Eugenio Imbriani, Poco prima del futuro, Progedit 2021, pp.116, euro 14,00/Eugenio Imbriani, F come Folklore, Progedit 2022, pp. 152, euro 15,00

Antropologia e folklore fra passato e presente (e l’eterno ritorno del tarantismo) 

Eugenio Imbriani, antropologo dell’Università del Salento, ha dato da poco alla luce due diversi e interessanti testi, usciti entrambi per la casa editrice barese Progedit: “Poco prima del futuro. La cultura fra ibridi e attese” (2021) e il più recente “F come Folklor”e (2022). Il primo volume, composto “nell’atmosfera cupa di mesi dolorosamente funestati dalla pandemia”, contiene una raccolta di saggi di argomento vario: vengono affrontati tematismi legati alla “crisi del presente”, a partire da una riflessione sulla terribile epidemia che ha colpito la terra salentina, disseccandone gli ulivi e modificandone in maniera definitiva il paesaggio (fisico e culturale), per poi approdare all’argomento, sempre fertile, del tarantismo. Nel saggio “Ibridi. Galatina e il tarantismo” Imbriani analizza il complesso rapporto fra la cittadina leccese e il fenomeno di cui è diventata – suo malgrado – l’epicentro, sia per quanto riguarda la fase terminale, caratterizzata dal dolente pellegrinaggio alla cappella di San Paolo, osservato da Ernesto de Martino e dai suoi collaboratori alla fine degli anni ’50 e magistralmente rappresentato nelle pagine della “Terra del rimorso” (1961), ma anche nel documentario di Gianfranco Mingozzi “La taranta” (1962), sia in riferimento al controverso tumultuoso ritorno di interesse che si è sviluppato negli ultimi decenni. L’autore ricostruisce puntualmente - avvalendosi anche dei diversi studi più di recente editati, che hanno di molto arricchito le conoscenze sull’argomento - l’origine del “mitologema” paolino (cioè della credenza del potere di San Paolo di dominare serpenti, tarantole, scorpioni e altri animali simili, di curare dagli effetti dei lori morsi e di disinnescarne il veleno), ma anche la genesi e gli sviluppi dell’indagine demartiniana. Il celebre saggio che ne riportò i risultati fu per diversi anni sostanzialmente ignorato dall’ambiente culturale salentino, diversamente dall’interessamento più tardivo e coevo al processo di “rinascita” della musica di tradizione locale, che ha concorso a tratteggiare l’immagine del Salento attuale, con tutto il corollario di feste piccole e grandi, a partire ovviamente da quella più celebre e debordante, “La notte della taranta”, che attrae soprattutto d’estate folle di turisti appassionati dell’“etnico”. Da tutta questa vicenda di riappropriazione culturale Galatina è rimasta in un primo momento sostanzialmente tagliata fuori, poi ha cercato di attivare una serie di non sempre felici iniziative di “valorizzazione” della memoria del tarantismo, culminanti in una controversa (e per varie ragioni molto criticata) “rievocazione storica” che si svolge durante la festa di San Pietro e Paolo, il 28-29 giugno. Un ulteriore saggio, “Ibridi, ovvero la tarantola ambigua. Sulle forme molteplici di un animale simbolico”, indaga la natura ambigua e molteplice della “taranta”, animale mitico che per quello che risulta dalla letteratura storica e dalle fonti orali – analizzate da Imbriani in una raffinata e penetrante esegesi – in molti casi veniva associato a vari tipi di ragno, ma a volte allo scorpione, al serpente (o a varie specie di serpenti), allo “stellio” o allo “stellione” – etimi peraltro sfuggenti e ricostruibili con difficoltà – e in altri casi addirittura a entità composte dalla mescolanza di caratteristiche riferite a bestie diverse. La molteplicità riscontrabile nelle fonti più remote, che spesso fanno riferimento ad autori dell’antichità classica, non sempre citati in maniera corretta, si riduce progressivamente in quelle più recenti, fino a consolidare l’immagine di un unico colpevole: il ragno. Questo naturalmente se ci si limita ad analizzare i testi sul tarantismo pugliese, perché allargando lo sguardo ai vari “tarantismi mediterranei” (su cui mi permetto di rimandare al mio “Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale”, Itinerarti 2021) ci si trova di fronte a casi ancora più articolati e problematici, come ad esempio per quel che riguarda l’argia sarda. Il libro si conclude con una digressione sul vampirismo e sul tema del “ritorno dalla morte” fra letteratura, scienza e cultura popolare. 
“F come Folklore” esamina invece le modalità con cui il complesso di fenomeni sociali riassunti in questa definizione (che rinvia a un “sapere del popolo”) è stato connotato e studiato, dall’epoca romantica fino ai giorni nostri, pur avvertendo che “essa nasconde un residuo forse ineliminabile di ambiguità, derivante dal fatto che l’oggetto, la materia che vorrebbe individuare è mobile, cambia, si trasforma nel tempo, perché appartiene alla storia e alla vita degli uomini”. In pagine vivide e stimolanti, l’autore ci conduce lungo un percorso che prende le mosse dai primi folkloristi dell’800, impegnati in una infaticabile attività di recupero di “usi, costumi, norme, credenze, ballate, proverbi…”, con particolare attenzione al tema dei canti intesi come “poesia popolare” (quindi tralasciando o comunque mettendo in secondo piano gli aspetti musicali). Il più autorevole esponente di questa stagione è il siciliano Giuseppe Pitrè, instancabile indagatore di costumi popolari e autore di una mole immensa di pubblicazioni, che comprende un’ampia gamma di fenomeni culturali, dalle feste e agli spettacoli, attraversando la cultura materiale, la medicina e la religione popolare, le cerimonie del ciclo dell’anno e della vita. Segue nella ricostruzione la temperie coloniale e poi fascista, che genera una precisa politica di appropriazione del folklore, stimolando la ripresa e a volte l’invenzione di feste tradizionali, intese come forme partecipative di massa, e creando di fatto un’ideologia ruralista e conservatrice, volta a esaltare i valori chiave del regime. Azioni condotte capillarmente attraverso la potente Opera Nazionale Dopolavoro, struttura di fatto deputata all’uso politico del “folklore”, coinvolgendo attivamente i maggiori studiosi del settore. Nel secondo Dopoguerra, sulla scia aperta dalle potenti riflessioni gramsciane e dal dibattito seguito alla pubblicazione di “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi, gli studi etno-antropologici riacquistano vigore critico, trovando l’interprete più raffinato e innovativo in Ernesto de Martino, dal cui magistero (che trova linfa vitale in innovative compagne di ricerca sul campo) si originano diverse traiettorie interpretative di cui saranno protagonisti più generazioni di studiosi, nelle università che finalmente danno spazio alle recenti discipline ma anche al di fuori. In questa fase è di estremo interesse il contributo, per molti aspetti eversivo, di altri intellettuali di frontiera, in particolare Pier Paolo Pasolini, che con intensità denuncia i danni prodotti dalla “civiltà dei consumi” sulle culture locali, come di Italo Calvino, che studia le fiabe privilegiando il punto di vista del letterato. Negli anni successivi, il boom economico con l’avvento della società dei consumi e i grandi processi migratori comporteranno cambiamenti repentini e radicali nella società italiana, mettendo in crisi le concezioni di “folklore” e di “cultura popolare”, manipolate in forme revivalistiche (in particolare in campo musicale) e spericolate “patrimonializzazioni” con esiti variabili: da rivendicazioni identitarie non sempre apprezzabili alla mercificazione turistica del “tipico”, a processi come la tutela Unesco della cultura immateriale, di notevole entità quanto di elusiva attuazione.

Vincenzo Santoro

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