Riccardo Tesi – La giusta distanza (Visage Music, 2023)

Riccardo Tesi: la ricerca della Giusta Distanza

#BF-CHOICE
 

Due anni fa Blogfoolk aveva raccontato come Riccardo Tesi e la formazione legata a “Bella Ciao” avessero saputo attraversare il periodo di pandemia rilanciando quel progetto sia in sala d’incisione, sia dal vivo. “Abbiamo lavorato duro”, raccontava Riccardo Tesi a proposito della tenacia che era stata necessaria per affrontare i tanti ostacoli di quel periodo. Il nuovo disco, in distribuzione da aprile, rivela l’altro lato di quel periodo e, più in generale, dell’artista: il rapporto con la composizione e l’arrangiamento musicale come attività metodica che si giova dei viaggi e degli impegni venuti meno a causa dei lockdown. Una consuetudine espressiva che, con ogni evidenza, trae nuova linfa dagli anni che passano (quaranta separano “La giusta distanza” da “Il ballo della lepre”) mostrandosi capace di nuove sintesi autoriali. La prospettiva del comporre senza doversi rivolgere a una formazione prestabilita ha liberato una varietà di registri creativi accomunati dal sapere amalgamare elementi narrativi e musicali anche distanti fra loro, ma sempre coerentemente al servizio di una specifica narrazione, di una particolare sensibilità umana e musicale capace di intercettare storie individuali e collettive nel loro registro affettivo, evidenziandone colori e accenti che subito risuonano come universali. Il piacere del rapporto quotidiano col proprio strumento si riversa allora anche in quello dell’incontro con una ventina di ospiti che in questi brani sono in grado di esprimere il meglio della propria arte, rendendo avvincente il viaggio, l’ascolto di
queste undici tappe musicali, facce diverse di una comune ricerca, di un prisma che permette di ripercorrere territori conosciuti con l’estro di chi ha trovato la giusta distanza.

Come nasce questo nuovo album e a cosa si riferisce il titolo?
Il titolo rimanda al dilemma dei porcospini di Schopenhauer: in una fredda giornata d’inverno, per scaldarsi, si avvicinano troppo e finiscono per ferirsi fino a che trovano la giusta distanza, quella in cui riescono a percepire il calore dell’altro senza farsi male. È una vera e propria metafora delle relazioni umane che riguarda tutte le relazioni, da quelle affettive di coppia, di amicizia, genitoriali fino a quelle di lavoro, alla ricerca di un equilibrio tra il troppo vicino e il troppo lontani. Su questo riflettevo durante il periodo della pandemia che ha fortemente ridisegnato il concetto di distanza. La maggior parte dei brani di questo album, infatti, sono nati durante il lockdown. L’azzerarsi dell’attività concertistica mi ha regalato molto tempo libero a casa e ne ho approfittato per dedicarmi anima e corpo alla scrittura. La composizione è forse l’aspetto che preferisco del mio lavoro ma è un processo lungo e faticoso che richiede un impegno costante e continuativo. Normalmente parto da piccoli spunti melodici, spesso frutto di improvvisazioni libere, o da qualche sequenza di accordi su cui inizio a cercare idee per un possibile sviluppo. Per fare questo, ogni giorno riprendo le idee del giorno prima e le porto avanti fino a che non arrivo alla fine. Una volta conclusa la fase compositiva, inizia quella dell’arrangiamento, come vestire e colorare i brani in modo compiuto. Rispetto a quando lavoro con formazioni definite, nelle quali scrivo in funzione dei musicisti che so già di avere a disposizione, questa volta ho scritto in maniera più libera e solo in un secondo momento ho pensato ai musicisti adatti ad interpretarli. A questo punto ho avvertito l’esigenza di trovare nuovi stimoli che mi facessero uscire dalla comfort-zone di Banditaliana e mi sono circondato di nuovi collaboratori. Oltre al gruppo base dell’Elastic Trio, mi sono divertito a coinvolgere una ventina di musicisti che mi hanno regalato il loro talento e la loro energia. Per la prima volta ho usato strumenti come la ghironda e la musette (cornamusa francese),
suonate da due giovani musicisti, rispettivamente Francesco Giusta e Vincent Boniface che ho conosciuto ancora bambino prima che diventasse uno dei più talentuosi polistrumentisti della nuova generazione. Ho incontrato Marco Ambrosini, con la sua splendida nychelharpa, qualche anno fa in Puglia ed è stato un grande onore averlo ospite, visto che è uno dei maggiori interpreti di questo strumento. Da molto tempo volevo collaborare con Ziad Trabelsi, fantastico suonatore di oud, conosciuto al grande pubblico come uno dei musicisti di punta dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Il suo apporto a “Couscous” e “Fasol” è stato determinante anche in fase di arrangiamento. Al clarinetto, in un brano, c’è Nico Gori, storico collaboratore di Stefano Bollani, con cui già avevo registrato l’album “Crinali”; al sax soprano c’è Claudio Carboni di Banditaliana. In “Bucarest” le percussioni sono suonate da Andrea Piccioni, il re dei tamburi a cornice, con cui suono spesso in trio con Patrick Vaillant. L’elenco è lungo e non posso nominarli tutti, ma vorrei citare Massimo Tagliata, Andreino Salvadori, Stefano Melone, Francesco Magnelli per i loro preziosi suggerimenti e consigli in merito ad alcuni brani. Infine, Valerio Daniele ha curato il mix e la masterizzazione ed è stato un orecchio esterno preziosissimo: oltre ad essere uno dei miei fonici preferiti per il suono acustico, è anche un buon produttore ed un eccellente chitarrista. Delle voci ne parliamo dopo.

Queste registrazioni e qualche concerto recente hanno tenuto a battesimo un nuovo trio-quartetto con Savoretti, Sturlini e Capecchi: vuoi presentarli e raccontare come nasce questa formazione?
L’Elastic Trio, composto da Vieri Sturlini alle chitarre e Francesco Savoretti, ai quali si è aggiunto Mirco Capecchi al contrabbasso, costituisce la formazione base del disco. Conosco Francesco Savoretti da molti anni e lo considero uno dei migliori percussionisti italiani. Dai tempi di Banditaliana ho sempre cercato un set percussivo che unisse le percussioni etniche con alcuni elementi della batteria. Francesco padroneggia a meraviglia strumenti come tamburi a cornice, darbouka, djembe, cajon etc. e il suo passato di batterista gli permette una poliritmicità unita ad un forte senso del groove! Era molto tempo che volevo suonare con lui e finalmente è arrivato il momento. Vieri Sturlini è stato una piacevolissima sorpresa. L’avevo ascoltato una volta dal vivo con Neri Marcorè, ma non ne avevo intuito le grandi qualità. Ci siamo visti a casa mia per lavorare le parti di chitarra su alcuni brani e, dopo un’ora, avevo già deciso che sarebbe stato il chitarrista di questo disco. È molto eclettico, passa con disinvoltura dalla chitarra acustica a quella classica e all’elettrica. Esattamente quello che stavo cercando! E poi è stato un collaboratore prezioso anche in fase di arrangiamento! Davvero una bella scoperta. Mirco Capecchi lo conosco da tempo: è un contrabbassista solido e di gran gusto! Presenterò il disco dal vivo con l’Elastic Trio che proprio in virtù del nome è pronto ad allargarsi a seconda delle occasioni per ospitare musicisti 
che viaggiano lungo la stessa rotta!

Il nuovo trio-quartetto segnala un rapporto diverso con Banditaliana? 
Riprendendo il concetto della giusta distanza: credo che anche nelle relazioni musicali e di lavoro ci sia bisogno di spazio per non rimanere soffocati. Suoniamo insieme da trent’anni e siamo durati così a lungo proprio perché, parallelamente, ognuno ha sviluppato i propri progetti personali. Siamo un team consolidato e adoro suonare con loro. Abbiamo concerti in programma per i quali abbiamo scelto la formula del trio perché Gigi Biolcati ha deciso di interrompere l’attività concertistica per scelta personale. È una Banditaliana più intimistica ma funziona e valorizza altri aspetti della nostra musica. Ci tengo a precisare che i rapporti con Gigi sono ottimi, tanto è vero che ha partecipato al mio disco. Ribadisco si tratta di una sua scelta di vita che rispettiamo anche se ci dispiace molto per le sue qualità musicali ed umane. Con Maurizio Geri e Claudio Carboni stiamo poi lavorando al secondo capitolo di “Un Ballo Liscio”, insieme a Massimo Tagliata, Nico Gori e altri musicisti che vedrà la luce in autunno.

Quali sono le principali fonti di ispirazione degli undici brani di tua composizione? 
Questa è una domanda alla quale è molto difficile rispondere! Ci sono tutte le mie passioni musicali! Come ingredienti potrei citare la musica tradizionale, il jazz, il progressive, la canzone d’autore, il Nordafrica, il pop, ma il tutto mescolato alla mia maniera con il Mediterraneo come sfondo. È una sintesi musicale tutta mia che non so tanto spiegare, esce in maniera spontanea. In realtà, cerco di suonare quello che mi emoziona, è l’unico criterio che utilizzo.

In che modo “Sotto la cenere” e “Mex moon” rinnovano la collaborazione con Massimo Donno e Maria Pierantoni Giua?
Le mie passate collaborazioni con Ivano Fossati, Fabrizio De André, Gianmaria Testa etc. mi hanno molto riavvicinato alla forma canzone che avevo frequentato in gioventù. Pur non essendo un cantante, mi piace scrivere la musica per canzoni che poi affido a voci altrui. Nel 2015 Massimo Donno mi ha chiamato per arrangiare e curare la direzione artistica del suo album “Partenze”, un progetto di cui sono molto soddisfatto. Da allora siamo rimasti legati da una profonda amicizia e lo stimo molto come autore e come cantante. Avevo tra le mani questa melodia su cui avevo lavorato inizialmente con Gigi Biolcati ai tempi in cui stavamo componendo per “Argento” di Banditaliana. Era rimasta una prova del brano in embrione con un bel riff di gigitarra (una specie di dulcimer elettrico inventato da Biolcati) poi incluso nella versione definitiva. Riascoltandolo ho pensato che potesse diventare una canzone per cui l’ho inviata a Massimo chiedendogli di scrivere un testo. In poco tempo la canzone ha preso forma grazie anche al contributo, in fase di arrangiamento, di Vieri Sturlini. Giua da molti anni è una cantautrice di alto livello, con lei avevo già collaborato in passato per l’album “Madreperla”. La melodia di “Mex moon”, con questo andamento un po’ sudamericano, mi sembrava perfetta per lei che ha mezzo sangue genovese e mezzo equadoregno e così le ho chiesto di scrivere questa storia d’amore “sotto questa luna messicana”.

Con Daniele Biagini condividi il dialogo “Tema di Cristina” e “La bella stagione”, arrangiato per archi: cosa ha dato avvio al vostro lavoro comune e come si è sviluppato? 
Daniele è un pianista pistoiese con cui collaboro da tempo, ci conosciamo fino da quando eravamo ragazzi. Insieme abbiamo arrangiato e realizzato l’album “Cameristico” del 2011, che contiene “La Valse a Pierre”, uno dei miei brani più conosciuti. Qualche anno fa, abbiamo scritto a quattro mani le musiche dello spettacolo teatrale “Calendar Girls” con Angela Finocchiaro. Tra i molti brani che abbiamo composto in quel periodo c’erano queste due melodie che ancora non avevo registrato. “Tema per Cristina” è dedicato a Cristina Pezzoli, grande donna di teatro e regista di “Calendar Girls”, che ci ha lasciato prematuramente, con la quale ho avuto un bellissimo rapporto di collaborazione e di amicizia.

In alcuni brani c’è una chiara ispirazione latinoamericana: da dove viene e cosa ti lega a questi repertori?
La musica sudamericana è un mondo: dal tango argentino al forro brasiliano passando per la musica andina o il tex-mex vi si trovano ritmi e melodie straordinarie, difficile non esserne un po' influenzati. Come ho detto prima, la mia ispirazione è a 360 gradi, anche se poi cerco sempre una sintesi personale, 
non sono interessato a suonare in stile.

L’album include un solo brano di un altro autore, “Ballata di una madre”: cosa lo rende importante?
L’anno scorso ho avuto l’onore di suonare come ospite in un concerto di Eugenio Bennato che, con La Nuova Compagnia di Canto Popolare, prima, e Musica Nova, poi, è stato uno degli eroi della mia gioventù. Ascoltando uno dei suoi ultimi album mi sono imbattuto in questa sua canzone che ha un bellissimo testo ed una melodia che mi è entrata in testa: non voleva più uscire! Ho così avuto voglia di farla un po' a modo mio. Ho iniziato a lavorarci con Vieri che ha fatto un meraviglioso lavoro di chitarre e in pochissimo tempo l’abbiamo arrangiata. Mancava soltanto la voce di velluto di Ginevra Di Marco, una delle mie interpreti favorite! È arrivata in studio con il suo sorriso e la sua leggerezza e, dopo il primo take di
riscaldamento, ha cantato l’intera canzone tutta di un fiato! Straordinaria! Ascoltarla mi fa venire la pelle d’oca! Ginevra ha questa straordinaria qualità di essere sempre giusta nell’interpretazione, qualsiasi cosa canti, una classe infinita.

Com’è oggi il tuo rapporto con l’organetto? Dove trovi nuove sollecitazioni e come vivi l’intensa attività didattica? 
Devo dire che più passa il tempo più aumenta la voglia di suonare. In questo album l’organetto ha molto più spazio e centralità, riflette il mio rapporto con lo strumento divenuto più intenso di prima, studio più che in passato. Inoltre, sempre più spesso, mi esibisco in solo, una dimensione che mi mette a dura prova, ma che mi dà una grande soddisfazione.
Ho insegnato per tre anni al Conservatorio Tchaykowsky di Nocera Torinese dove hanno istituito una cattedra di organetto. Sono molto contento del lavoro fatto: ho cercato di creare un percorso didattico completo e coerente per uno strumento popolare che mette piede per la prima volta in Conservatorio; credo sia un buon punto di partenza per quelli che verranno dopo di me. Ho avuto allievi di altissimo livello con i quali abbiamo lavorato sia sulla tradizione, sia sulla contemporaneità, affrontando le problematiche della composizione e dell’arrangiamento. Ho anche lavorato sulla produzione allestendo un’orchestra di world music che era veramente di alto livello e curando la produzione artistica del disco “Passione Meridionale” di Alessandro Gaudio e Salvatore Pace, due organettisti straordinari che ho seguito per tutto il triennio.  Purtroppo, la poca lungimiranza e la burocrazia della struttura conservatoriale mi hanno costretto, mio malgrado, ad abbandonare questa bella esperienza nella quale credevo molto! È un peccato. Continuo la mia attività didattica tenendo seminari: dal 20 al 25 giugno, per esempio, sarò a “Mare e Miniere”, il bellissimo festival organizzato da Mauro Palmas ed Elena Ledda a Portoscuso, nel sud della Sardegna. Una settimana di corsi, concerti, cibo e mare in un posto incantevole.

#ANTEPRIMA

Alessio Surian

Riccardo Tesi – La giusta distanza (Visage Music, 2023)
Alla ricca discografia di Riccardo Tesi si aggiunge un tassello importante, che racchiude numerosi spunti, suoni e visioni. E che coincide con una fase intensa che – per reazione – molti musicisti hanno vissuto e messo a frutto nel migliore dei modi. Il momento sospeso della pandemia ha rappresentato – come abbiamo (purtroppo e per fortuna) scritto più volte in queste pagine – una “liminalità” entro cui si è sperimentato un tempo diverso. E molti artisti hanno raccolto, come mai hanno fatto (come chi non fa musica, ma con soluzioni meno edificanti per la collettività) un’ampia serie di respiri, arieggiando spesso memorie sopite, stimoli sfuggevoli nella quotidianità normale, idee più articolate. Anche Tesi, che è di base prolifico, ha messo in fila le sue memorie sospese e (grazie al cielo) adesso ci grazia del lavoro cui ha iniziato a dare forma in quello strano frangente. Non è una cosa da poco (è evidente). E per questo vale la pena analizzarne gli esiti: ordinatamente disposti in questo bellissimo “La giusta distanza”. A ben vedere, fin dal titolo si comprende la straordinarietà di questo racconto (l’intervista ci aiuta molto a sciogliere eventuali dubbi interpretativi. E Alessio Surian è andato subito al sodo con la prima domanda). Perché l’apporto del tempo, l’ampiezza, la posa dello sguardo, sono presenti in tutte le battute. Ma ciò che, ancora di più, colpisce è la potenzialità di tutti i suoni dell’album, lo spessore denso che ne deriva da quel particolare tipo di scrittura e, ancor prima, di ispirazione. Se c’è un modo per carpirne in pieno la piena consistenza è ascoltarlo (addirittura pensarlo) nel quadro della sua realizzazione: del processo che lo ha ingenerato. In fondo, quando abbiamo la fortuna di inquadrare un album dentro le parole di chi lo ha concepito non ci resta che approfittarne, assorbendo quanto più possibile dell’esperienza, della pratica, dell’espressione entro cui egli stesso lo rappresenta. Nelle parole di Tesi traspare possibilità e, con essa (audacemente compressa nei dodici brani in scaletta), la bellezza dell’indagine, di una scoperta che si reitera in luoghi (in parte) conosciuti. E che, in questo nuovo scenario, zampillano novità, plausibilità, occasioni. Tesi scardina il suo stesso ordine – costituito lungo un percorso di diverse decadi – ma il suo sguardo è cristallino. E il suo animo (non me ne voglia se appaio scontato) assorbe tutto il necessario. In questo quadro convivono, ad esempio, il primo e l’ultimo brano in scaletta: “Santiago” e “Tema di Cristina”. Il primo – che, nonostante il titolo, non ha corrispondenze tematiche con altre composizioni dell’album, come “Tindari”, “Bucarest” e, con qualche sforzo in più, “Tex Moon” – è un quadro di pennellate nette, con un approccio verista: direi quasi un’opera folclorica. Vi è, come in quelli citati, il riferimento a un luogo circoscritto: Pistoia e la processione dedicata a San Jacopo. Ma la costruzione musicale riflette più organicamente il flusso di una devozione, dell’affezione comunitaria a un simbolo, attraverso un andamento che sostiene plasticamente l’idea di uno spostamento, di uno spazio (fisico e metaforico) che si (che ci) attraversa. Il suono è elegantemente compatto e l’intero svolgimento si configura in blocco negli spazi sottili tra l’organetto e il clarinetto sinuoso di Nico Gori. “Tema di Cristina” rappresenta (forse solo esteticamente) l’altra faccia della medaglia, perché è soffice e profonda (piacevolmente malinconica quanto comprensibilmente nostalgica) e asciuga l’intero album in un breve compendio di note al pianoforte, trafitte dal pianto di un organetto penetrante. La vera risposta a quella (lunga) sospensione Riccardo Tesi la affida a “Valzer d’aprile”, un brano sbocciato “come un raggio di sole” e che solleva tutto a un livello più alto, grazie alla divergenza (bella e pacifica) della cadenza della struttura ritmica, la melodia leggiadra dell’organetto e il soffio del violoncello: “mi sono preso il tempo per riflettere e fare quello che preferisco di più in assoluto”, ci dice Riccardo: “comporre e creare”.


Daniele Cestellini 

Foto di Letizia Magari 

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