Il dimenticato quartetto etno-jazz di Keith Jarrett

Del Keith Jarrett degli anni Settanta del secolo scorso vengono perlopiù ricordati i vendutissimi dischi in solitaria che gli valsero la nomina pressoché unanime di “miglior pianista al mondo” oppure l’equilibrismo con il quale sapeva balzare da un’orchestra sinfonica ad un organo barocco. Nessuno cita che per buona parte di quel decennio tenne parallelamente in vita un laboratorio musicale in continuo fermento composto da ben più avanguardistiche sonorità ed eccezionali solisti: Dewey Redman (sax tenore, clarinetto, musette cinese), Charlie Haden (contrabbasso), Paul Motian (batteria). Uno scrigno di suoni di volta in volta misteriosi, meditabondi, tragici, intriganti, appassionati, deliranti o mistici. Una musica che all’epoca fu banalizzata da una critica musicale prevenuta e radicale e che è sovente rimasta sottovalutata purtroppo anche nei tempi a seguire. In quegli anni qualcuno avrà senz’altro pensato che quel progetto fosse solo episodico e ne vennero scritte di tutti i colori sui giornali musicali, compreso che Jarrett collaborasse con Redman, amasse il gospel e suonasse il sassofono soprano come Ornette Coleman solo per un suo supposto senso di inferiorità nei confronti dei jazzisti neri (!). I puristi del jazz insomma non gradirono per niente. Era l’epoca sociale degli scontri aperti, della contro-cultura hippie, le critiche erano feroci anche contro le musiche di Don Cherry, Alice Coltrane o Dollar Brand, tacciati spesso di pretenziosi misticismi esotici. In quei pionieristici tempi non esisteva ancora la
corrente della “world music” e non era visto di buon occhio chiunque “osasse” accostare il jazz a qualche cosa di etnico. Ma naturalmente, non rallentarono, né tantomeno fermarono una storia che iniziava allora a mal sopportare frontiere di ogni tipo. Keith Jarrett, americano della Pennsylvania, proveniente da un ceppo paterno diviso tra un ramo francese e uno scoto-irlandese e da uno materno di origine ungherese, si era esibito per la prima volta a soli cinque anni, dopo appena due di studio del pianoforte. Forse in parte anche per questi motivi lo strumento rappresentava per lui un tramite di elevazione spirituale e le sonorità espresse assieme a quel manipolo di improvvisatori, un mezzo comunicativo verso una qualche assolutezza universale. Nel 1981 ebbe a dichiarare “Sono cresciuto insieme al pianoforte, ne ho imparato il linguaggio mentre cominciavo a parlare”. I primi vagiti di questo piccolo combo risalgono invece al luglio del 1971 quando Jarrett ha ventisei anni e si ritrovano all’interno di due dischi della Atlantic, “Birth” e “El Juicio” (che vedrà ufficialmente la luce solamente quattro anni dopo). Negli stessi giorni senza Redman veniva registrato anche “The Mourning Of A Star”. Fin da subito aleggiano all’ascolto della loro creazioni, qua e là atmosfere orientali e colemaniane, non solo per la presenza di Haden ma soprattutto per l’indubbio fascino della ricerca unica ed originale del gigante di Fort Worth.

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