Beppe Gambetta, Folk Club, Torino, 15 dicembre 2017

Questa nuova esibizione (la sedicesima!) al Folk Club di Beppe Gambetta è l’occasione per presentare il suo ultimo disco “Short Stories”, a due anni di distanza dall’ultima apparizione su questo stesso palco per la presentazione del precedente “Round Trip” con Tony McManus. Il rapporto tra Gambetta e il club è speciale e consolidato negli anni. Gambetta torna sempre con piacere, come ha ricordato lui stesso durante l’esibizione, in un luogo in cui è certamente di casa, e il club lo accoglie calorosamente, a dimostrazione di un affetto particolare, nutrito e ricambiato negli anni. Come ha voluto sottolineare lo stesso direttore Paolo Lucà durante la presentazione: “esistono gli artisti che si esibiscono al Folk Club, quelli che ritornano con piacere, gli amici del Folk Club … e poi c’è Beppe Gambetta”. Introduzione che meglio di ogni altra descrive il contesto emotivo della serata. La scaletta è stata incentrata, come ovvio, per lo più sul nuovo disco. Lento e arioso il primo brano strumentale con cui introduce il concerto, e in cui Gambetta conferma immediatamente tutta l’espressività che la sua tecnica gli permette di esprimere. Per sua stessa ammissione questo disco nasce da una domanda: “Ha ancora senso il mestiere del folk singer?” Per Gambetta la via sta nel “cercare di raccontare in musica la strada”, e con questa dichiarazione di intenti ci introduce a “Notes From the road”, con un’esecuzione molto convincente; ma una ulteriore conferma viene certamente la successiva “Randall Collins”, vecchio brano di Norman Blake, che ben si sposa con il clima creato nel momento. 
Un repentino cambio di rotta (di strada?) ci riporta in Italia, quando realmente per la strada i chitarristi popolari di inizio secolo erano soliti suonare parti d’opera per il pubblico che voleva riascoltare le arie più famose. “La Vergine degli Angeli” è una aria di Verdi che compariva già su “Serenata”, il disco realizzato con il mandolinista Carlo Aonzo nel 2011, che Gambetta nel nuovo disco interpreta per la seconda volta, ma per chitarra sola, con il rocco deciso da chitarra acustica ma con un piglio che sfiora quasi il pianissimo di un chitarrista classico. E ai margini di questa ideale strada che il concerto rappresenta capita anche di imbattersi ne “Il Pescatore” di Fabrizio de André. È questa sicuramente l’interpretazione più sentita, ed è facile intuire il perché, per un musicista di Genova, da sempre impegnato nel portare anche all’estero la sua musica, già quando de André era ancora in vita. E gli va ben riconosciuto, al contrario di tante santificazioni postume da parte di artisti dal valore diseguale. Diversamente dal disco nel finale si diverte a riprendere il tema della PFM, che ormai fa parte a pieno diritto dell’immaginario collettivo di questo brano. La metafora della strada, il leitmotiv che ha guidato i primi brani si interrompe, e Gambetta riprende ora alcuni momenti della discografia degli ultimi anni. “La bergamasca”, eseguita con l’ausilio di una base registrata con un pedale loop e, per quanto noi non siamo fanatici della tecnica, non possiamo fare a meno di notare il timing perfetto che solo un musicista di alta scuola può permettersi. La “Sonata in La” di Pasquale Taraffo ci riporta alle atmosfere di inizio secolo già descritte sopra, ed è volutamente suonata senza amplificazione “come Taraffo”. Superati i primi attimi di straniamento per quel suono sottile e distante, ci si accorge di come l’espressività in realtà ne guadagni, e si arricchisca di colori diversi, meno accesi ed inusuali. Non siamo certamente più abituati in questi contesti ad ascoltare il nudo suono acustico di uno strumento, e sperimentare per un po’ come realmente “era sentita” una chitarra in un brano del genere per un attimo ci fa compiere un salto in una dimensione dimenticata, ma che in fondo era quella delle reali esecuzioni per cui brani come questo erano pensati. 
Chiude il primo set la “Doc Watson medley”, presente ne disco, con cui Gambetta ci introduce, tra l’altro, ai segreti di una nuova tecnica “speciale” per chitarra: il “thumb bender”. Preferiamo non togliervi il sapore della sorpresa e non spiegare di cosa si tratta, lasciandovi il gusto di scoprirlo quando vi troverete di persona ad assistere ad uno dei suoi concerti. Dopo la pausa riprende il viaggio a ritroso con un altro brano dalla sua discografia precedente, “Light in Torraca”, ma ancora una volta è con De André e “Jamín-a” (presente in “Short Stories”) che Gambetta dimostra una speciale espressività: l’interpretazione è particolarmente bella, e sembra essere questo il contesto in cui si trova più a proprio agio anche come cantante, aiutato dalla naturale confidenza con il dialetto genovese. “Leonidì”, impreziosita da una dedica alla moglie, ci regala un’altra interpretazione molto sentita. “Delmore brother’s blues” pare più un brano di passaggio, un tributo agli amori musicali di sempre di sempre in una scaletta ben costruita che ci porta ora a “Benedicta 1944” con la quale si raggiunge, a nostro avviso, il vertice della serata. Decisamente l’interpretazione più bella, sostenuta da un brano che ha in una felice idea compositiva un sicuro punto di forza, nel disco come dal vivo. “Der Wind trägt uns davon” è la traduzione tedesca del cantautore Felix Meyer di “Le vent nous portera” di un brano dei Noir Désir; la canzone si trasforma in un simpatico intermezzo con il pubblico invitato a tenere il ritmo, mentre “Super hit” si rivela una garbata, ma acuta, satira di un certo patetismo che pervade i talent show italiani così “lontani dal mondo della musica indipendente che tutti noi amiamo”. 
La chiusura della scaletta è ancora una volta affidata a Fabrizio de André con “La città vecchia”, arricchita dalla briosa coda finale di “la Doccia”, sempre dal disco con Carlo Aonzo. Il bis è d’obbligo, ed è un omaggio a Giammaria Testa, il cantautore piemontese recentemente scomparso. “Bianca Luna” è un sentito tributo, e lo spontaneo applauso del pubblico prima ancora dell’inizio del brano restituisce l’affetto per altro grande “amico” del Folk Club. A furor di pubblico un secondo bis è ancora per Fabrizio de André, con una quasi sfumata esecuzione di “'Â çímma”. Beppe Gambetta si conferma ancora, anche dal vivo, uno dei migliori musicisti italiani, ma, se ce ne fosse bisogno, anche un abile e garbato intrattenitore, tesoro di un musicista “on the road” ormai da più di trent’anni. Un musicista capace di concedersi sul palco dopo tanti anni con generosità, con una proposta ed un suo “discorso musicale” eterogeneo ma coerente e personale, con un pubblico affezionato che riconosce questa coerenza e lo ricambia con un rapporto, un sostegno ed un affetto, a nostro avviso, speciale. Vi consigliamo di seguire un suo concerto, anche se non siete appassionati di musica acustica o folk in particolare. Un concerto di Beppe Gambetta non è mai, e anche stavolta non lo è stato, un concerto “di chitarra”, ma un racconto capace di portarvi una sponda all’altra dell’Oceano Atlantico, alla scoperta di una radice musicale comune, folk, che è più solamente americana, italiana o europea, ma “popolare” nel suo significato più universale. 

Pier Luigi Auddino
Foto Massimo Forchino

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