La densa storia del tarantismo campano, dal dibattito rinascimentale alle ricerche di Annabella Rossi

Dovrebbe oramai essere acquisizione condivisa non potere circoscrivere il tarantismo a quella che Ernesto de Martino chiamava la sua “regione elettiva” – la Puglia – e in particolare alla sua propaggine meridionale – il Salento – ma doverne estendere la diffusione a tutto il Sud d’Italia, alle sue isole maggiori (Sicilia, Sardegna, Corsica) e alla penisola Iberica, secondo un andamento temporale che, stando alle fonti, ne segnala la presenza oltre i confini apuli a partire dal XVII secolo.
In questo quadro “mediterraneo”, sbilanciato a occidente, il “male della tarantola” documenta caratteri ricorrenti, quanto specificità a volte marcate, con varianti che sembrano determinarsi diacronicamente, lasciando adito alla più veritiera accezione di “tarantismi”. A dimostrare particolare interesse a tal proposito sono le vicende campane. È a Napoli, capitale del regno e propulsivo centro culturale, che, a partire almeno dall’epoca della corte aragonese (e in particolare nell’ambito del grande poeta, scrittore e uomo di Stato Giovanni Pontano), fiorisce, un intenso dibattito intellettuale intorno al fenomeno – le cui principali manifestazioni, tuttavia, resteranno ancora per qualche secolo indissolubilmente confinate alla Puglia – che produce interessanti cronache, apparentemente frutto di osservazioni dirette (fra cui quelle di alcuni studiosi pugliesi, a cominciare dal primo “locale” a darne notizia, Antonio De Ferraris detto il Galateo, nel celebre “De Situ Japigiae”, scritto intorno al 1510-11 e pubblicato solo nel 1558) ma soprattutto una incessante “affabulazione”, progressivamente debordante nell’uso creativo del “mitologema” in campo poetico, letterario e musicale. 
È così che in epoca barocca prosperano liriche tra i cui versi si affaccia la mitica tarantola, a firma anche di scrittori di prestigio, come Giovan Battista Marino e Giacomo Lubrano, fino alla pubblicazione del “Magnes”, a metà del XVII secolo, in cui il celebre erudito gesuita Athanasius Kircher dedica ampio spazio a una dissertazione sul “male della tarantola”, trascrivendone le musiche terapeutiche – fra cui una “tarantella” giunta a lui da suoi referenti napoletani – e aprendo il varco ad un ulteriore fronte creativo, quello relativo alle “tarantelle” di ambito colto, che cominciano ora ad essere composte in gran numero, di cui un significativo esempio è la “Tarantella a cinque voci per violini. Per la nascita del Verbo” di Cristoforo Caresana (1670), dove nel testo cantato il ragno arriva ad essere associato a Satana.
Occorrerebbe aprire a questo punto una parentesi a proposito dell’evoluzione del genere delle “tarantelle”, che da musica terapeutica per il tarantismo pugliese viaggeranno su tre diverse traiettorie: se al di fuori della Capitale, nella versione “popolare”, conservano l’uso nelle pratiche di cura rituali e nella danza ludica ad accompagnare i più disparati contesti festivi, a Napoli e in altri luoghi significativi del Grand Tour assurgono a emblema “della napoletanità” e diventano parte dell’offerta turistica intrisa di “pittoresco” e di richiamo all’antico, intercettando le aspettative del variopinto pubblico di viaggiatori ospitati; nei circuiti della musica colta invece, attraverso progressive riscritture e rielaborazioni, entreranno nei repertori della “grande musica” occidentale, coinvolgendo artisti del calibro di Mozart, Beethoven, Chopin, Haydn, Schubert e tanti altri, sconfinando nella musica d’opera e nelle opere letterarie.
Ed è proprio nello stesso periodo, a metà del ’600, che si ha traccia dei primi casi di tarantismo in territorio campano, per lo più testimoniati da viaggiatori stranieri. Si tratta di una documentazione esigua – forse anche a causa della implacabile critica a cui era stato sottoposto il fenomeno dai principali intellettuali dell’epoca, a partire dalle demolitorie “Lezioni” di Francesco Serao (1742), che di certo non incentivarono medici ed eruditi locali a darne evidenza – a volte accompagnata da immagini e partiture musicali, che tratteggia pratiche in rapido esaurimento nell’attrattiva Capitale ma in grado di conservare una propria vitalità nelle vaste aree rurali della regione, come ancora dimostrano, attraverso un ampissimo arco temporale, le clamorose risultanze delle ricerche coordinate dall’antropologa Annabella Rossi nella metà degli anni ’70 del ’900 (e sollecitate da giovani studenti dei suoi corsi che intravidero nel tarantismo salentino, ritratto dall’indagine demartiniana del 1959, affinità con i racconti ascoltati dai propri anziani nei paesi di origine): un’ampia campagna di rilevazioni sonore, fotografiche e video, la cui elaborazione non è stata mai conclusa per l’improvvisa scomparsa della studiosa, che ha rivelato – almeno fino agli anni sessanta del Novecento – caratteristiche in parte originali rispetto al più noto omologo salentino nel Cilento, nella Piana di Paestum e in un’area del casertano intorno a Sessa Aurunca.


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