La densa storia del tarantismo campano, dal dibattito rinascimentale alle ricerche di Annabella Rossi

Sono stati raccolti racconti di tarantati, di testimoni del rito e di medici condotti, ma anche di musicisti dediti alle pratiche di cura, per un numero complessivo di oltre 50 interviste, solo in parte confluite nel “E il mondo si fece giallo. Il tarantismo in Campania” (1991), che comprende i saggi delle collaboratrici della Rossi – Patrizia Ciambelli, Aurora Milillo e Elisabetta Di Marino – in cui si interpretano i risultati della campagna etnografica, descrivendo il sistema culturale e simbolico del tarantismo nelle zone indagate e facendo emergere, nella comparazione con il fenomeno pugliese, distinzioni molto significative. In particolare, il tarantismo campano riguarda in misura numericamente simile uomini e donne e le crisi sembrano coincidere con effettivi casi di aracnidismo; il rito si svolge esclusivamente in contesti privati, anche se in presenza di amici e vicini, e non in occasioni pubbliche, e non compaiono riferimenti a pratiche rituali connesse alla devozione ai santi; inoltre sono quasi del tutto assenti i tematismi legati al simbolismo cromatico e al “rimorso” annuale. Di estremo interesse appare la relazione di alcune tarantole con le anime dei defunti, in analogia con l’“argia” sarda studiata da Clara Gallini. Ulteriori affinità con il rituale sardo risultano la tendenza ad invertire i ruoli sessuali e ai travestimenti di genere, il seppellimento nel letame, l’immersione in una tinozza di acqua calda (presente in alcuni casi pugliesi) e la pratica dell’inserimento nel forno casalingo. Un aspetto senz’altro singolare è il riferimento ad una sorta di mito di fondazione del tarantismo attribuito alla figura di Cristo. 
I materiali sonori (interviste e tracce musicali) raccolti durante la ricerca sul campo e depositati presso il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma (e ora nell’Archivio dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura), sono stati recentemente resi disponibili presso l’Archivio Sonoro della Campania: una documentazione preziosa – che per diverse ragioni non ha paragoni con altre celebri indagini sul fenomeno – da cui si evince una straordinaria ricchezza di memorie connesse alle locali pratiche di tarantismo (in funzione fino a pochissimi anni prima), riferite a un notevole e variegato numero di testimoni coinvolti in interviste approfondite. Ciò nonostante il tarantismo campano continua ad essere poco noto e le relative indagini poco citate anche in ambito accademico, contesto in cui, per quanto mi è dato sapere, non hanno avuto seguito significativo. Eppure si tratta di materiali che avrebbero ancora molto da dire a partire da una più approfondita esegesi delle fonti raccolte (senza trascurare il fatto che è possibile – anzi, molto probabile – che solo una parte dei materiali siano stati conservati nell’Archivio del MATPA) e da una loro più puntuale storicizzazione. Solo per fare un esempio di una possibile pista di indagine, non può non destare interesse che tra i contesti territoriali di più larga attestazione ci siano la Piana di Paestum e la foce del fiume Sele, cioè il luogo in cui, secondo la Passio che ne narra la vita, fu martirizzato bambino ai tempi dell’imperatore Diocleziano (intorno al 303) proprio San Vito, invocato per la cura delle agitazioni coreiformi e danzimanie di vario genere, ampiamente diffuse nell’Europa medievale e moderna, tanto da essere appunto identificate anche col nome di “ballo di san Vito”, e nell’area si rintraccia ancora una cappella a lui dedicata, mentre indagini archeologiche hanno rivelato la presenza nelle vicinanze di una basilica edificata intorno agli inizi del V secolo, dove probabilmente, in analogia con contesti simili, venivano praticati rituali di guarigione. 
Nuovi significativi elementi in questa prospettiva sono venuti recentemente alla luce nella straordinaria Grotta Santuario di San Michele di Olevano sul Tusciano (Sa). Incastonata sul versante occidentale del Monte Raione, in una zona ancora oggi aspra e selvaggia, non molto distante dai luoghi finora considerati, l’ampia grotta conserva un articolato complesso religioso di origini remote le cui prime fasi insediative sono da collocarsi fra la metà del VI secolo e gli inizi del VII. Sono posteriori invece le cinque cappelle destinate a custodire le reliquie dei santi venerati e ancora successivi gli interventi di ampliamento e riqualificazione sempre più orientati all’esclusivo culto dell’Angelo che fu protettore “nazionale” dei Longobardi. In quell’epoca vengono anche realizzati gli affreschi che arricchiscono le larghe porzioni perimetrali. A causa dei cambiamenti politici che riguardano il territorio su cui insiste, il santuario, con la presa del potere da parte dei Normanni, dalla fine dell’XI secolo affronta un inarrestabile declino che conduce all’abbandono degli spazi cultuali, garantendo diversamente da altri santuari assimilabili, a partire da quello garganico di Monte Sant’Angelo, la conservazione delle strutture e degli strati archeologici.
Coordinate da Alessandro Di Muro, docente presso l’università della Basilicata, le campagne di scavo qui condotte fra il 2002 e il 2015 (di cui ho trattato più ampiamente sul mio sito) hanno riportato alla luce reperti di profondo interesse, fra cui spiccano alcuni flauti in osso e una bacchetta di tamburo, riferibili alla seconda metà del X secolo, epoca in cui in teoria alla musica strumentale erano del tutto preclusi i contesti religiosi. I flauti, ricavati da tibie di ovicaprini, erano stati abbandonati in gran parte ancora funzionanti: potevano essere suonati da soli o con la tecnica, ancora usata in alcuni contesti popolari meridionali, del “flauto doppio”. Contestualmente sono stati ritrovati anche dei coltelli probabilmente utilizzati per la costruzione degli stessi. A tali preziose e rare testimonianze, secondo una suggestiva ipotesi di lettura dell’evoluzione storico-antropologica del culto olevanese proposta dal prof. Di Muro (a cui hanno contribuito Angelo Plaitano, Pasquale Di Lascio e Giovanni Saviello), potrebbero essere associati rituali “di cura” musicali e coreutici, prassi terapeutiche che sarebbero il risultato di un lungo processo di “riplasmazione” – in una versione più accettabile per la Chiesa – di precedenti pratiche pagane, di cui ricorrono ampie tracce in tutta l’area circostante: quanto emerge porta ad associare il culto di san Michele a forme di liberazione dalla possessione, attraverso un cerimoniale di “reintegrazione” comunitaria, e particolare rilievo nella narrazione iconografica olevanese, e probabilmente anche nelle pratiche terapeutiche, assume san Vito, la cui devozione si lega alla liberazione dalle coreomanie e da varie forme di oppressione occulta, tra cui forse anche l’epilessia. 
Dalle considerazioni avanzate, necessariamente sintetiche in quest’occasione, emerge dunque la necessità di tornare a riflettere sulla documentazione relativa al tarantismo campano e di approfondirne l’analisi storico-antropologica, in comparazione con altri “tarantismi” più noti ma anche in relazione alla profondità culturale (e cultuale) di una regione tanto ricca e complessa.

Vincenzo Santoro


In apertura “La danza di una donna punta da una tarantola”, particolare di un disegno da Willem Schellinks, "Jurney to the South", 1664-1665. Viene presentata una scena osservata nella zona di Napoli. 

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