Bruce Cockburn – O Sun O Moon (True North Records, 2023)

Album numero trentotto per il chitarrista dal tocco gentile Bruce Cockburn. L’atmosfera è quella da scrittura riservata e da ascolto intimo: quella che ti permette di sentire i sospiri di chi suona, portandoti giù, nel profondo di ogni nota. Appena parte “Push comes to shove” – il terzo dei dodici brani in scaletta – si avverte il calore di uno svolgimento musicale morbido, impellente. E tutto il resto sembra rifletterne gli effetti, avvolti dentro suoni magnetici e sinuosi, a partire da un violino mellifluo (suonato da Jenny Scheinman) e dalle splendide voci che accompagnano tutto l’album in uno spazio rassicurante e denso. “Colin went down to the water” ricorda uno dei vecchi incroci che Clockburn ci ha abituati a considerare plausibili, in cui convivono la lirica mistica della forma corale, la delicatezza dei pochi tocchi di chitarra – sui quali si assesta un brano delicatissimo ma incisivo – e il sostegno di una batteria appena sfiorata. La sua stessa voce ci appare più contemplativa, pienamente aperta alla semplicità e, allo stesso tempo, a intrecciarsi con voci più forti. Analizzare il suo canto è come analizzare la sua chitarra: in molti brani sono quasi uno stesso organismo, e in molti passi sembrano generare una sonorità del tutto nuova. Quella visione d’insieme, attraverso cui Cockburn elabora un timbro sereno e ligneo, sembra ormai la sola soluzione di cui il suo racconto necessita: la sola entro cui riesce a svilupparsi. La soluzione unica entro cui articolare un andamento musicale che non si ferma mai, sebbene si svolga in una calma profonda: talmente avvolgente da sembrare un ciclo infinito, che riesce a interrompersi solo in brevissimi momenti. I quali, a ben vedere, sono marginali e, allo stesso tempo, edificanti. È quello che accade quando, nel brano “As all”, irrompono i tintinnii di un cembalo, che sembrano avere la forza di una bufera, tanto acuti, vivaci, spigolosi risuonano in un paesaggio di corde morbide e affusolate. A dire il vero, anche questo brano è, nella struttura e nello svolgimento, estremamente calmo – anzi è uno dei più distesi – ma la virata timbrica strappa velocemente, svettando sia sull’orizzonte tratteggiato dai cinque brani che lo precedono, sia sulla sua configurazione intrinseca, ipnotica e fluente. Cockburne è in modalità riflessione e con “O Sun o Moon” riflette su di noi, in un interessante gioco di specchi, il suo approccio multiforme, che lo pone in equidistanza tra un racconto musicale contemplativo, intimo, e una musicalità orientata a un folk acustico di estrema raffinatezza. Che diviene, però, pratico, tangibile, pieno e presente. La sua chitarra, accarezzata e appena ritmata, governa gli strumenti essenziali e necessari a un discorso del tutto personale, che ancora una volta si rinnova dentro un album incantevole e perfettamente equilibrato. Si potrebbe dire che le voci abbiano un ruolo di primo piano. Come se aspirassero, a raccontare più compiutamente la condizione spirituale che ha ingenerato l’idea complessiva dell’album. E salta all’occhio che Cockburn le lasci aderire alla sua, per costruire un canto nuovo, partecipativo, con una sua efficacia tangibile. In questa amalgama – che, benintesi, non toglie organicità al discorso strumentale – emerge la figura enigmatica del folk contemporaneo americano. Una figura certamente anomala: vecchia e ben piantata nella storia, ma lucida e protratta in avanti. Sarah Jarosz (classe 1991, voce soave e scrittura facile, naturale, polistrumentista specializzata in strumenti a corde: qui suona il mandolino), è tra le migliori interpreti di questa condizione. E Cockburn non ci pensa due volte a farla salire in barca. 


Daniele Cestellini

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