Quella tra canzone d’autore e letteratura è una relazione osmotica, un rapporto profondo e radicato nel tempo e diversi sono i cantautori che, con successo, hanno intrapreso un percorso parallelo nell’universo della scrittura: pensiamo a Bob Dylan e a Leonard Cohen, ma anche a Nick Cave e Patti Smith o per restare in Italia ai casi di Francesco Guccini, Roberto Vecchioni, Vinicio Capossela e Massimo Zamboni. Ad animare le loro opere non sono astruse strategie commerciali alla base dei debutti letterari di questo o quell’artista mainstream che irrompono nelle librerie con volumi scritti da ineffabili ghost writer, ma piuttosto l’esigenza di trovare una ulteriore e più ampia articolazione allo storytelling e al loro universo poetico. Così, ci troviamo di fronte a volumi di assoluto spessore che mantengono un fortissimo legame con le loro canzoni, o che ne svelano il contesto in cui hanno preso vita, o ancora lasciano intravedere spaccati autobiografici o ci dischiudono storie dense di fascino. A questa schiera di cantautori-scrittori, si è aggiunto ormai da diversi anni anche Massimo Bubola, cantautore tra i più colti e raffinati della scena musicale italiana e ben noto non solo per aver firmato con Fabrizio De André i brani degli album “Rimini” del 1978 e “L’indiano” del 1981, ma anche per eccellenti dischi come solista da “Tre Rose” del 1981 a “Amore & Guerra” del 1996 per giungere a “Segreti Trasparenti” del 2004 e il più recente “Il testamento del Capitano” del 2014. Il suo songwriting ha incrociato spesso la letteratura si pensi a “Dino Campana” o “Dostoevskij”, così come è da sempre permeato di una tensione poetica che gli ha consentito di dipingere paesaggi di rara bellezza come nel caso de “Il cielo d’Irlanda” o di raccontare storie epiche come in “Camice Rosse” e “Eurialo e Niso”. Dopo aver debuttato come scrittore nel 2009 con il suggestivo “Rapsodia Delle Terre Basse”, seguito dal toccante “Ballata senza nome” del 2017, il cantautore veneto prosegue il suo cammino letterario con “Sognai talmente forte”, romanzo che nel titolo rimanda a “Fiume Sand Creek” scritta con Fabrizio De André e nel quale vengono ripercorse e riannodate tra esse canzoni tra le più importanti ed apprezzate del suo repertorio da “Volta la carta” a “Il canto del servo pastore”, passando per “Rimini” e “Cielo d’Irlanda”.
A riguardo Bubola afferma: “Nel concepire questo libro, usando una metafora culinaria, ho pensato di mettere ingredienti non comuni a tanta narrativa. Ho cercato di racchiudere tutti i miei percorsi di scrittura, da quella legata alle canzoni, alle poesie, alla saggistica, cercando una prosa immaginifica e rivelatrice. Ho riunito in tutt’uno persone reali che conoscevo profondamente, a persone che avevo solo immaginato e che ho reso personaggi del libro, a questo ho aggiunto protagonisti di canzoni come Teresa di Rimini che diventavano qui persone reali e ti parlano e si raccontano. Il libro contiene un intento di unificare e armonizzazione questi percorsi e questo ha anche a che fare con il mio lungo percorso di lettore e di musico”. Dalle pieghe del tempo è riemerso, così, un filo rosso che idealmente legava le canzoni come sottolinea il cantautore veneto: “Sotto ogni canzone, come sotto la punta di un iceberg, c’è tanta letteratura, ma anche molta vita vissuta. Essendo la vicenda di un novantenne che sin punto di morte ripercorre tutta la sua vita, ho scelto avvenimenti e canzoni che rappresentassero età diverse. Volta la carta e la struttura da filastrocca riguarda la mia infanzia, infatti ho inserito un flash-back sul rapporto di Callimaco, il protagonista, con la madre da giovane. Canto del servo pastore ha a che fare con l’adolescenza e la poesia dei poveri, dei reietti e degli emarginati, mi fu ispirata oltre che dalla realtà arcaica della Sardegna, anche da una raccolta del nostro grande poeta Giuseppe Ungaretti.
La canzone Rimini è legata alla mia entrata nella vita adulta, in cui la mitologia dell’infanzia e l’utopia dell’adolescenza si scontravano con la storia e l’attualità in maniera violenta, conflittuale e traumatica, com’era l’atmosfera culturae e politica che s respirava a metà degli anni ’70. Infatti Fiume San Creek è una canzone proprio sulle ingiustizie della storia recente, che può applicarsi a tantissimi massacri ed olocausti di innocenti che la storia ci ha mostrato fino all’olocausto e alle due guerre mondiali del secolo scorso di cui vediamo un refrain proprio in questi mesi. Credo che la buona poesia e la buona musica parlino aldilà dei fatti che le hanno ispirate. Il cielo d’Irlanda appartiene all’età adulta, l’ho scritta nell’85 a quarant’anni e dopo vent’anni che andavo in Irlanda e mi ero innamorato, della sua musica, della sua letteratura e della sua pioggia. La scrissi sul traghetto da Galway alle isole Aran”. Ad impreziosire il tutto sono le suggestioni musicali di cui sono pervase le pagine del romanzo: “All’inizio c’è la musica barocca di Händel col “Messiah”, poi c’è la mia serenata “Tre Rose” cantata da un bambino arrampicato su un vecchio glicine. Poi c’è “Take this Walz” di Leonard Cohen citata in un walzer che la protagonista Ermelinda balla con Callimaco giovane. Quindi la mia Il cielo d’Irlanda ambientata nella baia di Brandon. Poi c’è la danza dei cretesi coi piedi battenti nel tempio di Apollo a Delfi. Spiego successivamente il Canto del servo pastore sull’evocazione di Ungaretti e del faqir nell’Alessandria d’Egitto ellenofona. C’è la musica dei tamburi e delle cornamuse dello squadrone di cavalleggeri yankee del colonnello Chivington che attaccano l’accampamento pellerossa di “Fiume Sand Creek”, come colonna sonora di quando nacque la sceneggiatura della canzone come fosse un film. C’è il tango tragico di Teresa, protagonista della canzone “Rimini”, quando decide di tornare in Argentina ad aiutare i compagni a combattere la Junta Militar a metà degli anni Settanta. C’è la filastrocca popolare nel capitolo dedicato ad un’altra canzone che ho scritto con De André: “Volta la carta” che nel libro dico
essere una lunga bandiera di stracci rammendati appesa come un gran pavese agli alberi della cuccagna della musica popolare. C’è la ballata “Se ti tagliassero a pezzetti” dedicata alla Bellezza che muore attraverso i poeti che le furono amanti e che, abbandonati, abbandonarono la poesia e furono sommersi da una montagna di parole diventate sassi. C’è il blues di “Quello che non ho” e la stanza del protagonista Callimaco, l’anziano patriarca che sta per morire, diventa una specie di Cotton Club, con largo consumo di alcolici e cocktails, e la sua vecchia band di amici che suona funeral blues, folk songs e country. C’è poi il misolidio, una musica greca antica simile armonicamente al blues che fa da sottofondo alla tragedia Alcesti di cui un frammento è citato nel libro. Il finale è accompagnato da una musica etrusca immaginaria suonata dagli strumenti che vediamo rappresentati nelle loro pitture tombali: arpe, flauti doppi, trombe, crotali, nacchere e timpani di pelle d’asino”. L’intreccio narrativo si snoda attraverso il racconto narrato dal vecchio Callimaco che, in punto di morte, ripercorre la sua esistenza, intessuta tra canto e musica, ricordi e sogni, incontri e speranze, mentre intorno a lui ad ascoltarlo ci sono le persone che lo hanno amato. Di canzone in canzone, scopriamo la sua vita dall’infanzia all’ultimo sospiro in un susseguirsi continuo di vivide suggestioni che Massimo Bubola rende magnificamente con straordinaria capacità affabulativa. Nell’io narrante di “Sognai talmente forte”, si scorge un tratto autobiografico come
ci rivela il cantautore veneto: “Credo ci sia molta mia biografia ed anche molti desideri e proiezioni. Ma poi ci sono anche altre rappresentazioni di umanità in un personaggio che creiamo. Ho sempre ammirato Callimaco, poeta alessandrino del III secolo Ac, nato a Cirene di Libia, città di fondazione greca. Non amava la retorica e i versi pomposi e propose dei modelli diversi di poesia, meno enfatica e lontana dal genere epico e lirico che aveva caratterizzato la poesia greca fino al suo tempo anche se la seconda parte di uno dei cosiddetti Inni Omerici, quello ad Apollo Delfico, gli venne attribuita. Callimaco ammirò molto i poeti di Lesbo: Saffo e Alceo per la loro poesia molica e monodica, cioè per sola voce cantata e per l’affrontare tematiche legate all’attualità ed anch’e Callimaco amava cantare accompagnandosi con una cetra. La metrica alessandrina influenzò tanta poesia greca e romana fino all’endecasillabo dantesco e ai dodecasillabi, metrica prediletta da Moliere e infatti era in versi alessandrini. Sarei stato felice di averlo avuto come maestro e di seguire la sua idea di poesia civile, si parva licet, certamente mi ha ispirato anche il significato del suo nome. Callimaco, infatti, vuol dire in greco bel combattente, perché fin da bambino il protagonista del mio libro ha dovuto lottare per realizzare il suo spirito di pura poesia. Infatti, tutti abbiamo dovuto e dobbiamo combattere ancora contro la pigrizia e la superficialità nell’uso della parola che ci circonda ogni giorno, per difendere e incentivare quello in cui crediamo e per ridare il contributo aggiornato che ci è stato dato dai nostri maestri, perché è nella lingua che usiamo e nella sua musica che si formano gli anticorpi contro la stupidità e il fascismo”. Insomma, “Sognai talmente forte” è un romanzo rock denso di lirismo e poesia che non mancherà di toccare il cuore e l’anima dei lettori. Un unicum nel suo genere.
Salvatore Esposito
Foto di Simone Manzato