provare di comunicare/cambiare con queste finte democrazie nostrane ci siamo ovviamente accorti che le parole servono a poco niente, tutt’al più a ripulire il nostro sentimento di colpa. Il boycottaggio è forse un’ultima arma a disposizione, ma anche il movimento BDS (Boycott, Divestment, Sanctions) è targato terrorista e vietato. Dunque resistere, comunque e sempre. Leggere tanto, informarsi oculatamente. E proseguire a parlarne, anche isolati. 

Quali sono gli elementi di continuità e quali quelli di discontinuità con i due album Ifriqiyya Électrique (“Rûwâhîne” e “Laylet el Booree”) prodotti con la Glitterbeat Records nel 2017 e 2019?
Gianna Greco - Non c’era discontinuità. Il secondo album era la voglia di andare avanti con altre melodie provenienti dal rituale della banga. L’unica differenza è che nel secondo “Laylet el Booree” non ci sono le lunghe suite di due o tre canzoni intrecciate ma sempre una sola, corrispondente a uno spirito solo.
 
Come avete conosciuto il rituale ndoep?
François R. Cambuzat - Con l'Ifriqiyya Elettrica eravamo sempre frustrati, chiedendoci da dove venissero il rituale e la musica. Non eravamo riusciti a comprendere l'origine delle comunità adorciste nere del Maghreb, come stambeli, banga, diwân o gnawa. Dalla via della schiavitù arabo-musulmana certamente, ma da quale paese, da quale regione subsahariana? Le tracce sembravano perdute, la tradizione orale non aveva funzionato e gli scritti erano inesistenti. Ricerca dopo intuizione, poco a poco, questo infame sentiero vecchio di cinque secoli ci ha portato fino in Africa occidentale, nel Senegal e allo n'döep dei Lébous. Ma fu in primis un libro scoperto, Le N'döep - Transe thérapeutique chez les Lébous du Sénégal di Omar Ndoye (L’Harmattan). Le somiglianze con la banga erano numerose, questo ci ha fortemente interrogato.
 
Dove vi siete recati e come avete avuto accesso alla comunità ndoep? Difficoltà nell’accedere in quanto occidentali?
François R. Cambuzat - Tutti ci avevano avvertito: fu terribilmente difficile. Dopo innumerevoli tentativi di contatto, stavamo per attuare un piano B con l’incredibile coro femminile di Ndar. All’inizio viaggiavamo tantissimo, da Mbour fino a Matam, lungo l’Atlantico e le sponde del fiume Senegal. 
Chiedevamo a tutti, dal venditore di cineserie alla polizia, finché un tassista ci ha detto che forse conosceva qualcuno, Pape Laye, maestro guaritore e custode del tempio di Rufisque. Guidando ha chiamato Pape Laye che ci ha spiegato averci sognato. Naturalmente abbiamo pensato che fosse solo un'altra trappola per toubab finché Pape non ci dette esattamente il giorno e l'ora del nostro sbarco in Senegal. Io e Gianna siamo atei ma di fronte a cose del genere non c'è proprio niente da dire: eravamo a Podor e abbiamo percorso 500 chilometri il più pericolosamente possibile per arrivare puntuali all'appuntamento che lo ndöepkat ci aveva dato a Guéréo quella sera stessa. Questo è stato il nostro ingresso nella comunità.
 
In che rapporto è con la più ampia società senegalese?
Gianna Greco - Lo n’doëp è strettamente praticato dal gruppo etnico lébou. Fa paura, è spaventoso e l'intera società ne è diffidente e non vuole avere niente a che fare con esso per il timore di essere posseduto dai suoi spiriti. Tanto che durante i nostri primi concerti in Senegal il pubblico non veniva o disertava abbastanza velocemente per paura che gli inni risvegliassero i loro demoni. Lo n'döep rimane intoccabile per la maggior parte dei senegalesi.
 
Come si articola il rituale?
François R. Cambuzat e Gianna Greco - Un ammalato o la sua famiglia contatta un maestro-guaritore che lo esamina in riti divinatori. Capisce che il genio (o rabb, o djinn, ma spesso, la “genia” è femminile) richiede un sacrificio che può essere benigno (galline, galli) o più importante (capre, pecore, buoi). A pagare tutto questo sarà la famiglia, ma anche di più: i maestri e guaritori, gli assistenti e i griot (musicisti), dovranno essere nutrirti ed eventualmente anche ospitati se lo spirito richiede un rituale di più giorni. È estremamente costoso. Il giorno del rituale si inizia al mattino con l'arrivo delle maestre-guaritrici e delle assistenti. Si canta (“Jamm Yé Matagu Yalla”, nell’album) tracciando un grande cerchio 
sul terreno con l'aiuto di un corno, poi latte cagliato ed acqua, che delimita lo spazio sacro della cerimonia. L'assemblea chiede alle genie la loro protezione per la buona riuscita del rito. A poco a poco, molte divinità (Lëk Ndau Mbay/Mam Demba Ñeme, Mame Samba Ndoye, Mame Coumba Thiupam, Mame Coumba Ndoye, Mame Gorgi Yay, Ngor Diouf, o le nostre preferite Mame Coumba Lamba e Mame Coumba Mbang) vengono chiamate con canti e ritmi. Le persone interessate, oltre al paziente, cadranno nella trance dei loro spiriti, la cerimonia è quindi terapeutica per molti altri. I colori sono importanti, così come i luoghi, i canti e i sacrifici - diversi a seconda degli animali - sono ancora più importanti, i malati e i sacrificati coperti insieme da pesanti coperte mentre le maestre-guaritrici e i guaritori cantano altri canti spinti dai pesanti sabar dei griot. Il rito è quindi estremamente complicato ed è impossibile parlarne velocemente.
 
Cosa vi ha attratto sul piano musicale?
François R. Cambuzat - Nelle nostre ricerche non è quasi mai la musica ad attrarci, quanto piuttosto il ruolo sociale che le musiche ricoprono. Come per molti dei nostri progetti, partiamo da un'estrema curiosità per la musica che ha un ruolo sociale. Lo n'döep - ma come molte altre musiche delle tradizioni terapeutiche (possesso, adorcismo, trance, elegie, ecc.) provenienti da tutto il mondo e anche dunque dall'Africa - ci è apparso come un vettore per esplorare le cose in un altro modo, lontano dalle estetiche e canoni artistici occidentali e anche lontano dallo mbalax senegalese. Le credenze e le pratiche animiste sono profondamente radicate nella società e hanno prevalso in Senegal, creando una visione del mondo in cui le malattie mentali inspiegabili possono essere concettualizzate come il risultato di forze soprannaturali e poi curate dai guaritori tradizionali, nonostante le influenze dell’Islam e della colonizzazione. Sostenersi, aiutarsi a vicenda, parlare, fare del bene e guarire, e questo con la musica e le canzoni, è questo ruolo sociale che ci interpella, dal falak tagico allo n’döep senegalese. Una resistenza
comunitaria, spesso in un anarchismo applicato, non nel senso da punk-col-cane ma quasi bakuniniano, dove ognuno è responsabile della società. Il primo obiettivo era cercare di capire, il secondo imparare, il terzo suonare con loro. Tutto ciò che è seguito (registrazioni, pubblicazione e tournée) è stato piuttosto un obiettivo del collettivo di musicisti con cui collaboriamo. Perché ovviamente non siamo scienziati, forse una sorta di Jean Rouch dell’avant-rock. Perché, prima di tutto, i risultati sono i film (visionabili gratuitamente online).

Come avete coinvolto i cinque musicisti con cui suonate nel nuovo album? Come avete interagito e come avete costruito il suono di questo album?
Gianna Greco - Abbiamo chiesto loro di aiutarci in base alla loro umanità, assolutamente non per la loro maestria. Non li abbiamo reclutati, ma li abbiamo interpellati. Non siamo datori di lavoro, forse solo “portatori di progetto”. Non ci sono capi o primedonne nella Ndox Electrique. In primis, non c'era alcuna proposta artistica. Volevamo capire, magari imparare un po'. È stato un periodo molto lungo di registrazioni sul campo (field recordings), registrazioni video, domande e discussioni. Solo molto tempo dopo ci chiesero quale fosse il nostro lavoro. Dopo aver saputo che eravamo musicisti, i griot si divertirono a chiederci di suonare con loro. Non fu una "metamorfosi". Non abbiamo toccato assolutamente nulla, né le armonie, né la struttura, né i tempi. Assolutamente nulla è stato ritagliato o messo in forma dal computer. Al contrario, è il computer che ha iniziato ad ascoltare lo n'döep, trascorrendo mesi a fissare punti di ancoraggio (warping) per cercare di comprenderne i tempi e le strutture, e quindi il loro ruolo durante le cerimonie. Ultimato questo lavoro di comprensione abbiamo preso in mano i nostri strumenti, lasciando poi parlare l'istinto. Le musiche dello n’döep sono estremamente violente - lo siamo stati dunque anche noi.
 
Che si prova a suonare con questi musicisti?
Gianna Greco - La stessa gioia che con dei musicisti occidentali, asiatici o marziani. 
 
Avete condiviso con loro quanto realizzato nell’album?
Gianna Greco - Ovviamente, sono al corrente di tutto. Per il momento si sentono – come noi – onorati del riscontro mediatico.
 
In un’intervista a “Songlines”, avete parlato di file audio scomparsi ripetutamente dal computer e del ponte del basso di Gianna Greco inspiegabilmente rotto… Che sono queste storie?
François R. Cambuzat - Storie per toubab, forse. Ma i fatti ci sono, li abbiamo vissuti sulla nostra pelle. Il file audio di "Sam Sa Nga Mboro" (#08) è scomparso più volte dal computer. Al mattino non c'era più. Finché Pape Laye non ci consigliò di sacrificare a Kor Gueindaye. Gli odiosi cartesiani che siamo poi lo hanno fatto e il pezzo è allora rimasto intatto. Cosa dirti? … Nessuna idea. Idem per il basso di Gianna. Quando iniziò a registrare lo stesso pezzo, lo strumento che il giorno prima era perfetto di ritrovato distrutto. Gianna ha registrato l'intero album con due corde e metà tastiera. Tutto questo è molto serio.
 
Come porterete da vivo questo lavoro?
Gianna Greco - Con coraggio e gioia. Lo scoglio principale è ottenere i visti per varcare la fortezza europea. Ci sono già stati rifiutati sei visti. Ma alla fine il collettivo ci è riuscito e a novembre ho avuto luogo il primo rituale in Occidente (Le Guess Who?). Ora che le guardie hanno notato che non siamo né terroristi né invasori, tutto dovrebbe essere più semplice.


Ciro De Rosa e Alessio Surian

Ndox Electrique – Tëdd ak Mame Coumba Lamba ak Mame Coumba Mbang (Bongo Joe Records, 2023)
Apre letteralmente le danze “Jamm Yé Matagu Yalla” con le chiamate e risposte vocali, rese un po’ metalliche dal trattamento sonoro che imita gli altoparlanti “da strada” e rimanda al rituale vissuto come terapia collettiva di pulizia spirituale e protezione dell’anima. Dopo un minuto, alle voci e percussioni si aggiunge la componente scura del basso e della chitarra elettrica di Gianna Greco e François Cambuzat che nel successivo “Lëk Ndau Mbay” diviene incalzante e ostinata, divaricata fra un tellurico spettro grave, in zona noise, e sibili sovracuti. È il terzo brano, “Ngor Diouf Ya Demon”, a dispiegare l’ampio potenziale sonoro e compositivo del settetto con Rokhaya “Madame” Diène al canto, Oumou Diène ai cori e tre percussionisti: Mar Faye al tamburo sabar mbëng-mbëng, Ndiaga Mboup al sabar più corto, il tunguné & al “tamburo parlante” tama, Abdou Seck al sabar thiol. I due inserti brevi “He Yay Naliné” e “Yaré Rirewé Bakora Ndoye”  (e l’inizio di “Sam Sa Nga Mboro”) ci permettono di assaggiare l’incastro di voci, battiti di mani e ritmi sabar, di cominciare a percepire e immaginare l’intreccio di canti e danze ndawrabine con cui le donne accompagnano le preghiere, i malati coperti e poi scoperti dai tessuti che segnano l’eventuale accesso a stati di trance che permettono di esteriorizzare e lasciar andare il disagio grazie alla forza della cura collettiva. Ai sabar viene lasciato un breve spazio quasi in autonomia a metà del brano più esteso, gli oltre sei minuti di “Indi Mewmi”, effimera oasi per mettere in luce l’espressività della voce del flauto, prima di abbandonarlo all’aggressività della chitarra elettrica, che prima lo invita ad un gioco di richiami vicendevoli, poi lo ingloba nell’alto volume e nella portata voluminosa delle corde distorte.  È questa una delle chiavi che ricorrono lungo l’album, dominante in brani “acidi” come "Ngor Diouf Ya Demon" e “Sam Sa Nga Mboro”: la chitarra si fa ulcerante e sembra dar voce al lato scuso cu si prova a far fronte con le cerimonie n’döep. In brani come “Wali Namalé” si sovrappone alla voce cantata fin dall’inizio dandone una lettura, al tempo stesso, solenne e dolente; altrove propone le sue sonorità più cupe e graffianti, emblematiche dell’ultimo e parossistico brano "Sango Mara Riré", un’apocalisse che prende un momento di respiro con un breve inserto di voce e coro nella prima parte e poi, proprio quando il finale è saturo nei suoni e oltremodo aggressivo e tenebroso nei colori, lascia che sia ancora il flauto a far intravedere la via dell’acqua. trasportimarittimi.net/ndoxelectrique-fr


Alessio Surian

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