Pesni Russkich Bardov - Le canzoni dei bardi russi

 Anche Aleksandr Sergeevič Puškin aveva affermato che “Genio e delitto sono cose incompatibili”, poiché la funzione sociale dell’artista conteneva una grande responsabilità: quella, attraverso la poesia, di parteciparla agli altri. La “canzone dei bardi” contribuirà la sua parte nell’asportazione di una ideologia di obbligato ottimismo collettivo nato nella miseria violenta della realtà stalinista, che per tanto tempo aveva “patinato” la verità della realtà russa. Era una canzone vitale che raramente includeva lo sconforto assoluto, rappresentando piuttosto un canale di passaggio, una porta per i giovani attraverso cui guardare con occhio diverso da quello “ufficiale”, sia al passato che al presente, oltre che a lanciare la loro idea di speranza nel futuro. Un movimento artistico che non godeva di legale pubblicità e commercializzazione, non si trovava all’interno della produzione discografica di Stato ma ha finito, nonostante ciò, per diventare fenomeno letterario. Ad assurgere, anche più della filosofia, a principale strumento di condivisione di idee: l’URSS era vasta quanto la sesta parte del mondo eppure in ogni angolo dell’immenso paese bianco c’era sempre qualcuno che imbracciando una chitarra cantava i testi dei grandi cantautori, Bulat Šalvovič Okudžava e Vladimir Semënovič Vysockij saranno quelli più conosciuti in Occidente. Per gli antichi bardi celtici il verbo della canzone era il mezzo del far sapere, di commentare gli avvenimenti, di rifiutare, di sognare, di chiedere: una specie di forma di giornalismo dell’antichità. Per l’ultimo di loro, il bretone Glenmor: “il nazionalismo sta al popolo come il personalismo sta all’individuo”. Nella loro forma orale, anche queste canzoni russe contribuirono a tenere in comunicazione tra loro, vicende di genti e luoghi anche molto lontani. In qualche modo le voci di questi nuovi cantautori entrarono in risonanza, informando e
raccontando delle emozioni che si possono incontrare in una comune condizione di esclusione. E questo avvenne dopo che le generazioni precedenti avevano viaggiato nella loro vita col biglietto cumulativo che qualcuno aveva preso per tutti. Si trattava di autori che rifiutavano conformismi forzati di massa e consueti canoni artistico-ideologici ma anche la convenzione della parola scritta, facendo si che iniziassero a circolare, attraverso i canali clandestini del “samizdat”, una miriade di entusiastiche audio-cassette “pirata” che si muovevano veloci su sentieri fortunosi, spontanei o casuali, di mano in mano, di bocca in bocca. Questo nuovo canzoniere urbano talvolta era soggetto a variazioni di termini, si poteva non conoscere il nome dello specifico compositore, le rime subivano mutazioni occasionali perché l’oralità manca del rigore. Ma conteneva sempre l’equilibrio miracoloso tra quella creazione collettiva appartenente a tutti che è il folklore e l’intellettualismo proprio dello sviluppo individuale di un singolo autore. Quest’alchimia permise loro di sprigionare un’autentica forza lirica di immagini, capace di poter raggiungere chiunque e provocare non poca irritazione e resistenza nel potere costituito. Per il quale il mondo di una canzone era sempre stato il risultato, e avrebbe dovuto continuare a esserlo, della collaborazione di un compositore musicale, un paroliere e un interprete, a cui veniva aggiunta l’orchestra che per forza doveva suonare separatamente. Ma c’era forse anche qualche oscuro timore di più, se vogliamo credere alle parole che Lev Nikolàevič Tolstòj metteva in bocca al personaggio di Vasja Pozdnyšev ne “La Sonata a Kreutzer” (1889) “...sotto l’influenza della musica mi sembra di sentire ciò che consciamente non sento, capisco ciò che altrimenti non capisco, posso ciò che non posso…”. Nella realtà stalinista lo Stato era confuso con la Nazione, la partecipazione con l’assimilazione,
la cultura con la propaganda, da un potere auto-nominatosi unico detentore del vero sapere. Questi nuovi autori con il loro talento, non si rivolgevano esclusivamente alla visione dell’intellighenzia; anche quando da essa erano generati restavano sempre poeti della massa popolare e contemporaneamente estranei al populismo. La gente aveva la sensazione che la propria avventura umana potesse ricominciare, quelle parole mai udite erano un canto che fecondava la massa umiliata, la voce dei “nuovi bardi” assurse a clamore immenso di tanti, attraverso la clandestinità della cultura orale seminò fratellanza e capacità di immaginazione. Hanno avuto un così vasto impatto sonoro, ritmico, umoristico e, come nel caso di Vysockij, perfino “eroico” su milioni di persone, fino ad allora rassegnate e che protestavano nel silenzio, perché rappresentavano anche loro aspirazioni, inquietudini, speranze, lingua, vocabolario, la loro piccola rivoluzione disarmata “...la vita non ha mai sorriso ai lupi, la nostra passione per lei è senza senso, la morte invece mostra il suo gran sorriso con denti tutti sani e forti…” Il sommo Puškin, con la leggerezza quasi mozartiana che gli era propria, sosteneva che “solo all’amore, la musica è seconda e l’amore stesso è musica”. Ma il primo “bardo” che riaccese in Unione Sovietica, la fiamma dell’antica alleanza tra poesia e musica fu Okudžava, il “meridionale del nord” (a causa della sua genealogia georgiana) che confessava modestamente di conoscere in tutto “undici accordi” “Tira giù le tendine blu, per favore, infermiera, non preparare farmaci per me, qui al fianco stanno i miei tre creditori silenziosi: Fede, Speranza e Amore. Devi sborsare, figlio di un secolo breve, ma il tuo portafoglio è vuoto e ti cade di mano, non essere triste, non essere triste, oh mia Fede, debitori ne hai tanti altri! E dirò, senza forza e dolcemente, cercando col rimorso dalle labbra, le
sue mani: non essere triste, non essere triste, madre Speranza, hai ancora tanti figli sulla terra! Allungherò poi le mie palme vuote ad Amore, pentito, sentirò la sua voce: non essere triste, non essere triste, la memoria non si raffredda, mi sono tradito in tuo nome, non importa quali mani ti accarezzano, non importa quanto la fiamma trascendente ti bruci, la calunnia umana ha tre volte pagato per te e ora sei pulito davanti a me! Pulito, pulito, io giaccio nell'influsso dell'alba, prima della nascita di un nuovo giorno, tre sorelle, tre mogli, tre giudici misericordiosi hanno aperto il mio ultimo credito”
. Iniziò Bulat il movimento quando, dopo gli anni della guerra, sembrava che finalmente una nuova generazione di giovani entusiasti e creativi fosse sul punto di impossessarsi del mondo sovietico. Figli o orfani di quelli decimati dal secondo conflitto mondiale in cui alcuni, lui compreso da volontario diciassettenne, avevano combattuto. Un’ondata enorme di ragazzi che venivano reclamizzati dalla nomenklatùra in tutti gli slogan dell’epoca, che immancabilmente contenevano sempre la parola “gioventù”. Ovviamente la rinascita non avvenne esclusivamente attraverso la “rivoluzione del magnetofono”, basti ricordare a simbolo registi come Andrej Arsen'evič Tarkovskij, astronauti quali Jurij Alekseevič Gagarin o poeti come Evgenij Aleksandrovič Evtušenko. Questa gioventù oggetto-soggetto offrì un assaggio della primavera del “sessantotto” con una decina di anni di anticipo, una piccola “perestroika” ante litteram, come lo erano stati i “stiljagi”, i primi capelloni sovietici tra gli anni quaranta e cinquanta. Rimangono emblematiche le riunioni artistiche al Museo Politecnico di Mosca, luogo che garantiva la massima espressione di libertà, pur sorgendo proprio a fianco della massima espressione di controllo, ovvero la sede della principale agenzia di sicurezza, il famigerato KGB, servizio segreto di polizia di Stato. Le tematiche di queste “canzoni dei bardi” prendevano decisamente le distanze dalla tradizionale auto-celebrazione e dalla guerra vista in maniera esaltante. Abbracciando i temi classici dell’amore e dell’amicizia ma anche quelli della malavita e della prigionia, dove per la prima si intende una “categoria” di cui facevano parte delinquenti ma anche emarginati non allineati alla “sovietizzazione”. In quell’allora società, il limite tra il bene e il male dipendeva dai tempi e dalle situazioni politiche del momento, legalità significava unicamente totale adesione alla linea di regime e nelle carceri transitavano
detenuti di ogni specie e estrazione sociale. Ma le nuove canzoni ironizzavano anche sulle lentezze burocratiche, le enfasi patriottiche, le esaltazioni della retorica della vittoria, l’ipocrita pacifismo armato, le pompose parate di Stato o le discriminazioni e le censure presenti nella società. L’individuo, da insignificante dente di un ingranaggio, iniziava ad assumere un’importanza prima negata in favore del gruppo o del popolo di appartenenza, del suo far parte di un collettivo di idee o di un esercito di lotta. Diventava proprio il singolo, colui che si trovava al cospetto della storia e del suo determinarsi, perfino contesti bellici venivano trattati in maniera individuale e nello svolgersi della piccola azione di uno si intravedeva contenuta la verità dell’essenza umana di tutti. La considerazione e la valorizzazione della persona costituisce in ogni circostanza la miglior difesa contro ogni totalitarismo. Sembravano voler dire che se nel minuscolo granello di sabbia è presente l’evento con i suoi traumi e i suoi drammi, così avviene all’interno del sentimento personale. In una sua composizione Okudžava arrivò a utilizzare termini inequivocabili quali le “sentinelle dell’amore” (“Le sentinelle dell’amore montano la guardia a piazza Smolenskaya, vegliano Porta San Nikitsky, percorrono via Petrovka...oh grande, eterna armata dove parole e rubli sono impotenti, dove tutti sono sullo stesso piano: l’amore non ha marescialli! Che la vostra campagna non abbia mai fine, sono queste le uniche truppe che riconosco! Attraverso gli inverni e le tormente la primavera si fa strada verso Mosca. Le sentinelle dell’amore montano la guardia a via Volkhonka, vegliano via Neglinnaia, marciano instancabilmente lungo l’Arbat…”) Queste canzoni tessevano anche amorevoli lodi moscovite, alle strade o a singoli quartieri della città (come il mitico Arbat 2, sempre nel caso di Okudžava), nei cui “cortili” si ballava e si viveva una vita con regole quasi “cavalleresche” assai distanti da quelle “ufficiali”. Una realtà popolata di battaglie dipinte, di re virtuosi e con la faccia di un amico vivo, di autentici piccoli eroi sconosciuti che dalla guerra vera, non torneranno più, mantenendo in questo modo tragico le favole della gioventù ancorate alla dura realtà. Una realtà dove l’Amore diveniva direttore d’orchestra di una nuova utopia di felicità universale, lontana dagli orrori. Di Mosca erano sottolineate le bellezze ma anche denunciati i brutali stravolgimenti urbani, che ne sottintendevano altri. Sono canzoni che al loro interno mischiavano in maniera organica termini colti aulici ottocenteschi con tipiche espressioni gergali locali, davano in questo modo voce anche alla cultura
delle classi più basse, a un popolo privo di fortune. L’originalità e l’attualità della “canzone dei bardi” rimangono inseparabili dalla loro universalità. Il premio Nobel, Boris Leonidovič Pasternak scriveva che “il talento è il modello infantile dell’Universo” e che “l’arte è nell’erba e bisogna avere l’umiltà di chinarsi e raccoglierla”. Il movimento durerà anche in seguito fino a che la sua luce inizierà ad affievolirsi durante gli anni ottanta passando il testimone a un cantautorato formato da gruppi rock, nei quali però la parola musicata rimarrà sempre il fulcro centrale (non sono in questo senso da intendersi come la maggior parte di quelli occidentali). Okudžava verrà anche invitato e premiato dal Club Tenco, quale “operatore culturale” in occasione della XII edizione. Si renderà protagonista, dopo la conferenza stampa del giorno prima, di un emozionante concerto in solitaria, sabato 12 ottobre 1985, al Teatro Ariston di Sanremo, sotto l’occhio vigile e discreto di Afanasij Veselinskij, “responsabile per l’Italia dell’Unione scrittori sovietici”. Questo accompagnatore, ufficialmente “interprete”, in realtà celava un funzionario statale e la sua presenza era stata posta come condizione affinché il cantante potesse esibirsi nel nostro paese. Tutte le nove canzoni di quella magistrale serata vennero precedute dalla lettura della loro traduzione dal compianto Duilio Del Prete, al fine di favorirne massimamente la comprensione. Quando ci si accorgerà invece di Vladimir Vysockij 3 sarà invece oramai troppo tardi, il che non impedirà alla Rassegna, nell’edizione del 1993, di omaggiarlo con numerose iniziative, che ne origineranno altre 4. Adattamenti in lingua italiana di pregevole fattura, soprattutto a opera di Sergio Secondiano Sacchi, che un’impressionante schiera di cantanti interpreteranno nell’occasione dal vivo: Francesco Guccini, Vinicio Capossela, Angelo Branduardi, Cristiano de André, Luciano Ligabue, Giorgio Conte, Paolo Rossi, Milva, Andrea Mingardi, Eugenio Finardi. Purtroppo sarà l’unica manifestazione canora a tributare all’Avtorskaja Pesnja russa il doveroso riconoscimento discografico nel nostro Paese, a differenza di quanto avvenuto in Francia e altrove. Perfino a New York negli anni ottanta era stato fondato un “Club dei bardi russi”, senza dimenticare la Polonia o altri Paesi del nord Europa che non hanno mai ignorato questi formidabili autori e continuano ancor oggi a mantenerne viva la memoria con passionali produzioni di grande valore artistico e culturale 5

Flavio Poltronieri


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1 La canzone è un testo del 1943 di Maurice Druon e Joseph Kessel, musicato da Anna Marley che divenne l'inno della Resistenza francese anti-nazista. La Marley è la stessa che musicò nello stesso periodo anche “La Complainte du  Partisan” che Leonard Cohen renderà celebre col titolo di “The Partisan” (Songs from a room, 1969). 
 
2 L’antico e modesto quartiere dell’Arbat venne raso al suolo nell’ambito del rinnovato piano urbanistico moscovita negli anni sessanta, per fare posto al scintillante e turistico Corso Kalinin. Per Okudžava si trattava del luogo incantato della sua infanzia che fu comunque notoriamente popolato da numerosi artisti e intellettuali sovietici.


4 Artisti vari: “Il volo di Volodja” (I dischi del clubTenco, Ala Bianca,  CD 1993)
Eugenio Finardi: “Il cantante al microfono” (Velut Luna/Egea, CD 2008) + (Ermitage, DVD 2010) 

5 Due eccezioni discografiche italiane sono da attribuire ad Alessio Lega: “Nella corte dell’Arbat” – Le canzoni di Bulat Okudžava (Squilibri, CD 2019) e “Canzone della mia vita” (Autoproduzione, miniLP 2019). In precedenza va sottolineato che il brano Франсуа Вийон (Молитва) che Okudžava compose in omaggio a François Villon nel 1963 “ispirò” (senza che venisse mai riconosciuto) la canzone “Preghiera" scritta da Stefano Rosso e interpretata da Mia Martini nel 1977. Si veda Alessio Lega – Nella corte dell'Arbat. Le canzoni di Bulat Okudžava (SquiLibri, 2019)

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