Massimo Bubola, Ballata Senza Nome, Frassinelli, 2017, pp. 192, Euro 17,90

Maria Bergamas era la mamma di un ragazzo, Antonio, nato nel Friuli occupato, disertore austriaco arruolato poi nelle file dell’Esercito Italiano e finito il 18 giugno 1916 sul monte Cimone tra i dispersi dell’ennesima mattanza. A lei venne dato l’incarico di scegliere, tra le salme allineate nella cattedrale di Aquileia, riesumate negli undici luoghi simbolo della 1^ guerra mondiale (Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele, Castagnevizza al mare), quella che sarebbe stata tumulata nel monumento allestito a Roma all’Altare della Patria. Un compito straziante che la povera donna quasi non riuscì a portare a termine. Giunta lentamente davanti alla penultima cassa si accasciò a terra con un grido. Quella salma fu la prescelta. Massimo Bubola parte da questo fatto storico per costruire la sua e la nostra antologia di Spoon River, perché davanti a ogni bara Maria si ferma ad ascoltare le peregrinazioni, gli amori, le speranze, le delusioni, la rabbia, di quei soldati perduti, senza nome, spediti al martirio, restituendo a quegli ignoti senza futuro, almeno un passato, un mestiere, una famiglia, un amore, una storia. E’ un tema che Massimo ha a cuore da tempo, almeno da quelle ricerche che lo portarono nel 2005 all’album “Quel lungo treno”, seguito da studi e recuperi fino a “Il Testamento del Capitano” del 2014, all’album antologico “Da Caporetto al Piave” e ora a questo libro così carico di èpos. La carneficina della prima guerra mondiale fu spaventosa, morirono oltre 9 milioni di militari (oltre 650.000 italiani) e un numero equivalente di civili. Per i soldati fu una mattanza disumana, atroce, violentissima, e mai compresa nei suoi sviluppi decisi a tavolino, senza neanche verificare terreno e difese. Solo nelle campagne tra maggio e settembre 1917 finirono all’inferno 400.000 soldati italiani, un assurdo bagno di sangue per avanzare solo poche miglia. La distanza psicologica tra i vertici indignati con la truppa (Pintor e Cavallero, tenenti-colonnelli della segreteria del Capo, suggerivano di trattare con cinica disinvoltura la brigata Puglie sospettata di mollezza: «Due buone cannonate nella schiena e tutto è finito») e gli scorati reggimenti al fronte era allucinante. E questo poco prima di Caporetto. Racconta efficacemente il Bottaio, una delle salme: “Gli attacchi di giorno in giorno si ripetono sempre uguali. Sempre con gli stessi ordini. Gli stessi obiettivi. I nostri generali hanno una fantasia da ferrovieri. Sempre sulle stesse rotaie. Sempre le stesse fermate. Sempre le stesse stazioni. Sempre senza alcun dubbio. Sempre a sbattere la testa sullo stesso muro. Sempre la nostra. Sempre senza pietà o ravvedimento. 
Senza sentimenti e senza sesto.” Gli assalti ottusamente ripetuti con prevedibile ottusità, che quasi ci si sorprende, dopo, amaramente, a essere ancora vivi: “Io per esempio durante l’assalto ho pensato che noi poveri siamo stati abituati a pagare tutto dal primo all’ultimo centesimo. Pagavamo per vivere e anche per morire. Pagavamo i preti per i battesimi, i matrimoni e i funerali, le messe in suffragio e tutto il resto. Pagavamo il dottore togliendoci il pane di bocca e per le medicine si facevano i debiti dal farmacista. Pagavamo il petrolio e le candele. Pagavamo per mangiare dal bottegaio quando arrivava la paga o dopo le fienagioni. Pagavamo anche per avere un posto al cimitero, che non avevamo la tomba di famiglia come i ricchi. E anche qui paghiamo con le nostre vite disgraziate. E chi non dà la vita, dà almeno un secchio del suo sangue e un bel bottiglione di lacrime. E gli ufficiali superiori sputano rabbia e bestemmiano per una quota o una posizione o un cannone perso. Ma quando moriamo noi nessuno mai si dispera, perché le nostre vite non contano niente per loro”. (Minatore) La paura è la compagna fedele, così descritta dal Contadino: “La paura dei fischi, delle bombe e degli shrapnel, delle pallottole dei cecchini, delle granate squarcianti, di perdere gli occhi e cercarli nel fango, degli schizzi dei cadaveri bombardati, viscere ed escrementi di uomini e bestie gonfie che ti scoppiano a brandelli in faccia, sui capelli, sulla divisa. Paura delle raffiche delle nuvole turbinanti, polvere, schegge, legno, insetti e sassi, che lasciano i colpi del mortaio e durano infiniti minuti, scavando fosse grandi come stagni”. Si parla di morte, anche se, per tradizione, a quella chi vive in campagna è già abituato, cruenta è la convivenza con gli animali di casa, pieni di lutti i ritmi della terra, carica di assenze bambine la dura infanzia: “Quante volte ho visto uccidere e pulire sull’aia una gallina, un’anatra o un coniglio, tra il sangue, il pelo, le piume e l’odore degli intestini che venivano gettati in un secchio. E poi l’uccisione del maiale che sentiva la morte arrivare e piangeva come un cristiano, mentre andavano a prenderlo. Quanto sangue irrorava l’aia, e quanto sterco insieme”. Dai racconti di questi uomini sradicati da un mondo ridotto e certo, difficile e duro ma eterno e conosciuto, emergono rimpianti e nostalgie, e le figure femminili di riferimento, le madri, le fidanzate, le mogli. Lapidaria e forte la sentenza, ancora del Contadino: “Le nostre donne hanno attraversato montagne di stanchezza, valli di lutti, boschi di lenzuola, rosari di gravidanze”
Quando i ricordi vanno alle donne però, per quei pochi momenti di straniamento da una realtà straniante, allora sono ricordi belli. Come per il suonatore Jones, il volteggiare di una gonna riavvicina il Veterinario alla sua amata: “Qui le nuvole girano come la vostra gonna sul pavimento della sala da ballo di Peschiera del Garda dove vi ho incontrata tre anni fa, mentre suonavano il walzer Voci di Primavera di Strauss. Senz’altro qualcuno tra gli austriaci là in fondo nella sua trincea l’ha ballato con una bella fanciulla e si è innamorato di lei come ho fatto io con voi. Allora come si può morire con la stessa musica, lo stesso profumo, gli stessi ricordi negl’occhi?” E’ questo un libro anche di canti e musiche, non per nulla si chiama Ballata senza nome, Bubola si autocita a apertura d’ogni narrazione (“Neve su neve”, “Rosso su verde”, “Nostra Signora Fortuna”, “Noi veniàm dalle pianure”, “Andrea”, “Fiume Sand Creek”), e tanta musica risuona in ogni pagina, dalle tradotte alle trincee, a lenire i cuori di chi parte e di chi resta: il Veterinario suona l’armonica; canta marziale il padre del Contadino: “…avanzava a passo cadenzato di marcia, cantando la filastrocca dei Tre tamburini che tornavan da la guèra, ripetendo due volte ogni frase e chiudendo la strofa con la seconda metà del verso. Ricordo la strofa «Il più piccìn dei tre, aveva delle rose», perché pensavo a me stesso e alla risposta che do alla figlia del re che m’incanta: «Mi si che te le do, se tu sarai mia sposa!”; note risuonano tra le volte di una chiesa per il Monaco: “Le note cantate e le vocali che si dilatavano e volteggiavano sopra le nostre teste, sparendo poi in alto come faville sul fuoco, ci ricordavano che la vita è una grande nebbia che il canto dirada”; il Sarto suona il mandolino e ricorda la mamma cantare sempre, anche nel sonno, e lì il canto si fa canto d’amore: “Tornando a braccetto seguitavamo ad accennare insieme a qualche bella canzone d’ammore. «Era de maggio; io no, nun mme ne scordo, na canzone cantávemo a doje voce/Cchiù tiempo passa e cchiù mme n’allicordo/fresca era ll’aria e la canzona doce.» Mi diceva sempre che era la canzone che le cantava mio padre con la sua voce morbida e sussurrata. La canzone che l’aveva innamorata e crocefissa a una vita di rimpianti e d’affanni, con quattro figli da crescere nel ricordo del padre. I sogni d’amore l’avevano nel tempo smagrata e consunta. Era un amore che non aveva conosciuto declino alcuno. Non aveva girato l’angolo del cuore, né l’arco del cielo e nemmeno la consuetudine di un bacio dovuto, dato così, sovrappensiero. E ci sono ricordi che sono leggenda, superstizione, favola e mito: “Quel pomeriggio tardi passò l’angelo della morte davanti alle finestre delle nostre case, girando per i cortili e per le aie, come un fantasma ladro. Mia nonna ci disse che, quando lo vide, si segnò ai quattro angoli, anche se non aveva ancora saputo niente. L’angelo aveva l’aspetto di uno scampolo di organza che volava a balzelloni incitato dal vento. - la pioggia pigra che sgocciolava dentro la terra, come il sangue dal naso. Questo mi portava alla mente quella volta che dormii nel letto con i nonni e mi svegliai col sangue sul cuscino e mio nonno mi disse con la bocca seria che dovevo cercare di sognare più piano, ma ricordo anche le fessure dei suoi occhi che mi sorridevano”. Un gran bel libro questo di Massimo Bubola, narratore sensibile e dòtto, dall’andare poetico e crudo, che parla molto di guerra e anche molto d’amore, da quello del figlio dimenticato nel dolore materno di un fratello precocemente morto a quello che insperato premia un anziano deluso poi dalla vocazione. Leggetelo, lo merita. Perché non resti tutto racchiuso qui dentro. “Non tutto rimarrà chiuso qui dentro. Maria, raccogli questi sogni e queste promesse interrotte e spargile in altre anime e in altri cuori, che riprendano infine a fiorire. Io intercederò per te quassù dove il dolore si scolora nella luce e la luce nell’oblio e l’oblio nel silenzio perfetto che laggiù non si conosce”


Alberto Marchetti

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