Dal 2008 l’Unesco ha incluso nel Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità i canti baul delle zone rurali del Bangladesh e del Bengala Occidentale, là dove si incontrano Induismo, buddismo, vasinavismo e sufismo. I canti devozionali baul risalgono perlomeno al XV secolo, quando sono rintracciabili per la prima volta nella letteratura bengalese. A fine 2018, presentando l’album “Namaz”, Blogfoolk aveva rivelato la promettente collaborazione del saz del musicista e cantante turco-belga Emre Gültekin con la cantante Malabika Brahma e Sanjay Khyapa (dubki, chitarra, oud, rebab, bendir), evidenziando connessioni tra la musica dei bardi ashik dell'Anatolia con i canti baul del Bengala, accomunati dai modi di vita nomade e dal gusto per versi punteggiati di metafore. La modalità di registrazione delle sette tracce confluite nell’ottimo nuovo album ripercorre quella del primo: attenzione al suono in presa diretta per poi lasciar spazio ad alcune sovraincisioni con musicisti ospiti. “Banjara”, il brano che dà il titolo all'album, è stato registrato dal vivo durante il concerto tenuto all'Ethno Port Poznan Festival a giugno 2019 e restituisce l’intensità e la spontaneità caratteristica del trio. In apertura dell’album, il trio, insieme al violoncello di Annemie Osborne e al duduk armeno di Vardan Hovanissian, riprende la melodia tradizionale di “Samaye Gele”
svolgendo un testo del filosofo bengalese Lalon Fakir sul tempo che non può essere conservato e diviene passato, mentre che nella sua dimensione futura non può che rimanere incerto, non ancora visto: un invito a preoccuparci meno del passato e del futuro e ad apprezzare il valore del presente.
Il secondo brano, “Erenlerin halveti”, è anche il primo incontro con le composizioni musicali di Lütfü Gültekin, il padre di Emre, cresciuto nella valle di Munzur nel distretto kurdo di Tunceli, nella Turchia orientale e poi trasferitosi a Istanbul e quindi in Belgio, a lavorare nelle miniere di carbone, senza mai perdere di vista l'amore per la poesia e un’abilità speciale per mettere in musica i grandi maestri, da Pir Sultan a Shakespeare. In questo caso i versi vengono dal XVII secolo e sono quelli di Niyâzî Mısrî, fondatore del ramo sufi Niyaziyya o Misriyya, a celebrare la via meditativa dei dervisci, capaci di trasformare una spina in una rosa. A Lütfü Gültekin si devono anche le composizioni musicali degli ultimi due brani “Biz Dunyadan Gider Olduk”, con testo del leggendario poeta mistico dell’Anatolia Yunus Emre, fra i primi ad introdurre la lingua turca quotidiana nella poesia, e “Kanai Daglar”, con testo dello stesso Lütfü Gültekin e di Malabika Brahma che
intreccia la sua voce a quella profonda di Emre Gültekin: il loro canto chiede alle montagne di esaudire il desiderio di potersi nuovamente riunire con la persona amata. Con la melodia tradizionale di “Banjara” (che significa nomade o vagabondo) si torna all’India del XV secolo per ascoltare da Sant Kabīr, influenzato dal movimento Bhakti e fra i grandi poeti mistici e santi medievali dell'India, capaci di esprimere profonde verità con un linguaggio semplice le cui
metafore evocano il risveglio del proprio sé interiore lungo la strada che siamo chiamati a percorrere nel viaggio della vita: il nostro corpo viene paragonato a un giardino pieno di fiori in cui si stagliano i palazzi costruiti dal grande maestro, i luoghi in cui ha scelto di suonare il flauto del respiro.
“Luna” viene dalla penna di Sanjay Khyapa, composta fra le Alpi a lenire la perdita di Luna, cucciolo che gli aveva regalato sua figlia, “luna piena in una notte buia”, raggio di luce veicolato con sentimento e misura dal duduk di Vardan Hovanissian. Gli fa da contraltare “Bahar” (primavera, in farsi), sedici minuti intensi ed espressivi, impreziositi dalla batteria di Jean-Philippe De
Gheest e dal canto di Malabika Brahma che interpreta un testo composto da lei stessa.
Alessio Surian
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