Dal 1995 si tesse il filo culturale e sonoro di Ethnos, che alimenta la necessità della conoscenza della diversità musicale, abbinando proposte concertistiche a luoghi storici. “Festival internazionale di musica etnica”, recita il sottotitolo, ma al di là dell’uso di una categoria come quella di etnia ed etnico, decostruita e perfino rigettata dalle scienze sociali, Ethnos, di fatto, privilegia un bacino musicale di artisti che raccontano la contemporaneità, pur attingendo a linguaggi radicati nel passato, nella tradizione orale come nella musica d’arte extraeuropea, suonando strumenti che rivelano saperi antichi ma che sanno parlare con linguaggi dell’oggi. Volendo tracciare delle linee direttive riguardo a questa ventottesima edizione, finanziata dai comuni coinvolti e dal Ministero della Cultura e cucita dal deus-ex-machina Gigi Di Luca, da sempre grande timoniere del festival, possiamo individuare un primo sentiero sonoro nella maestria strumentale. Il mongolo Epi (membro dei Violons Barbarés), al secolo Enkhjargal Dandarvaanchig, ospitato nella magnifica orientalista “Sala cinese” della Reggia di Portici (9 settembre), è uno stupefacente campione di diplofonia che fonde con passaggi improvvisativi e con l’utilizzo di svariate tecniche con cui sfrega le corde del suo violino verticale, il morin khuur. Nella stessa serata al Galoppatoio
della Reggia, il trio di Amrat Hussain Khan (tabla e voce) con i fratelli Sanjay (harmonium, kartaal e voce) e Teepu Khan (tabla e voce), famiglia musicale di nobile e lungo pedigree, ci ha condotti un viaggio tra le musiche del Rajasthan, con una sorta di compendio divulgativo tra repertori sacri e profani che riprendono la struttura del raag e canti qawwali. Senz’altro un altro campione di archi è il compositore iraniano Kayhan Kalhor, maestro assoluto della viella kamancheh, che suona imbracciando un modello personalizzato che offre un’ampia gamma timbrica. Nella bella Chiesa di Santa Maria Donnalbina di Napoli (12 settembre) ha proposto “Songs of Hope”, un flusso senza soluzione di continuità, in trio con il setar (liuto a manico lungo) di Kiva Tabassian e il tombak (tamburo a calice) di Behnan Samani. Esibizione trascendente per la capacità del musicista di essere tutt’uno con il suo strumento sui cui disegna timbri inattesi, sollecitando le corde, alternando sequenze sussurrate e passaggi vorticosi, con le dita che volano sulle corde, assumendo differenti posizioni sullo strumento, usando energici pizzicati e incisivi colpi d’archetto, effetti percussivi in una conversazione con i due strumentisti fatta di raffinate variazioni suitemi, scambi di ruoli, incedere ricco di tensione e distese improvvisative.
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