Minimal Klezmer – Öt Mínusz Kettő (Caligola, 2023)

Tra Londra e Venezia, i Minimal Klezmer, inizialmente trio senza violino, sono diventati oggi un quartetto di musica organica popolare moderna, imperfetta e disordinata come le fanfare che scorrazzano nei Balcani. I suoi componenti sono tutti provenienti dall’area veneta: il trevisano Roberto Durante a fisarmonica, melodica, pianoforte, il padovano Enrico Milani (al posto dell’originario membro anglosassone Martin Teshome) al violoncello, il veneziano Piero Pontini a violino e viola e il mestrino Francesco Socal alla voce, clarinetti vari e saxofono. A questi strumenti ufficiali, in puro spirito klezmorim, va aggiunto il recupero di oggetti percussivi poveri o riciclati, cianfrusaglie in funzione di “giocattoli musicali” adattati e suonati da tutti all’occasione. Così come nella maggior parte dei sontuosi dischi della serie Radical Jewish Culture/Tzadik di John Zorn, le melodie ebraiche sono basi per improvvisazioni jazz dallo spirito dissacrante e libertario. Gli ingredienti proposti dal gruppo uniscono dionisiacamente gli opposti: background classico e spiccata inclinazione sperimentale. Il repertorio popolare di matrice est-Europea viene rivisitato con arrangiamenti ludici e cabarettistici, scelta stilistica klezmer a parte, lo stesso approccio sovente condiviso (anche se in maniera più dirompente) dal compianto Willem Breuker con il suo grande Kollektief olandese. Nell’ironica miscela dei Minimal si incontrano echi di freylech, sher, khusidl yiddish, doina e hora rumene, kolomeika ucraina, karsilamas anatolica, rebetiko greco e tutte subiscono lo stesso trattamento da musica di strada ispirato alle orchestrine dell’Europa orientale attive fino all’inizio del XX secolo. Ma Socal e compagni non disdegnano la composizione originale, per aggiungere al repertorio scrittura di klezmer contemporaneo; le sonorità del violoncello inoltre in diverse occasioni, ricordano l’ütőgardon, cordofono tradizionale a percussione, originario della Transilvania. “Öt Mínusz Kettő”, prodotto dall’etichetta mestrina Caligola, è il terzo disco del gruppo giunto a distanza di una decina di anni dai precedenti (2013/14)  è stato presentato in anteprima all’interno del Velo Festival il 23 luglio scorso in un concerto a impatto ambientale zero, esatto opposto di quello emozionale. In un coinvolgente incontro acustico, privo di amplificazione quanto di intellettualismi, il piccolo ensemble ha ri-arrangiato, in modo minimal e con vasta congèrie di oggetti in disuso o di nessun valore, l’antica e festosa musica nata nelle umili comunità ebraiche ashkenazite di fine ‘800, in quei villaggetti rurali (shtetl) dei territori occidentali sparsi nell’immenso impero zarista. Avendo anche studi di conservatorio alle spalle il gruppo lo ha fatto talvolta in forma di suite ma sempre salvaguardando l’intento originale di imitare con gli strumenti, la gamma di espressioni umane che vanno dal riso al pianto. “Strumento che canta” è l’immagine evocata dall’unione tra le parole “klez” (utensile, strumento) e “zemer” (per fare musica), a questo scopo violino e clarinetto, essendo i più associabili alla voce umana, sono da sempre stati quelli più adatti per interpretarlo. La vecchia canzone popolare yiddish sorta in mezzo tra il Mar Nero e quello Baltico è molto più antica dello stesso stato israeliano, ha truccato le carte a tempo e spazio e così non è mai invecchiata. La sua offerta possiede tutti i colori cangianti del prisma, anche ai nostri giorni perpetua i bisogni, la storia e l’attualità dei motivi luminosi o tenebrosi che appartengono a ogni intreccio umano. In maniera mistificante, nel moderno stato d’Israele, non avendo essa nulla a che fare con il sionismo, la politica ha sovente imposto un’immagine pessima di questa musica, legata all’idea dell’ebreo della diaspora come personaggio ridicolo, patetico e miserable. Ma le ricerche etno-musicologiche europee dimostrano che tra il 1899 e il 1956, le canzoni ebraiche nel Vecchio Continente non furono meno di quattordicimila. Oggi vorticano confusamente nell’aria e quando scendono su di noi lo fanno come gocce di pioggia benefica, col loro carico di spiritualità chassidica mista a influenze slave, zingane o turche. Negli anni Trenta del secolo scorso l’Europa era già tutta sconquassata nelle menti e talvolta perfino nelle arti, dopo l’orrore nazista e le sue piaghe insanabili si dovrà attendere il 1948 per veder riprendere a circolare nelle strade, le piccole canzoni yiddish. Perché per fortuna contemporaneamente oltreoceano, il salvifico contatto con il jazz, tra il 1910 e il 1930, aveva dato vita principalmente nella città di New York a una “epoca d’oro” del klezmer, per gli ebrei ashkenaziti della diaspora. C’è stato un tempo nel passato in cui il termine “klezmer” veniva esteso in senso dispregiativo ai musicisti stessi che lo interpretavano ma le certezze religiose di queste genti e di questi suoni sono indistruttibili e vitaminiche, sicché niente al mondo ha potuto mai scalfire la loro speranza: la “musica yiddish” è stata definita talvolta anche "musica freilech" (musica felice).caligolarecords.bandcamp.com/album/t-m-nusz-kett


Flavio Poltronieri

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