In onore al piccolo principe del free jazz

Don Cherry & George Gruntz Group: Maghreb Cantata, live 1969 (WHP Label)/Don Cherry Trio: Live in Paris 1971 (KAZ PLAK Label)/Don Cherry & Dollar Brand: Musikforum Schloss, Viktring, Austria, July 20, 1972 (WHP Label)/Don Cherry & Jean Schwarz: Roundtrip 1977, live at Théâtre Récamier, Paris (Trasversales Disques)/Codona: Avery Fisher Hall (Live New York '82)/Don Cherry Quintet: Inside/Outside (Delta Music GMBH)/Ken Vandermark & Hamid Drake: Eternal River (Corbett vs. Dempsey Label)/Ethnic Heritage Ensemble: Spirit Gatherer (Spiritmuse Records Limited). 

In questi ultimi mesi hanno visto la luce un grappolo di vecchie registrazioni riguardanti Don Cherry e un paio di significativi omaggi ai suoi utopici suoni che, in evidente anticipo sui tempi, prefiguravano quella che decenni dopo sarebbe diventata la world music. Il suo era un free acustico di strumenti etnici, scale, modi e inflessioni sonore non occidentali che oggi è entrato nell’immaginario musicale globale ma alla sua epoca rappresentava un’avanguardia sovente criticata con sufficienza da stampe jazz competenti ma decisamente impreparate ai nuovi suoni. Le ingenerose e talvolta ottuse considerazioni riguardavano anche altri musicisti che avevano idee similari a Don, a cominciare da Dollar Brand e dalla pianista/arpista Alice McLeod, vedova Coltrane. Don Cherry, uomo generoso come pochi, era un visionario avanti di almeno una generazione e che alterità e spiritualità spingevano continuamente verso altri continenti. La sua sete di musica indiana era guidata dal bisogno di meditazione, quella africana
o dei nativi americani trovava motivazioni legate al ritorno alle proprie radici, quella asiatico-orientale rispondeva al bisogno essenziale di scoprire nuovi modi di suonare. Avrebbe potuto continuare a rimanere un ambasciatore della new thing, assorbito dalla confortante scena jazzistica newyorchese (e mondiale in genere) degli anni sessanta e settanta, l’eredità dell’avventura armolodico-colemaniana gli aveva aperto le porte a collaborazioni con John Coltrane, Steve Lacy, Archie Sheep, Albert Ayler...e sarebbe senz’altro bastata a lungo. Invece durante un tour a Stoccolma in quartetto con Sonny Rollins agli inizi degli anni sessanta, si innamorò dell’artista interdisciplinare lappone, Monika Marianne “Moki” Karlsson e in seguito scelse di vivere con lei nella campagna svedese, all’interno di una
comune ricavata dalla vecchia scuola di Tågarp (nei pressi di Hästveda, Hässleholm, contea di Skåne). Conducendo l’arte fuori dai contesti tradizionali crearono insieme la caleidoscopica Organic Music Society. Ne venne fuori una sintesi musicale in coraggiosa unicità, che mescolava blues, melopea indo-americana, canto africano, raga, suono rituale tibetano, giapponese, arabo. Abbattendo ogni separazione, allargò per sempre e per tutti il territorio del Pianeta Jazzistico tradizionale, fece del mondo uno specchio, come il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry che sulle ali del proprio ingegno volò dove non c’era posto solo per chi non aveva sogni. Ne venno fuori laboratori per bambini, al suono iniziale di h’suan, flauto cinese in ceramica, e live acts dalle influenze diversificate con musicisti tra cui Bengt Berger, Doudou Gouirand, Bernt Rosengren, Maffy Falay, Christen Bothén che avendo precedentemente vissuto in Mali gli fece scoprire la dousson’Koni. 

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