“Io non faccio altro che disporre il dialogo musicale in modo diverso da tutti quelli in cui mi è risuonato finora”: così Wayne Shorter si raccontava a Ben Ratliff in “Come si ascolta il jazz” (2008, trad. it. 2010), evidenziando sia la sua capacità di osare, sia quella di ascoltare, tratti distintivi del suo eccezionale percorso musicale, come membro di ensemble di primo piano (Art Blakey, Miles Davis), come leader, e come co-leader, dai Weather Report al trio con Petrucciani e Jim Hall di cui re-inventa “Bimini”, anche sul piano melodico.
Era nato e cresciuto a Newark, nel New Jersey, coltivando, insieme al fratello maggiore Alan, trombettista, la passione per il jazz già mentre studiava alla Newark Arts High School, esplorando già da adolescente le regole della composizione musicale con un gusto tutto suo per l’azzardo e la sperimentazione. Negli anni Sessanta, descriveva la sua pratica compositiva come un processo creativo in cui si ha il coraggio di fare salti nell'ignoto, di rischiare: “Affrontare il non familiare e l'inaspettato. Rischiare di uscire dalla propria zona di comfort". Proprio, “il linguaggio dell’ignoto”, “The Language of the Unknown” è il titolo di un documentario che ci fa ascoltare il suo punto di vista in materia.
Fondamentali sono state alcune amicizie, a cominciare da quelle con Lee Morgan, Herbie Hancock e Josef Zawinul. Morgan, cinque anni più giovane di Shorter, entrò nei Jazz Messengers di Art Blakey nel 1958 e con altri tre musicisti di Philadelphia, Benny Golson, Bobby Timmons e Jymie Merritt, incise una pietra miliare dei Messengers, il disco Blue Note “Moanin'”. Morgan aveva avuto occasione di conoscere Shorter, impegnato allora con la big band di Maynard Ferguson (dove suonava il piano Zawinul) e, alla prima occasione, nel giugno del 1959, suggerì a Blakey di coinvolgere Shorter: la nuova formazione, con cui per cinque anni avrebbe girato il mondo, debuttò sul palco del French Lick Jazz Festival (Indiana) il primo agosto on August 1 e la composizioni del sassofonista cominciarono a caratterizzare le sonorità dei Messengers e di Blakey con cui entrò in sala di incisione già a novembre 1959 (“Africaine”), per poi realizzare negli studi Blue Note in diciotto mesi otto energetici album, compresi “The Big Beat”, “Like Someone in Love”, “A Night in Tunisia”, “Roots & Herbs”, “The Freedom Rider”, “The Witch Doctor”. In questa registrazione del 1961 i Jazz Messengers suonano a Tokyo.
Parallelamente, a Chicago, Shorter e Morgan cominciarono a registrare per la VeeJay Records, prima con Wynton Kelly, e quindi, a novembre 1959, il debutto di Shorter come leader, “Introducing Wayne Shorter”, che lo vedeva protagonista anche come compositore, per esempio con “Black Diamond”. Con la VeeJay Shorter pubblicò anche i successivi "Second Genesis" (1960) e "Wayning Moments" (1962).
Morgan sarà con Shorter anche quando il sassofonista comincia a incidere a suo nome per la Blue Note (sono undici gli album registrati fra 1964 e 1970), cominciando con “Night Dreamer”, registrato nello studio di Rudy Van Gelder ad aprile 1964 con la sezione ritmica che in quei mesi collaborava con Coltrane: McCoy Tyner (pianoforte), Reggie Workman (basso) ed Elvin Jones (batteria). “Black Nile” apre il lato B celebrando la civiltà africana dell'Egitto e veicola con il suo incedere lo scorrere del fiume su cui si rincorrono il sassofono di Shorter e la tromba di Morgan, sempre sospinti dalla sezione ritmica.
In quel periodo registra anche come sideman (principalmente per Blue Note): con Donald Byrd, McCoy Tyner, Grachan Moncur III, Freddie Hubbard, e per i nuovi compagni del gruppo in cui entra nel 1964, il pianista Herbie Hancock e il batterista Tony Williams.
A settembre 1964 Shorter accettò l’invito che Miles Davis gli rivolgeva da qualche tempo ed entrò nel suo quintetto, contribuendo a concerti e registrazioni storiche che comprendono varie sue composizioni ("Fall", "Limbo", "Nefertiti", "Et Cetera", "Orbits"), a cominciare da “E.S.P.” che da il titolo all’album registrato per la Columbia a gennaio 1965, cui seguiranno “Miles Smiles” (Columbia, 1967) – con il suo brano forse più famoso, “Footprints”, del 1966 (da tempo diventato uno standard del repertorio jazz insieme a «Speak No Evil» e «Infant Eyes») –, “Sorcerer”, “Nefertiti”. Con “Miles in the Sky” (Columbia, 1968) rimarrà a fianco di Davis per un biennio anche durante la svolta fusion incidendo “Filles de Kilimanjaro” e “In a Silent Way” (Columbia, 1969) e “Bitches Brew” (Columbia, 1970).
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