Jono Heyes – Beehive (Asphalt Tango, 2023)

Ha un indubbio talento questo giramondo di nome Jono Heyes (chitarra, oudalele, box viola, box guembri, ukulele e voce), originario della zona rurale di Otago nell’isola meridionale di Aotearoa (Nuova Zelanda) ma di residenza ceca, sempre pronto a partecipare a festival e azioni che promuovono la giustizia sociale e ambientale. Presenta il suo sesto album, “Beehive” (Alveare), accompagnato da “Beehive. Nectar of the gods”, un libricino di 80 pagine scaricabile dalla Rete, racconto di aneddoti che sono ispirazione e genesi delle tracce che, eseguite anche dal vivo, sono visibili nel film accessibile tramite un QR code (girato da Martin J. Rýznar e Jan Stindl Paxart Studios). Heyes vive in un “carrozzone zingaro” pieno di strumenti musicali ai margini della foresta boema ceca di Šumaava, ama le api e crede che la musica abbia il ruolo di ispirare il pubblico a relazionarsi con gli altri e con la Terra in modo diverso. Come un tempio sonoro ha costruito il Beehive Studio per registrare in presa diretta un album di incroci sonori, di cui dice: “Ho preso la mia piccola canoa sul vecchio fiume che si addentra nelle buie caverne dell'anima per cercare molte delle infinite voci che fanno fremere la mia spina dorsale”. In questo spazio intimo, in poco più di una settimana ha registrato e filmato dal vivo le sessioni (il breve documentario “Made in a Beehive” lo racconta) con al banco di regia il sound engineer Jerry Boys (Buena Vista Social Club, Ali Farka Touré e Toumani Diabate, tra gli altri) insieme a musicisti altrettanto cosmopoliti: Anna Štepánová (violino e cori), Trevor Coleman (tromba, piano, melodica e cori), Edouard Heilbronn (chitarra, palmas, percussioni e voce), Julia Helleström Stringer (seconda voce), Petr Tichý (contrabbasso e cori) e Pavel Novak (percussioni e cori). “Un pellegrinaggio di idee che veicola la vastità infinita della nostra esistenza”, lo definisce Jono, che canta in spagnolo, inglese, francese e perfino in sanscrito nel brano d’apertura, “Mami’s eyes” – una partenza con i migliori auspici – segnato da un’ambientazione che ci porta verso le steppe dell’Asia Centrale. La seconda traccia, “For Toumani”, cantata in francese ed ispirata un incontro con il maestro della kora Toumani Diabate, si segnala per l’attacco in scat, il riff che profuma d’Africa occidentale e la svettante tromba del connazionale Trevor Coleman. “Holy Man” si apre ad atmosfere mediorientali, mentre il primo singolo del disco, “Cantar la guitarra”, ci conduce energicamente e vivacemente a Cuba con improvvisi guizzi di flamenco, e un pianoforte la cui estetica richiama irrimediabilmente il tocco del Ruben Gonzales di Buena Vista. Su un bordone e un ritmo percussivo scandito, “Greenstone”, che trova la band riunita in un canto antifonale la cui linea melodica è ripresa dal violino, richiama la terra in cui Jono è cresciuto, ma diventa una chiamata a riflettere sul modo in cui il capitalismo sfrutta la terra. Invece, la successiva “Citoyen”, di nuovo in francese, si sviluppa su un profilo jazzato senza, però, rinunciare a slanci orchestrali danzanti. La notevole “Inanna” (dal nome della dea sumera di amore e fertilità) procede tra allusioni sahariane, squarci di tromba e un’incalzante progressione d’insieme della band. Da un luogo dell’anima immaginario, posto tra Andalusia e Zimbabwe, ecco sgorgare la deliziosa e sognante “Come with me”. La chiusura la porta lo strumentale “Satya” (Verità), che richiama mondi indiani. “Beehive” è vera e calorosa sintonia, è emozionante grazia acustica. 


Ciro De Rosa

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