Giuseppe Moffa – Uauà. Omaggio in musica ad Eugenio Cirese (SquiLibri, 2022)

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Gran fermento creativo per Giuseppe “Spedino” Moffa, senza dubbio uno dei musicisti più consapevolmente attivi nel rinnovare i repertori e le pratiche esecutive della zampogna, così come nel dare nuovo slancio a rituali tradizionali nella sua comunità. Da solista ha pubblicato cinque album, è autore per il cinema e il teatro, numerose le sue iniziative in cui ha portato la zampogna a dialogare con altri strumenti, incrociando blues, jazz, rock, canzone d’autore e sperimentazioni elettroniche. Ora nel libro “Metodo per zampogna”, ‘Spedino’ raccoglie e formalizza la sua esperienza di “zampognaro” mettendo a punto un manuale di pratica della zampogna a chiave modificata. Nel CD book, intitolato “Giuseppe Moffa – Uauà. Omaggio in musica ad Eugenio Cirese (SquiLibri, 2022)” – prefato da Antonio Fanelli – con un’operazione di grande respiro, Moffa traspone in musica pagine tra le più significative dall’opera di Eugenio Cirese (1884-1955), poeta e folklorista, figura centrale nella storia culturale del Molise. Delle sue produzioni, abbiamo discusso con il polistrumentista, cantautore e compositore di Riccia.

Iniziamo dal tuo “Metodo per Zampogna”: qual è il fine?
Il fine è quello di creare un approccio più accademico alla didattica di questo strumento, fornire un'arma in più a chi vuole avvicinarsi al mondo della zampogna. Inoltre, grazie all’impegno di alcuni musicisti, di appassionati e di costruttori, la zampogna inizialmente in Molise e poi anche nel Lazio e in Abruzzo, è 
riuscita a rinnovarsi e a inserirsi in una prospettiva in grado di allargare le sue potenzialità melodico-armoniche creando un repertorio nuovo, contemporaneo, capace di dialogare con diversi generi musicali e in questo metodo ho raccolto, fissato e formalizzato le esperienze fatte da me e dai miei colleghi da circa trent’anni a questa parte, auspicando di porsi come riferimento per una nuova e inedita didattica dello strumento. Il metodo aspira ad essere volano fondamentale per un’ulteriore divulgazione della “cultura zampognara” verso nuove destinazioni.

Si distingue da altri metodi pubblicati in precedenza, nel passato (penso a Ricci, Mazzocco e Iezza o, più recentemente, a D’Armi?
Ho tenuto conto di tutto quello che è stato fatto precedentemente e sono partito da lì. In particolare, poi con Manuel D’armi si può dire che i due metodi li abbiamo scritti insieme, confrontandoci continuamente, cercando di non avere due approcci didattici completamente diversi, preoccupandoci per esempio di utilizzare la stessa notazione: fare in modo che i due metodi parlassero la stessa lingua e che fossero complementari.

A chi si rivolge?
Si rivolge a tutti: a chi vuole affacciarsi per la prima volta nel mondo della zampogna, a chi già̀ suona da autodidatta o “a orecchio” e vuole imparare a leggere scoprendo le nuove tecniche e i repertori contemporanei, ai musicisti di ogni estrazione che vogliono ampliare le proprie competenze professionali imparando uno strumento che può̀ dare un colore diverso alle proprie performances. Penso ad esempio ai vari strumentisti a fiato che vengono dal jazz o dal mondo pop. Il metodo sarà accessibile, comunque, a qualsiasi strumentista: io stesso, del resto, sono diplomato in chitarra classica. 

Come è articolato il volume?
Parte con esercizi propedeutici per chi si avvicina allo strumento per la prima volta fino ad esercizi 
complessi sugli abbellimenti, variando indistintamente dal repertorio contemporaneo con brani di mia composizione a quello tradizionale con trascrizioni dei brani più̀ rappresentativi. 

Ti auspichi che la zampogna entri nel mondo accademico? Altri strumenti sono già entrati. Come mai questo ritardo per uno strumento iconico della cultura tradizionale italiana?
Credo che la zampogna abbia un solo grande limite ed è quello della mancanza di dinamica: ha un solo volume ed è forte, questo la rende poco versatile, difficile da utilizzare sempre e a volte anche scomoda. Credo che poi il resto lo faccia l’atteggiamento elitario tutto italiano che ha il mondo della musica nei confronti di tutta la cultura popolare. Probabilmente i tempi sono maturi? Questo non lo so, ma per quanto ci riguarda ci stiamo impegnando, nella speranza lasciarci alle spalle quella consapevolezza che la cornamusa in altri paesi europei è molto considerata e da noi no.

Tra le tue pratiche di innovazione nell’uso dello strumento c’è la "Zampogna di Tesla”. Di che si tratta?
La zampogna di Tesla è stata una delle esperienze più particolari e pericolose che abbia fatto. È nata da una collaborazione con l'Istituto Tecnico "Guglielmo Marconi" di Campobasso dove gli alunni seguiti dai professori progettarono e costruirono le bobine di Tesla: veri e propri fulmini sonori. Decidemmo di accostarci la zampogna e ne facemmo un piccolo spettacolo per la manifestazione legata alle scuole "Futura Campobasso" nel 2018. Essendo un'operazione legata alle attività scolastiche è stato per ora difficile riproporla successivamente per questioni prettamente logistiche. 

Passando ora all’album “Uauà”, come nasce l’impresa di accostarti alla raccolta di Eugenio Cirese “Canti popolari del Molise”?
Nasce semplicemente da una proposta, vera e propria avance di Antonio Fanelli durante un convegno su 
Eugenio Cirese a Fossalto, organizzato dal Comune e da JustMò, cooperativa che si occupa di promozione territoriale, che poi ha curato tutta la produzione esecutiva del disco. La proposta è stata accolta con grande entusiasmo da tutti e ben presto ci siamo messi al lavoro.

Cosa hai rinvenuto nella sua opera che ti ha coinvolto?
La sua vicinanza al mondo contadino: Eugenio Cirese era un poeta colto e apparteneva al ceto borghese ma viveva e respirava il mondo contadino con un grande trasporto, questo leggo dai suoi versi.

Chi sono i compagni di viaggio?
Erika Pett (voce), Manuel Petti (fisarmonica), Marco Molino (marimba e percussioni), Lorenzo Mastrogiuseppe (basso), Domenico Ciaramella (batteria). Sono tutti musicisti molisani ma non li ho scelti per la regione di appartenenza bensì perché è nato tra noi un affiatamento musicale e umano fortissimo già da altri progetti in passato. Il fatto che siano miei corregionali fa comunque molto piacere. E poi ci sono anche le voci recitanti di Vania Trivisonno in “Ninna nònna” e Giorgio Careccia in “Repuote” e “Camina”. Ospiti pure Marco Zampogna al corno francese e Gabriele Coen al clarinetto. 

Come ha preso forma il percorso compositivo?
Innanzitutto, mi sono tuffato nell’opera di Cirese: la produzione poetica e la ricerca dei canti tradizionali, 
poi ho lasciato che le suggestioni facessero il resto.

Quale motivazione ti ha spinto a costruire brani collettivi fondendo i versi dei diversi canti?
Più che fondere canti diversi ho unito le loro diverse provenienze e i loro diversi dialetti. Nei libri “I canti tradizionali del Molise” i canti sono catalogati per tipologia: canti d'amore, canti di lavoro, ninne nanne, filastrocche per bambini, repertorio religioso, ecc. e in ogni categoria vi sono riversati i versi della maggior parte dei paesi del Molise. Nella mia selezione ho preso un verso da un paese o una singola parola da un altro, mischiando i vari dialetti così diversi tra loro. Fondamentalmente, per seguire il tentativo che aveva fatto Cirese stesso nelle sue poesie utilizzando non un singolo dialetto ma idiomi dei diversi paesi, creando così una lingua che rappresentasse tutti.

Hai privilegiato alcune espressioni oppure hai cercato di offrire una panoramica dei repertori?
Ho cercato innanzitutto di dare una visione d'insieme all'opera ciresiana che si muove tra poesia e ricerca, poi ho voluto offrire una panoramica del ciclo della vita contadina attraverso i suoi canti: dalla ninna nanna al lamento funebre tutti (o quasi) i momenti salienti della vita vengono raccontati nelle varie tracce del disco.

Sul piano musicale non ti sei mosso con intenti filologici ma hai approntato una dimensione sonora nuova, per esempio il rito della “Pagliara” assume un andamento rock…
Ho sempre pensato che l'unica filologia possibile nella musica tradizionale rimane legata ai luoghi, ai riti, e alle occasioni durante le quali questo repertorio veniva eseguito, o meglio, vissuto: una ninna nanna era cantata solo nelle case dalle mamme e solo per far addormentare i loro figli. Spostarla in uno studio di registrazione o in un teatro significa stravolgere la sua finalità e quindi la filologia viene meno già da questo primo passaggio. Rimane solo la suggestione che può dare un dato canto, che a sua volta può diventare oggetto delle più varie interpretazioni. Per quanto mi riguarda anche qui ho cercato di dare una panoramica musicale che toccasse più corde dell'animo, dove l'utilizzo di più generi musicali non è un mero divertimento stilistico, non è il fine ma il mezzo.

Hai attinto al repertorio delle comunità alloglotte arbëreshë. Come hai scelto i brani italo-albanesi molisani?
Come tutti gli altri brani anche quelli arbëreshë fanno parte delle ricerche dei Cirese, padre e figlio. La scelta è stata innanzitutto estetica in più tenendo fede a quanto detto prima sul ciclo della vita ho privilegiato i canti legati alle nozze.

La “canzone a dispetto” è stata un’altra fonte di ispirazione...
È stato più che altro un piacevole lavoraccio con i suoi otto minuti e mezzo di durata dove l'imperativo è scherzare. La canzone, la strofetta, la “strummetta” satirica è sicuramente la più diffusa in Molise, e non solo, credo. Nella lunghissima selezione che ho riportato in questo brano ho utilizzato solo un quinto dei versi raccolti da Cirese. Essi avevano senz'altro melodie e destinazioni varie e diverse tra loro: Stornelli, Serenate a dispetto, Maitunate, ecc.… ed erano cantati nelle circostanze più disparate purché avessero l'obbiettivo di sfottere o strappare un sorriso. Nella scrittura delle semplici note della melodia ho tratto ispirazione da tutte quelle canzoni a dispetto presenti nella memoria di tutti noi, anche dei più giovani, con il tentativo di fare ex-novo un motivetto già sentito, familiare, simpatico, per strappare, appunto, un sorriso dal primo ascolto.

“Canzone d’atre tiempe” rivela un Eugenio Cirese autoriale: da musicista cosa ti ha colpito di questo motivo e come sei intervenuto?
“Canzone d’atre tiempe” melodicamente si rifà al modello della canzone popolaresca degli autori locali di quel tempo. Senza toccare una nota della melodia ma solo attraverso l'orchestrazione e l'interpretazione ho cercato di evidenziare la sua forza, che è nella poesia del testo.

Con “Nina nònna” entriamo nella dimensione incrociata di amore materno e protezione magico-religiosa...
Credo sia la canzone più “antica” di tutto il disco la cui melodia è su una scala modale frigia. Sopra il ritmo cadenzato di una sedia o una culla si appoggiano marimba e orchestra d'archi con l'intento di evidenziare il testo dove insieme al sentimento dell’amore materno, vi erano riversate paure, un incrocio di superstizioni e angosce con conseguenti invocazioni di santi e madonne per proteggere i bambini da diavoli e lupi e ho scelto i testi più̀ toccanti che fanno riferimento proprio al mondo magico religioso che è alla base di gran parte della cultura popolare. 

Seguendo il ciclo della vita, troviamo “Repuote” in cui si tocca il repertorio del lamento funebre. Cosa ti ha colpito del testo e come ti sei rapportato?
L'aspetto che mi ha colpito di più è la perdita dell'identità di figlio al momento della morte della madre: “sci morta mamma nen songhe chiù figlie”, un verso così essenziale e diretto è quanto di più toccante ci possa essere. In più l'ambivalenza della parola “lasciare”: Il ricordo delle cose belle che ci lascia qualcuno di caro che ci lascia, un sentimento che attraversa angoscia e una mesta accettazione della vita e della morte. Musicalmente ho cercato di seguire la stessa linea. 

“Camina” che chiude l’album è un altro brano dove la tua verve compositiva si è trovata a suo agio con un motivo che nel 1951 ricevette un riconoscimento nell’ambito della poesia dialettale, da “Il Calendario del Popolo”.
“Camina” racconta in un modo essenziale ed unico, con la figura di “Ze Minghe”, un modo di fare e un mondo che è tramontato per sempre, quello contadino e questa poesia l'ho trattata come fosse l'ultima scena di “C’era una volta il west” o una canzone della prima produzione di Paolo Conte, senza volermi paragonare a questi riferimenti chiaramente ma l'idea compositiva è partita così.

Antonio Fanelli parla di un disco della “restanza” e della necessità di rigenerare il senso dei luoghi… tu, infatti, sei protagonista di diverse azioni a Riccia. Ce ne vuoi parlare?
Tra le cose più importanti che faccio nel mio paese c'è senz'altro la Novena di Natale che porto avanti da diciotto anni con il mio compare Christian Panichella, do volentieri una mano ai comitati locali per l'organizzazione di eventi musicali e quando capita collaboro con il gruppo folkloristico locale, nel quale sono nato e cresciuto, come nel caso del suo ultimo lavoro discografico “Pu sone e pu ballà” del quale ho curato tutta la produzione artistica. Ma “restare” per me significa soprattutto una serie di cose che vanno aldilà del mio lavoro e toccano una sfera più intima e personale: veder crescere mia figlia qui, per esempio, o la possibilità di continuare a produrre con la mia famiglia, dalla nostra campagna, tutto quello che mangiamo. Questo rigenera il mio luogo e rigenera me.


Giuseppe Moffa – Uauà. Omaggio in musica ad Eugenio Cirese (SquiLibri, 2022)
Giuseppe ‘Spedino’ Moffa è innanzitutto un fine musicista. Il suo stile pacato ma incisivo, che incornicia interventi delicati e originali, è riflesso in ogni passo di questo e degli altri suoi album. È senza dubbio uno zampognaro – leggiamo nell’intervista della recente pubblicazione, sempre per SquiLibri, del suo volume “Metodo per zampogna” – ed è, in egual misura, un chitarrista. Poi è un attento orchestratore di suoni, che cesella con perizia selezionando strumenti insostituibili. Riguardo a questo, l’album “Uauà. Omaggio in musica ad Eugenio Cirese”, vale come un esempio di scuola, che ci dice molto sul suo carattere sonoro e, in termini più generali, sulla visione musicale di Spedino: ci sono le sue chitarre, le sue zampogne, la sua voce profonda – perfettamente avviluppata a quella di Erika Petti, di impianto e tono completamente diversi –, marimba, vibrafono e percussioni, batteria, fisarmonica e basso elettrico. A questi si aggiungono, nei passaggi fondamentali di una narrazione musicale sviluppata attraverso undici brani – la cui poetica aderisce, idealmente, al ciclo della vita – il clarinetto e il corno francese, il Coro dei Mietitori e gli archi di Kalós Ensemble e dell’Orchestra da Camera di Campobasso. Infine, Spedino è un amante e conoscitore della musica popolare del Molise – la sua regione, in cui vive e opera –, che qui ci presenta in un quadro di riferimenti storiografici, etnografici e poetici molto definiti. Difatti, come recita il titolo, l’album è un’interpretazione musicale dell’opera del molisano Eugenio Cirese, insegnante, poeta, ricercatore-etnografo. Il quale, agli albori degli anni Cinquanta del Novecento, avvia un progetto di raccolta di canti popolari, il cui impianto metodologico è, in egual misura, legato a una direttrice estetica e politica. Come scrive Pasolini nel suo “Canzoniere Italiano”, in Cirese emergono “accenti di sincerità e necessità, tra un poetico crocianesimo e una vocazione socialistica di vecchio stampo, assolutamente rare”. Il lavoro etnografico di Cirese è confluito in “Canti popolari del Molise”, pubblicato nel 1953, a cui ha fatto seguito un secondo volume, pubblicato postumo nel 1957, a cura del figlio Alberto Mario.  Spedino si immerge nella raccolta e ne trae gli spunti per costruire una sua narrazione. Che mantiene la dimensione poetica e storica, pur in un quadro estetico chiaramente nuovo, in cui gli elementi di riferimento sono ricollocati – in una connessione linguistica che fonde diversi dialetti – ed elaborati in musica. Ecco, l’ambiente sonoro – una volta riconosciuto quello letterario e storico-poetico di partenza – acquisisce il profilo di un elemento totale (non ci serve altro per assorbire l’album). Da un lato per la cura di cui si è accennato in apertura. Dall’altro perché Spedino riesce a interpretarne le aperture, riconoscendo e sviluppando la matrice elastica e fortemente evocativa della narrativa popolare. In questo modo la musica diviene esplicita quanto le parole e, con queste, riesce a narrare una poetica felicemente contemporanea. Come dice lui stesso nell’intervista, la filologia è nell’impianto, nel contesto di riferimento, non nella forma. E in questa dinamica di trasfigurazione formale i brani narrano la nostra quotidianità: mista, divergente, involontariamente cadenzata, inconsciamente scandita in ritualità, scardinata da fatti violenti, inibita da frustrazioni e lutti, sollevata dalla novità. In questo quadro di riproposta – in cui la dimensione più complessa da interpretare è forse quella più intima, che comunque compare con soluzioni coerenti all’impianto generale dell’album – Spedino sparge animosità e un giusto grado di ironia, elaborando un discorso musicale pieno e aggraziato. Ne sono esempi almeno tre brani: “Qifti”, una litania propiziatoria in arbëreshë̈, proposta con un arrangiamento fluido e dilatato (con il clarinetto di Gabriele Coen), in cui la voce riesce a far vibrare la tensione legata alla raccolta del grano; “E zâmra ime rri get get”, un canto di nozze registrato nel 1954 e tratto dalle registrazioni di Carpitella e A.M. Cirese; “Ninna nonna”, brano arrangiato sul cigolio cadenzato della sedia a dondolo, stretto in una sinfonia mistica (magico-religiosa) di archi e marimba.


Daniele Cestellini

Giuseppe Moffa, Metodo per zampogna, SquiLibri 2022, pp. 156, euro 20,00 Libro con CD
La pubblicazione di questo “Metodo per zampogna” è il segno del considerevole interesse nei confronti degli aerofoni a sacco da parte di giovani e meno giovani strumentisti. Da anni Moffa è uno degli innovatori della pratica e del repertorio per zampogna in dialogo con altri strumenti non di tradizione orale e con variegati generi musicali: pensiamo al suo disco d’esordio “Bag to the future”. Con questo volume, concepito sia per i principianti che si avvicinano al mondo della zampogna e sia per gli esperti e i musicisti professionisti degli strumenti a fiato e non, Moffa intende favorire la diffusione della “cultura zampognara”. Il Metodo stato realizzato dall’editore SquiLibri in sinergia con il Conservatorio "Lorenzo Perosi" di Campobasso, con l’auspicio che possa affermarsi come riferimento per una nuova didattica della zampogna, in considerazione del fatto che numerose altre istituzioni dell’Alta Formazione Musicale sono stati attivati corsi sugli strumenti della tradizione popolare.  Dopo la parte introduttiva, dove sono esplicitati gli obiettivi didattici, l’autore fornisce elementi organologici dello strumento, affronta aspetti fondamentali come impugnatura, intonazione della zampogna, accordatura e respirazione. Oltre, il Manuale propone esercizi propedeutici e brani più complessi sul piano esecutivo, caratterizzati dalla presenza di abbellimenti. Si susseguono temi tradizionali e composizioni contemporanee, di cui sono fornite le trascrizioni. Al volume è allegato un CD audio (l’inserimento di codici qr sarebbe stato molto utile, considerato che non tutti ormai possiedono un lettore CD), contenente 12 brani del repertorio di Moffa.


Ciro De Rosa

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