Vladimir Vysotskij non fece mai un concerto ufficiale in Italia, suonò solamente una mezz'oretta per gli amici della moglie Marina Vlady e giusto per qualche decina di avventori occasionali, alla Trattoria “Otello alla Concordia '' in via della Croce 81 a Roma, la sera del 2 Luglio 1979. L'aveva accompagnata a Cinecittà ad interpretare il ruolo di Lucrezia nel film “Il Malato Immaginario” con Alberto Sordi, Laura Antonelli, Christian De Sica, per la regia di Tonino Cervi. Durante quelle due lontane settimane, gioco del mio destino, anch'io mi trovavo a Roma e quotidianamente passavo proprio nei pressi di quella via, avrei potuto essere facilmente parte di quel gruppetto di persone che lo ascoltarono quella sera cantare con la sua solita chitarra un po' scordata. Purtroppo in quell'epoca non sapevo chi era, non conoscevo la sua faccia e neppure della sua esistenza. Maledette le guerre fredde (e calde!). E maledetti i confini, i muri e l'ignoranza: della poesia proveniente dall''Unione Sovietica sapevo solo quello che passava in televisione. Cioè niente. E' trascorso un sacco di tempo e di quel tempo così lontano nel tempo ricordo unicamente quanto mi piaceva Angelo Branduardi che cantava “Confessioni di un malandrino”*. Ma Vladimir Vysotskij non esisteva per me, avrebbe iniziato a farlo solo molti anni dopo. Così imparai che tre sono i tipi di persone: ci sono i vivi, ci sono i morti e gli sconosciuti.
Se n'era purtroppo già andato da anni quando arrivò la sua voce nella mia casa, proprio come la luce di quelle stelle sparite da tanto che vediamo risplendere lontane nel buio, quando di notte guardiamo in su. Stasera riascolto la registrazione di quello che successe in quella sera romana, le canzoni che cantò Volodja con la loro meravigliosa e straziante poetica:
Cavalli Bradi: “Lungo un dirupo, sull’orlo del precipizio, proprio sull’orlo sprono i miei cavalli e li sferzo con la frusta, mi manca il fiato, bevo il vento e ingoio la nebbia, cavalli miei, rallentate, prolungate ancora un po’ la via verso il mio ultimo rifugio….Siamo arrivati in tempo, nessuno arriva in in ritardo a far visita a Dio, ma perché gli angeli cantano con voci così malevole? Se almeno avessi potuto finire di cantare, visto che non sono riuscito a vivere fino in fondo...”
Salvate le nostre anime: “Salvate le nostre anime, deliriamo per l’asfissia, accorrete in fretta, ascoltateci….Dopo tutto qui siamo in libertà, questo è il nostro mondo, ma siamo forse impazziti, salire a galla in un campo minato!?...”
La casa straniera: “Cos'è questa casa? Le sue finestre sono di fronte ad un abisso! Perché questa oscurità? Le vostre porte sono spalancate ma i cuori sono chiusi...Mi è stato risposto: si vede che hai fatto un lungo viaggio e che hai dimenticato gli uomini: noi abbiamo sempre vissuto così, abbiamo mangiato erba, ci siamo consolati con il vino...Mostratemi la casa che stavo cercando, dove le lampade si illuminano, dove si canta invece che piangere...Non abbiamo mai sentito parlare di case del genere...”
Rien ne va (Variazioni su temi zigani) (interpretato nella versione francese di Maxime le Forestier):
“Al mattino com'è amaro il gusto del vino maledetto, vai, spendi tutto il mio credito perché avrò sete oggi, niente va, niente va, per vivere come un uomo...Io sono l'imperatore dei buffoni, il fratello di nessuno, non abbiamo che falsi amici, falsi amori, falsi fratelli...”
Ogni sera mi accendono le candele: “Nella mia anima un solo grande deserto, cosa cercate nella mia anima vuota? Troverete solo squarci di canzoni e ragnatele...”
La caccia ai lupi: “...La caccia ai lupi. La caccia! Ai predoni grigi, vecchi e ai cuccioli. I bracconieri urlano, i cani latrano fino alla nausea. Sangue sulla neve...Ho rifiutato di ubbidire, ho oltrepassato le bandierine, la sete di vita è più forte, ho solo sentito dietro di me, con gioia, le grida di stupore degli uomini...”
Taganka (una delle più famose canzoni popolari carcerarie sovietiche che prende il nome dalla prigione di Tagansky, il testo illustra dettagli della vita in prigione, la strofa “notti piene di fuoco” testimonia del fatto che nelle carceri russe le luci non si spegnevano mai neppure durante la notte): “...La strada è lontana...Taganka, tutte le notti sono piene di fuoco Taganka, perché mi hai rovinato? Taganka, sono il tuo prigioniero permanente, la giovinezza e il talento nelle tue mura sono periti...”
Le Cupole: “Nel cielo blu, trafitto dai campanili risuona una campana di ottone, una campana di rame. In Russia, le cupole sono ricoperte d’oro puro affinché il Signore le noti più spesso. La mia anima colpita e indebolita dai tormenti, erosa dalle prove, raschiata a sangue la rammenderò con pezze d’oro affinché il Signore la noti più spesso.”
E ripenso a quanto lui desiderò invano essere considerato un poeta nella sua amata patria mentre fu forzatamente, scientificamente ignorato come tale. Nessuno poteva ammettere allora, a voce alta di amare la sua poesia, ognuno lo faceva nel suo segreto e nel suo silenzio. Lo dimostrarono i contadini e i minatori, gli operai e le centraliniste dei telefoni di stato, gli atleti e i soldati, i teppisti e i funzionari pubblici, i detenuti nei gulag e perfino gli ufficiali del KGB. E una cassetta con le sue canzoni la chiesero i cosmonauti della navicella “Sojuz”, Yuri Romanenko e Georgij Grečko prima di partire per lo spazio. Ma per lui la scelta era tra la libertà vigilata di Mosca e quella sotto cauzione dell'Occidente. La sua ultima canzone recita: “Ghiaccio sotto e ghiaccio sopra. Io mi dibatto in mezzo. Sfondare sopra o perforare sotto? Ne avrò da cantare quando sarò davanti all'Altissimo. E di che giustificarmi davanti a lui.” L'esilio interiore lo portò ad abbandonare se stesso poco a poco. Volodja, ora vieni considerato un grande poeta nazionale. Ma fu tutta una orribile pantomima. Una serissima, solenne pagliacciata di regime. Maledetti i divieti, i permessi di espatrio e l'ignoranza. Quando te ne sei andato non ti vennero riservate che tre righe sul quotidiano Vechernyaya Moskva , nove anni dopo sei diventato il poeta della Perestrojka. Ora ci sono orrende statue in tuo onore in un sacco di posti in Unione Sovietica. In compenso non c'è più l'Unione Sovietica. E pensare che ti eri perfino premunito:
Durante la mia vita ero alto e svelto
non temevo parole né pallottole
non seguivo i soliti canoni
ma da quando sono considerato un defunto
mi hanno azzoppato e piegato
e sul piedistallo è scritto: Achille.
Ho addosso questa carne di granito
non riesco a tirar fuori dal basamento di pietra
questo mio tallone d’Achille
le costole di ferro della carcassa
sono imprigionate nel cemento gelato
solo la spina dorsale ancora mi rabbrividisce.
Menavo vanto delle mie spalle larghe
provate a misurarmi adesso
non immaginavo mi avrebbero schiacciato in tal modo
dopo la morte invece mi hanno obbligato nei soliti canoni
e le spalle larghe e curve me le hanno raddrizzate.
E quando mi sono deciso a morire
una maschera funeraria fu subito preparata
dai miei odiosi familiari
e non so proprio chi abbia dato loro l'idea
di limare sul gesso i miei pronunciati zigomi d'asiatico.
Non l'avevo mai immaginato o sognato
non credevo di correre il rischio
di ritrovarmi più morto di un cadavere
la superficie del calco tutta liscia
dal mio sorriso sdentato traspirava una noia mortale.
Da vivo non ho mai messo le dita in bocca
a creature carnivore
e nessuno osava adoperare con me il metro comune
ma nel bagno, tolta la maschera
il becchino per prendermi le misure
mi si avvicinò con un metro di legno.
Inoltre, un anno era passato
a coronamento della mia correzione
un monumento compatto e solido
davanti a un sacco di gente inaugurarono e vai con la musica
le mie canzoni, la mia voce da un nastro registrato.
Si ruppe il silenzio su di me
dall'alto degli altoparlanti scesero i suoni
dai tetti i riflettori puntarono le luci
la mia voce esausta dalla disperazione
grazie ai moderni sistemi tecnologici
si addolcì in un gradevole falsetto.
Avvolto nel mio sudario rimasi ammutolito
ma ci ritroveremo tutti là!
E contemporaneamente urlavo con voce da castrato
nelle orecchie dei passanti
mi si ruba il sudario, mi sono ristretto
provate a misurarmi adesso
è dunque così che mi volete dopo la morte?
I passi del comandante sono secchi e rumorosi
come una volta ho deciso
di camminare sulle lapidi rimbombanti
la folla si è dispersa per le strade
quando con un lamento staccai il piede
e le pietre mi si scrollarono di dosso.
Mi sono chinato sul fianco, orrido e nudo
cadendo, la pelle l'ho lasciata
ho piegato il mio gancio d'acciaio
e infine sono crollato per terra
ma ho avuto il tempo, dai megafoni danneggiati
di urlare “Sembra che io sia ancora vivo”
La caduta mi ha piegato e spezzato
i miei zigomi non sporgono
fuori dal metallo non riuscii, come avrei voluto
ad uscirmene dal granito di soppiatto
ma al contrario lo feci sotto gli occhi di tutti.
“Il Monumento” - Vladimir Vysotskij - 1973 (Adattamento italiano Flavio Poltronieri)
A Mosca di statue ce n'è una in bronzo dorato, marziale e arrogante simbolo del realismo socialista, che la tua modestia e semplicità mai rappresentarono, anche sulla tomba nel cimitero di Vagańkovo. Colpa di tuo padre che ha voluto nel 1985 il tuo corpo circondato da una bandiera fluttuante e la testa sovrastata da una chitarra che si prolunga attraverso un profilo di cavalli. Inutilmente la tua amata Marinočka si batté per un rettangolo di terra dove affiorasse una grezza roccia di color antracite, con sulla parte levigata il meteorite conservato nel Museo Geologico di Mosca, frammento di stella caduto in mezzo alla Siberia dopo un viaggio nello spazio di milioni di anni e metafora della tua ardente, troppo breve vita. E allora è proprio meglio rivolgersi ai Cieli: in quello stesso 1985 gli astronomi dell'Osservatorio di Crimea hanno battezzato “Vladvissotskij”un nuovo pianeta scoperto tra le orbite di Marte e Giove. Porta il n° 2374 nel catalogo internazionale dei pianeti: un piccolo punto luminoso che naviga in movimento perpetuo nell'immensità. Omaggio al poeta di cui non fu mai pubblicato un verso. Ma a dispetto di questo, anche lontano da Mosca, a Nabereznye Celny, sul grande fiume Kama, in mezzo alla sperduta provincia del Tartastan, ogni lavoratore conosceva le parole delle tue canzoni, come d'altronde nel resto dell'immenso Paese Bianco.
Anche qui c'è un'altra statua, l'ha creata Vladimir Nesterenko quindici anni fa, è alta più di otto metri, dieci tonnellate di ghisa fusa proprio nell'acciaieria Kamaz, dove con loro cantasti i tuoi versi: niente effigi, il palcoscenico, la campana rotta e la chitarra con le corde che scendono, scie di cometa, in questa piazza che adesso porta il tuo nome.
Post Scriptum
Estate 1980. Solamente un anno dopo la serata alla trattoria di Roma. Sono in Sardegna, càpito in un bar con il televisore in alto sulla parete ed assisto in diretta all'impresa di Pietro Mennea che inaspettatamente trionfa alle Olimpiadi russe nei 200 metri piani con una rimonta mirabolante. In un'atmosfera plumbea, alla città quasi deserta viene rifatto il trucco per essere presentata in mondovisione. E' il 28 di luglio e ignoravo che meno di tre giorni prima in quella stessa Mosca, a 42 anni, il cuore di Vladimir Visotskij non aveva retto alla milionesima crisi.
Flavio Poltronieri
flavio.poltronieri@libero.it
____________________________
* La canzone interpretata da Angelo Branduardi è un adattamento parziale in italiano dello slavista Renato Poggioli di una lirica del 1920 del poeta suicida Sergéj Aleksándrovič Esénin (3 ottobre 1895 - 28 dicembre 1925). Latraduzione letterale del titolo è “Confessioni di un teppista”. La musica, composta da Branduardi, è un intenso ed efficace intreccio tra la sua chitarra e quella di Maurizio Fabrizio, che mi ricorda i duetti storici tra Bert Jansch e John Renbourn.