Intervista con Rosario Altadonna, costruttore di pifara bifara

Come hai mosso i tuoi primi passi come costruttore di strumenti tradizionali ed in particolare della “zampogna a paru” dei monti Peloritani e della bifara? 
Come dicevo prima, ho iniziato poco più che decenne a costruire i friscaletti, con un piccolo coltellino da tasca di nascosto a mio padre che mi vietava di maneggiare un arnese cosi pericoloso per la mia età. Poi tutto fu una conseguenza, diventai uno dei più riconosciuti costruttori, i miei strumenti iniziarono ad 
essere molto richiesti dai suonatori più virtuosi, venivano da ogni dove della Sicilia a trovarmi. Successivamente frequentando dei costruttori di zampogne, Ciccio Mento alias Sciuni e il nipote Francesco Forestieri, spronato e supportato da loro incominciai a muovere i primi passi con la tornitura di strumenti più importanti, appunto le zampogne, che già grazie a loro suonavo da un po’ di anni. In realtà, la costruzione delle zampogne la intrapresi piuttosto tardi, costruisco questi strumenti, insieme a tanti altri non solo della nostra tradizione, da una quindicina di anni. Sempre trasportato dalla passione e dalla consapevolezza che solo attraverso la produzione di strumenti di buon livello ci si può affermare, oggi posso senz’altro ritenermi un buon costruttore. Riguardo alla bifara il discorso è un po’ più particolare, la bifara è uno strumento estinto dalla pratica tradizionale ormai da troppi anni, gli ultimi suonatori si attestano fino agli anni trenta del novecento. Il mio è un lavoro di recupero organologico, una di quelle operazioni definite di revival.

Chi sono stati i tuoi maestri?
Beh, citarli tutti sarebbe impossibile. Posso dire che i miei maestri sono state tutte le personalità del mondo della musica popolare che nella mia vita ho incontrato. Ogni suonatore, ogni costruttore, ogni studioso, anche il semplice appassionato mi ha insegnato qualcosa. Io mi sento ogni giorno un allievo, dico sempre a chi mi chiama maestro che i maestri stanno a scuola! Io sono allievo della vita, sono allievo di me stesso! Ho l’umiltà di accettare consigli e critiche, mi fanno le spalle forti e mi forgiano. Se devo a qualcuno in particolare le mie capacità e conoscenze sulla costruzione degli strumenti è grazie senz’altro a tutti i suonatori e costruttori che ho conosciuto. Non ho avuto un maestro in particolare, non sono stato discente di nessuno, potrei dire di essere un autodidatta, ma non voglio ostentare presunzione e allora sono convinto di essere stato allievo di quanti mi hanno donato anche una sola cosa delle loro conoscenze, le ho memorizzate, le ho custodite e preservate nella mia mente, e ho sempre pescato mnemonicamente in essa tutte le volte che mi sono cimentato nella costruzione di uno strumento. Ho cestinato tanti tentativi, ho sofferto dei fallimenti e ho gioito dei risultati positivi, ho fatto tesoro di tutte le esperienze, oggi costruisco i miei strumenti voltando il pensiero a tutti i suonatori e costruttori del passato, rispettandoli e riconoscendo i loro meriti. Mi capita spesso di replicare strumenti di costruttori che non ci sono più e mi fa felice riconoscere nel prodotto finito “loro”; spesso sui social posto foto di mie creazioni, ma cito
sempre il costruttore a cui mi sono ispirato perché credo sia giusto rendere merito a chi ci ha preceduto.

Quanto è durato l’apprendistato?
Posso dire che un vero “maestro” non smette mai di essere un “apprendista”, anzi il vero maestro è chi non crede mai di essere diventato maestro e studia sempre per diventarlo chissà un giorno!.

Tra gli strumenti che costruisci c’è anche il friscaletto in canna: quali sono le peculiarità di questo strumento e le sue tecniche costruttive?
Il friscaletto, come avrete capito, è lo strumento a cui sono più affezionato, ne tengo sempre uno nel taschino con me, in macchina ne ho sempre uno, e non ci sono posti da me quotidianamente frequentati dove non se ne trovi in qualche cassetto. Il friscaletto è certamente lo strumento principe delle orchestrine rustiche siciliane, quelle che nell’ambito folkloristico si vedono sui tipici carretti siciliani. È un flauto in canna con imboccatura zeppata, uno strumento antichissimo, lo strumento dei pastori greci che transumavano sui monti siciliani, lo strumento che per tanti secoli ha riempito il vuoto delle lunghe giornate al pascolo con le greggi fino ai nostri giorni. Poi a partire dai primi decenni del Novecento si emancipa dal suo contesto iniziale e diventa lo strumento che conosciamo oggi, inizia ad essere utilizzato per l’incisione di dischi destinati ai siciliani espatriati nelle Americhe, e a partire dal periodo fascista entra di diritto come strumento solista nei nascenti gruppi folkloristici. Si emancipa anche il suo repertorio che da semplici suonate bipartite diventano esecuzione di repertori più elaborati, moderni, assorbe i generi del liscio, dei ballabili valzer, polke, mazurke, ecc., contribuisce alla nascita del “liscio siciliano”, si producono intere collane di musicassette dove il
friscaletto è lo “strumento”. Diventa insomma simbolo della musica del Novecento popolare siciliano. Oggi si producono friscaletti che sono davvero eccezionali, che non hanno nulla da invidiare, per timbro e intonazione agli strumenti a tutti noi noti. Il friscaletto oggi suona nella world music, ma non solo! Sono sempre più i musicisti che lo utilizzano per esecuzioni di musica colta, nel genere del jazz, della popular, del classico, nella musica per teatro e cinema. Insomma il friscaletto oggi è lo strumento dell’identità culturale della musica siciliana; uno strumento vero!

Ci puoi parlare della bifara, che come dicevi è uno strumento ormai in completo disuso ed estinto anche nella memoria organologica?
Certamente fino a qualche anno fa era così. Gli studiosi che alla fine degli anni ’80 vennero a conoscenza di questo strumento lo fissarono sui testi scientifici proprio come uno strumento completamente in disuso ed estinto dalla memoria organologica. È certamente grazie a studiosi come Febo Guizzi, Nico Staiti e Mario Sarica, che a quei tempi rinvennero in una comunità di lingua gallo-italica sui monti Nebrodi, in particolare San Marco D’Alunzio, uno strumento che mai si era visto nelle ricerche precedenti, custodito dall’erede di quello che probabilmente fu l’ultimo suonatore di Bifara. La Bifara o Pifara, cosi lo chiamava il suo possessore, Marco Provenzale, è una particolare forma di oboe popolare. Strumenti affini sono attestati già in Europa del Medioevo ma nel Paesi arabi ancora prima. La bifara rispetto ad altri presenti in territorio italiano è piuttosto grande, costituito da un unico pezzo di legno tornito con alla base un grande padiglione a campana molto svasato che lo fanno assomigliare molto alle più tipiche zurne turche con cui però non presenta rapporti ne di discendenza ne di parentela, nonostante possa essere plausibile per via delle dominazioni di questi popoli in terra sicula. Piuttosto, lo strumento sembra essere stato importato in Sicilia dalla Provenza, o comunque dal nord Italia dove ancora oggi esiste uno strumento molto affine chiamato “piffero delle quattro provincie” con cui lo bifara siciliana condivide il particolare sistema di supporto dell’ancia costituito da una “pirouette”, ereditata dalle precedenti cennamelle medievali. 

Come si è indirizzato il tuo lavoro di ricerca organologica per la riscoperta di questo strumento?
Come spesso avviene nei lavori di ricerca scientifica, prima mi sono documentato su un’eventuale bibliografia dello strumento, ho letto i vari articoli degli studiosi prima citati. In realtà, purtroppo le fonti sono carenti per quantità e contenuti, la ricerca etnomusicologica arrivò tardi, quando già lo strumento non suonava più da almeno cinquant’anni, l’ultimo suo vero suonatore era già morto e quanto si documentò fu solo il racconto del figlio, fotografare lo strumento e rilevarlo. Non si poté registrare il suono e se gli studiosi hanno trascritto due suonate per pifara è perché il figlio dell’ultimo suonatore ricordava ciò che suo padre era solito suonare alla pifara, lo fece ascoltare riproducendolo su un flauto di ottone di produzione continentale. Il fatto di non conoscerne il suono né poterlo ritrovare negli archivi sonori aumentò in me la curiosità e soprattutto la voglia di sentire che suono poteva emettere uno strumento cosi grande e bello. Fu proprio questa voglia che mi convinse di provare a realizzarne una mia copia. Ebbi accesso ad un rilievo di uno storico messinese Nino Principato pubblicato in uno studio sugli strumenti popolari messinesi del Professor Mario Sarica, provai a realizzarne un primo esemplare, subito me ne innamorai. Ho consapevolizzato che attraverso il mio intervento avrei potuto rimettere in circolazione questo straordinario strumento, chissà restituire anche il suo repertorio. Qualche anno più tardi, grazie ai rapporti professionali con il Professor Sergio Bonanzinga, docente di discipline etnomusicologiche all’università di Palermo, durante lo svolgimento di un incarico di ricostruzione di alcuni strumenti custoditi al museo etnografico Giuseppe Pitrè di Palermo, ebbi la fortuna di rilevare personalmente un secondo strumento superstite custodito al museo di Chiaramonte Gulfi, già segnalato in precedenza su un articolo in inglese dai Professori Febo Guizzi e Nico Staiti. Oggi sono molto felice, soddisfatto del contributo che posso dare per la riscoperta di questo strumento, inizio a ricevere richieste da parte di collezionisti esigenti e soprattutto musicisti attenti, il quale hanno intenzione di ridare una nuova possibilità allo strumento, ripescando su un suo passato repertorio o assegnandone uno nuovo, ma l’importante è recuperare la Bifara. 

Pensi di aver raggiunto il massimo come costruttore?
Mi contraddistingue una certa composta modestia, cui non vorrei mai peccare! Credo che non sia tanto 
importante ciò che penso io o il livello che credo di aver raggiunto, piuttosto provo compiacimento e orgoglio quando i miei interlocutori sono soddisfatti, felici dello strumento che ho prodotto per loro. Nulla ripaga il lavoro di un artigiano, un artista, quanto vedere la gioia di chi riceve ciò che per loro hai realizzato, soprattutto se in quell’opera ci sta dentro non solo l’estro del fare, ma ci sta il cuore, ci sta amore, ci sta una parte di me. Ogni mio strumento lo considero come un figlio e gli auguro ogni bene, che possa tenere alto il nome che porta impresso.

Che materiali utilizzi per la costruzione della bifara?
I due strumenti originali, i superstiti, sono entrambi realizzati in legno di mandorlo. Anche io per la costruzione di questi strumenti utilizzo lo stesso legno; in Sicilia se ne trova ancora parecchio. Utilizzo anche altre essenze che tradizionalmente, ieri come oggi, si usano per realizzare le zampogne, l’erica arborea, l’albicocco, il sorbo, nespolo, ecc.

C’è differenza nella scelta dei materiali?
La differenza sul piano sonoro tra un essenza e l’altra non è evidentissima, solo un orecchio molto sensibile e allenato può percepire delle differenze sul timbro. Piuttosto la differenza sostanziale potrebbe essere sul piano estetico per via delle diverse gradazioni dei colori di ogni legno.

Ci puoi spiegare le diverse fasi e tecniche ti costruzione della pifara bifara?
Si parte da un grosso pezzo di legno tagliato longitudinalmente da un tronco ottenuto dalla sezione in quarto. La prima operazione da fare è rendere piuttosto conico, con un’accetta, il profilo del legno, mantenere al piede uno spessore tale da garantire una sezione circolare di 110 mm. che è la misura del padiglione a campana. Dopodiché si fissa la sezione di legno sul tornio e si sgrossa e tornisce un tronco di cono perfetto, si effettua una foratura passante internamente e un alesaggio per tratti tronco-conico, per tratti multi cilindrico per ottenere il canneggio interno dello strumento tale da garantire la giusta colonna d’aria per farlo suonare correttamente. A questo punto si riprende la tornitura per sagomare il profilo
esterno, si realizzano i fori digitali e si scende dal tornio una volta oliato e lucidato. Finito il corpo dello strumento si passa alla realizzazione della piruette di ottone, che è il supporto dell’ancia, e quindi l’ancia stessa in canna. Fatto ciò lo strumento è già suonabile.

Come lavori all'intonazione dello strumento?
L’intonazione corretta dello strumento è garantita principalmente dal rispetto delle misure e dalla realizzazione di un’ancia di qualità. A differenza delle zampogne che si intonano riducendo o aprendo la dimensione dei fori con l’uso della cera, nella bifara i fori devono essere liberi e quindi solo una pifara fatta bene potrà suonare bene. 

A parte quelli già citati, quali altri strumenti tradizionali costruisci?
Costruisco moltissimi strumenti appartenenti a tutte le famiglie organologiche, tranne strumenti a corda. Costruisco tamburi e tamburelli di vario genere, costruisco molti tipi di flauti, singoli, doppi, appartenenti a molte culture non solo italiani, cinesi, giapponesi sud americani, costruisco diversi tipi di clarinetti primordiali, molti oboi popolari. Nel tempo mi è capitato di lavorare anche a strumenti importanti, ricostruzioni di strumenti da museo, strumenti medievali, rinascimentali, barocchi, ho lavorato a ricostruzioni di strumenti da iconografie, insomma ci sarebbe tanta roba se dovessi elencarli tutti. Di sicuro posso dire di poter fare un viaggio intorno al mondo e nel tempo attraverso gli strumenti che dal mio piccolo e polveroso laboratorio tiro fuori quotidianamente.

A quale pubblico sono indirizzati i tuoi strumenti?
I miei strumenti sono richiesti da musicisti di ogni genere e livello, dai neofiti ai grandi. Li vendo con orgoglio in tutto il mondo. Mi pregio di avere tra i miei più assidui clienti musicisti di caratura internazionale e esigenti collezionisti; questo perché cerco di garantire un profilo qualitativo di rispetto e di livello sempre, e con la formula commerciale “soddisfatti o soddisfattissimi”, scherzo naturalmente! Ma 
ci tengo alla qualità di ciò che esce dal laboratorio.

Sotto il profilo commerciale ricevi particolari richieste da parte degli acquirenti dei tuoi strumenti?
Quando lavori su molti strumenti diversi capita spessissimo di ricevere richieste particolari. Per dire solo qualche esempio, ho realizzato flauti con corna e ossa animali, trombe naturali di conchiglie, nacchere di osso, mi sono stati richiesti strumenti convenzionali ma con diteggiature o scale musicali alternative. Ho realizzato strumenti con sonorità particolari per il teatro e per il cinema, molti suoni sono orgogliosamente miei. Sovente mi viene richiesto di intagliare gli strumenti per impreziosirli, ho intagliato interamente cerchi di tamburelli e tamburi giganti, zampogne completamente scolpite a bassorilievo; insomma di richieste particolari ne ricevo quasi quotidianamente. La cosa però non mi dispiace, anzi mi è da stimolo, talvolta alcune cose che penso siano davvero complicate da fare, sono quelle che mi incuriosiscono di più, spesso faccio le scommesse con me stesso, vinco sempre, però!

Ci puoi spiegare le diverse fasi della manutenzione dei tuoi strumenti con particolare riferimento alla bifara?
Con gli strumenti tradizionali non c’è tanto da manutenzionare, sono privi di meccaniche, le uniche attenzioni sono quelle di un uso consapevole, tenerli in ambienti consoni, ogni tanto oliarli, ogni tanto rifare le ance, per il resto la manutenzione migliore è avere cura di loro.

Qual è il tuo rapporto con gli altri costruttori di strumenti tradizionali?
Nel tempo ho sempre dispensato misure e consigli a chi mi ha chiesto. Non ho mai avuto riserve con nessuno, fortunatamente ho una mentalità profondamente più aperta dei costruttori del passato che quando gli chiedevo qualcosa erano sempre vaghi e fuorvianti nelle risposte. Purtroppo me ne duole quando alle richieste di aiuto di altri costruttori rispondo sempre presente e poi dagli stessi ricevo nel tempo in cambio ingratitudine, spesso, spessissimo! Fortunatamente non è sempre cosi e con molti miei colleghi coltivo dei rapporti di collaborazione anche a distanza, spesso ci si scambia strumenti per il piacere di avere ognuno qualcosa dell’altro, questo è bellissimo, possiedo una bella collezione di strumenti di molti costruttori diversi.

Stai frequentando il terzo anno di corso AFAM al Dipartimento di Nuovi Linguaggi Musicali del Conservatorio Tchaikowky di Nocera Terinese con specializzazione in Zampogna. Ci puoi raccontare questa tua esperienza dalla prospettiva del discente?
A quarant’anni decido di tornare sui banchi di scuola! In realtà, mi si è palesata davanti la possibilità di dare un titolo accademico alla mia vita dedicata agli strumenti e alla musica tradizionale. Vengo a conoscenza che in Calabria, a Nocera Terinese in conservatorio è stato istituito un dipartimento di nuovi linguaggi musicali, un corso per Musiche Tradizionali, la possibilità di conseguire un titolo accademico, una cosa importante per tutta la cultura nazionale. È importante, oggi, in un momento di crisi di questo genere musicale, venendo meno i contesti d’uso tradizionali, cercare di salvare quanto ancora esiste, e allora chi meglio di un conservatorio? Non ci ho pensato nemmeno un secondo e oggi sono diplomando in Musiche Tradizionali con strumento Zampogna. In accademia ho avuto la fortuna di approfondire la mia cultura generale, ho imparato a leggere e scrivere la musica, ho conoscenza della storia della musica, ma soprattutto ho avuto la possibilità di fare studi etnomusicologici. Il Conservatorio mi ha dato opportunità di conoscere realtà culturali e musicali di ogni dove, grazie al mio docente di Prassi Maestro Danilo Gatto ho imparato a suonare modelli di zampogne della tradizione calabrese, oggi sono in grado di suonare quasi tutte le zampogne presenti nelle culture musicali italiane. La frequentazione con colleghi, suonatori di tradizione calabrese, mi ha dato opportunità di apprendere il loro linguaggio musicale. Esco arricchito tanto! Sarò tra i primi zampognari diplomati, una sorta di record di cui andare fieri. Il diploma credo possa essere coronamento della mia vita dedicata agli strumenti e alla musica della mia terra a cui devo tutto, la Sicilia.


Salvatore Esposito e Ciro De Rosa

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