Francis Kuipers – Blindfold Blues (Autoprodotto, 2017)

Questo lavoro di Francis Kuipers fa bene il suo dovere, che può essere sintetizzato nella capacità di far confluire in uno strumento un insieme di suggestioni di ampio spettro. Lo strumento in questione è ovviamente la chitarra (ovviamente perché Kuipers è un veterano dello strumento e lo ha interpretato con coerenza sin dagli albori della sua carriera) e il panorama di riferimento non è più soltanto il blues chitarristico, ma un orizzonte più espanso e profondo. Certo il blues rimane il perno intorno a cui le quindici composizioni si muovono (“Sweet caress”): lo si percepisce spesso nel tocco, nell’approccio generale, nel blocco che si intravede a sorreggere le melodie, prima ancora che nelle citazioni stilistiche (“Some lullaby”). Ma in “Blindfold Blues” si è lavorato molto sull’espansione, sulla profondità e sull’organizzazione di strati melodici differenti (“Rubato”). Non per niente il disco è scritto per il film “The last day on earth” di Abel Ferrara e sorregge perfettamente l’andamento di una narrazione tesa e apocalittica. Come molti sanno non è la prima volta che Kuipers affronta questo tipo di scrittura (ci sono precedenti importanti sempre con Ferrara, ma anche con Godfrey Reggio e Philip Glass) che è permeata nella sua chitarra, contribuendo a definirne il suono oramai più che riconoscibile e senza dubbio originale (“Transfiguration”). Un suono nel quale sono presenti tanti elementi. Tutti straordinari e interessanti da indagare, sebbene la concretezza del tocco e soprattutto la concretezza della narrazione chitarristica rimangano i riferimenti più importanti e piacevoli da ascoltare (“Broken glass”). Dentro però – lasciatemi discutere un po’ di ciò che si vede di meno o che si sente indirettamente – c’è tutta la visione di Kuipers, che si tinge di colori forti e chiari che inondano la superficie più prossima a noi, anche quando questa non lascia apparentemente emergere nulla. C’è una serie di risonanze che sorreggono magneticamente le melodie del film, il racconto delle immagini, e un filo conduttore che lega insieme gli ambiti esplorati e incorporati dal musicista anglo-olandese, che ha mosso grandi passi qui in Italia. Innanzitutto si può citare la ricerca in ambito etnomusicale (nel quadro della quale ha indagato le espressioni popolari di aree differenti: dall’India alle Filippine al Nord America), per arrivare alle importanti esperienze al Folkstudio di Roma, alla realizzazione di programmi radiofonici e alle collaborazioni con grandi artisti (tra cui ricordiamo, a riprova del suo interesse caleidoscopico, Antonello Salis, Francesco De Gregorie e Champion Jack Dupree). Tutto questo va a finire là dentro e la sua chitarra tutto fa risuonare, senza retorica e anzi con leggera maestosità. Ogni brano di questo album – per quanto valga una considerazione forse a parte in ragione della sua “collocazione”, cioè dell’ambito entro cui è stato generato e in cui si è inserito – merita di essere ascoltato in profondità. Perché c’è estemporaneità e sedimentazione (“Dream scene”). Addirittura, si potrebbe provare a dirlo più efficacemente, c’è una forma di scrittura che ingloba entrambe le prospettive, dando forma a una narrativa piena, che non ha bisogno di indugiare su altri strumenti o su altri codici. Il brano “Blindfold Blues”, che apre la scaletta, è uno dei più trascinanti dell’album. Si pone senza dubbio su un livello differente rispetto al resto (e per questo non rappresenta in pieno l’atmosfera generale del disco) e non poteva esserci scelta migliore per annunciare utto il resto. La chitarra, dura e incessante, avanza fino alla fine senza esitare e senza flessioni. A tratti il flusso arpeggiato è intervallato da una ritmica più piena e alcune incursioni di slide, ma nel complesso richiama l’immagine di un monolite che vincola tutti gli altri brani. E a cui gli altri rivolgono i propri riflessi per amalgamare il racconto a una traiettoria decisa e coerente.


Daniele Cestellini

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