L’instancabile Germano Bonaveri cala il tris e, dopo “Il Bardo e il Re dei gatti” e “Faol”, pubblica il suo terzo disco in tre anni. In questi “Mondi Immaginati” (che, per la verità, sembrano sempre più reali di quanto si possa, appunto, immaginare) scorrono, vivide, le diapositive di un mondo al collasso, che incontrano perfettamente la sempre ammirevole eleganza letteraria del nostro. Album aperto da “Demetra” e dal suo interessante cortocircuito atmosferico, fra ruvidi intrecci di aride chitarre acustiche ed aperture melodiche in odor di Irlanda. “Robin Goodfellow” prosegue nel solco celtico, con un incedere ritmico brumoso e quasi militaresco, mitigato dalle incursioni di una sezione archi cristallina. A seguire, arriva “Diventare grande”, che si snoda lungo un intenso arpeggio di chitarra, abbracciato dai caldi fraseggi degli archi. “Un tempo” si muove fra rarefatte percussioni plumbee e passaggi umidi di malinconia, contrappuntati dai ricami dei synth. “Primavera” è dinamizzata dallo strumming della chitarra, su cui poggiano le pungenti svisate del violino. “Canzone per Julian”, dedicata a Julian Assange, è una ballata dal sapore classico, scandita dagli eleganti tocchi del piano e squarciata dai fraseggi dolenti degli archi. “Gentile Budrioli” (che racconta la tragica storia della “Strega Enormissima” di Bologna, donna dall’enorme cultura, ma che l’Inquisizione condannò al rogo per stregoneria) è scortata da un elegante pianoforte, ben sostenuto da synth eterei. “C’è troppo tempo”, uno dei momenti più interessanti del disco, si tinge dei colori sabbiosi della spinetta, che poggia splendidamente su un pattern ritmico polveroso e soffuso. Giro di boa del lavoro è “Come un lungo sogno”, che cavalca i timbri ventosi di un pianoforte, su cui archi adamantini e percussioni pastose creano un interessante cortocircuito. A seguire, “Memento mori”, che cresce sullo splendido incrocisrsi di chitarra e pianoforte. “La leggenda del sempreverde” volteggia su uno raffinato rincorrersi di archi e fiati, sostenuti dall’immancabile piano. “Non è normale” ci trasporta dentro atmosfere rarefatte, con la chitarra a scortare le incursioni paludose del flauto. “Mio caro presidente” è segnata da un afflato magniloquente, in cui archi e fiati si intrecciano ai synth e ad un rullante quasi marziale. “Mòlon Labe” scorre lungo una sinuosa linea di basso, con un pianoforte ad accompagnare il cantato ed un synth a screziarlo di fraseggi. Altro passaggio interessante è “Non sarai tu”, elettrizzata da un piano dalle movenze blues, con una sezione ritmica dritta ed un basso vorticoso. Su “Madamadorè” è - splendidamente - mantenuto l’andamento da filastrocca, sottolineato dallo strumming arioso della chitarra e spezzato dalle incursioni di archi e fiati. “Prometheus” si staglia su uno strapiombo di fiati ed archi, a regalare ampiezza ed ariosità, con gli arpeggi della chitarra e le polveri delle percussioni a contrappuntare alla perfezione. A chiudere il (mastodontico) lavoro, ci pensa la title track, che poggia su un pianoforte vellutato, appena appena colorato dalle incursioni tiepide dei violini. In conclusione, ne viene fuori un disco che, seppur necessario nei contenuti e nel modo di raccontarli (perché, fra storie di eroiche sconfitte, di prevaricazioni del potere ed attenzione ambientalista, quella che si ascolta è tutta materia caldissima), risente necessariamente della lunghezza, e in termini di difficoltà per l’ascoltatore (chè diciotto canzoni dai testi sempre impegnativi non sono per tutti), e in termini di fantasia generale (è innegabile notare che i due “fratelli maggiori” avessero tutt’altra spinta creativa).
Nel complesso, rimane comunque una pregevole opera di artigianato musicale, rugiada cantautorale sempre purissima.
Giuseppe Provenzano
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