Suoni e ricordi dall’Est per la giornata della Memoria

Nel XXIII e XIV secolo per sfuggire ai pogrom, gli Ebrei dalla Germania, fuggirono verso est. Si stabilirono in Polonia, dove nel 1335, Re Casimiro III, detto anche Casimiro il Grande (Kazimierz Wielki) e ultimo monarca della dinastia dei Piast, garantì loro una fetta di terra a fianco di Cracovia. Formarono quindi Kazimierz, il quartiere ebraico della città. Nel 1900 erano circa 25.000, nel 1938, 65.000 su una popolazione totale di 250.000 abitanti. Il nome del quartiere (in yiddish: Kuzmir) andava ad onorare a chi li aveva accolti. La città di Cracovia nel tempo divenne vero e proprio centro sociale vivo del mondo ebraico. Kazimierz esiste ancora e, anche se al termine dell’ultima guerra godeva di pessima reputazione, oggi è zona turistica di indubbio fascino che ospita pure un Festival Culturale Ebraico. Nel 1993 vennero qui girate anche le riprese del celebre film “Schindler’s List” di Steven Spielberg. L’invasione tedesca della Polonia iniziò il primo giorno del settembre 1939 e nemmeno un mese dopo la città capitolò, immediatamente dopo venne creato il Ghetto, spazio autonomo, separato dalle zone cristiane e venne istituito il lavoro forzato per gli Ebrei. Nel 1940, il Ghetto contava 450.000 anime, ovvero il 37% dell’intera popolazione della città che viveva su circa 340 ettari di terreno, occupando il 4,6% della superficie a disposizione: 110.000 persone al chilometro quadrato! 
Nel 1938 si contavano quarantacinque decessi per mese, quattro anni dopo erano cinquemila! La criminale “Grande Azione” nazista svoltasi tra luglio e settembre 1942 deportò e sterminò col gas, trecentomila ebrei a Treblinka, solamente uno dei campi di sterminio del regime hitleriano. L’allora governatore generale della Polonia occupata, Hans Frank, il 2 agosto 1943 dichiarò: “Quando siamo arrivati c’erano in Polonia, tre milioni e mezzo di Ebrei, oggi non ne restano che qualche decina di migliaia nei distaccamenti di lavoro. Gli altri sono, diciamo, emigrati…”. Un Blocco Antinazista che riuniva organizzazioni ebraiche, socialiste e comuniste fu creato nel marzo 1942 ma già in ottobre, quando si istituì l’Organizzazione Ebraica di Combattimento non rimanevano oramai che quarantamila persone nel Ghetto. Il 19 aprile dell’anno seguente i nazisti, approfittando del primo giorno della Festa della Pasqua ebraica (Seder), dettero fuoco al Ghetto e il 16 maggio distrussero con la dinamite la Grande Sinagoga ponendo fine a ogni tipo di insurrezione. Il vile comando delle operazioni era nelle mani del generale delle SS Jürgen Stroop. Quel poco che era riuscito a resistere alle fiamme venne bombardato e raso al suolo definitivamente per creare al posto del Ghetto, un campo di concentramento per 2.000 prigionieri ebrei e non. I pochi superstiti fuggirono tutti attraverso le fognature in direzione delle
foreste vicine dove dettero vita a brigate partigiane. La povera gente aveva resistito con quel che possedeva: un armamento derisorio contro carri armati, aerei e gas della Wehrmacht. Così come tutte le attività sociali della vita delle comunità ebraiche erano tradizionalmente accompagnate dai musicisti (klezmorim), perfino in queste situazioni estreme il canto e la musica non furono estranei o dimenticati. Divennero canzoni le parole dell’Organizzazione Ebraica Combattente, dei Partigiani, delle barricate, i lamenti dei mendicanti come dei negozianti, di chi moriva per la carestia e per il tifo, dei bimbi rimasti orfani e dei genitori rimasti senza figli, di chi si scagliava contro Dio e di quelli a cui la fede impediva di porsi domande. Milioni di voci furono zittite da una piaga che resterà aperta in eterno sulla Terra. Canzoni di lamento, tenerezza, rabbia, bisogni, desideri, eroismi; nel 1938 1, tra le altre sue canzoni, Mordechaj Gebirtig con un furore profetico compose “Undzer Shtetl Brent” che diventerà un giorno inno della Z.O.B. (Zydowska Organizacja Bojowa, Organizzazione Ebraica di Combattimento) e oggi viene recitata ovunque in numerose commemorazioni ufficiali e non. Tra le svariate interpretazioni ricordiamo quella di Moni Ovadia con la Theaterorchestra in apertura del suo CD “Dybbuk” (1995)


Come altrove, anche a Vilna (Vilnius), la cosiddetta “Gerusalemme della Lituania” prima della Seconda Guerra Mondiale, la vita ebraica scorreva in ogni campo sociale e professionale, il censimento zarista del 1897 riportava 64.000 ebrei su di un totale di 154.500 abitanti, ovvero il 40% della popolazione. La città si trovava nella parte est della Polonia e quindi all’inizio del conflitto mondiale risultava essere sotto il dominio dell’Impero Sovietico. Durante quel breve interludio di lituana indipendenza divenne il rifugio di migliaia di Ebrei, soprattutto i più impegnati politicamente. Fino a quando i nazisti non invasero l’Unione Sovietica nel giugno 1941, iniziando immediatamente gli assassinii che a fine anno erano già 60.000, tutti venivano scaraventati e ammassati in fosse comuni nei pressi del villaggio di Ponar. Quelli rimasti vivi (20.000) furono raggruppati nel Ghetto di Vilna, fino alla sua distruzione che avvenne nel settembre 1943. Ponar era per tutti sinonimo stesso di Morte. Nonostante ciò la vita culturale ebraica vide fiorire teatri, concerti, corali, letture e scuole e letteratura. La libreria del ghetto contava 10.000 libri a disposizione di chi era interessato alla difesa della dimensione spirituale di una comunità sempre più a rischio estinzione. L’amministrazione del Ghetto non dimenticò mai poesia e musica, ben conscia che le canzoni uniscono le anime ed elevano i sentimenti, senza dimenticare di rafforzare anche i muscoli. Anche la canzone “Vilna” (1935) (di Efraim-Leyb Wolfson – Alexander Olshanetsky) è stata scritta precedentemente all’Olocausto. Composta e in seguito musicata da due dei tanti scappati dai territori russi, narra con desolata nostalgia delle svariate ritorsioni contro ebrei, saccheggiati, vessati, arrestati, torturati, uccisi o deportati. “Vilna, città di spirito e candore, Vilna, città del pensiero ebraico dove si mormorano silenziose preghiere, taciti segreti della notte. Spesso ti rivedo in sogno, o mia amata Vilna, vedo il vecchio Ghetto in uno splendore annebbiato. Vilna, Vilna, nostra città natale, nostra nostalgia e nostro desiderio, quanto spesso chiamo il tuo nome e il ricordo mi fa piangere. Strade e ruscelli di Vilna, boschi, montagne e valli di Vilna, tutti ricordi di un tempo lontano. Di nascosto nell'ombra, i tuoi insegnanti hanno colmato la nostra sete di sapere. Vilna per prima ha innalzato la bandiera della libertà.” 2  Ancora Moni Ovadia la interpreta sempre con la sua Theaterorchestra in chiusura del cd “Oylem Goylem” (1991)


Quello di Varsavia e di Vilna non furono che due dei ghetti, oggi fra i più ricordati in faccia ai disastri e alle aberrazioni della storia. Anche numerose canzoni nate al loro interno, alla fine sono sopravvissute alla follie dell’Olocausto, memorie indimenticate di una creatività al servizio della verità di un’epoca scomparsa. Istanti poetici di terrore che hanno fermato la tragedia di un luogo, di un momento, di una assemblea di esseri umani, la voce di bambini dall’infanzia stravolta e sepolta  nel luogo immaginario di un ricordo. Istanti musicali restituiti da genti di comunità d’Europa Orientale, più d’una volta costrette a lasciare un alveare come uno sciame per stabilirsi altrove e che trovava il coraggio di descrivere l’atrocità di quel che stava loro succedendo. Melodie di terribili sentimenti condivisi, espressioni anch’esse della ricerca di un inaccessibile luogo pacifico fin dai tempi lontani dell’espulsione dalla Spagna del 1492. Un antico racconto chassidico narra di un ebreo analfabeta che in quei tempi non sapendo né leggere né scrivere le sue preghiere per il Kippur, lasciò la Sinagoga per recarsi in un campo di concentramento a gridare ad una
ad una le singole lettere alfabetiche, domandando a Dio di ordinarle correttamente per lui...e quelle lettere salirono al cielo fino e arrivarono a Dio! Baal Shem Tov (Besht), predicava che ciascun individuo viene al mondo provvisto di un numero prestabilito stabilito di parole e morirà quando le avrà tutte pronunciate. Quindi sarebbe corretto domandarsi ogni volta che stiamo per utilizzarle, se vale la pena morire per quelle che stiamo per pronunciare. Il potere delle parole è immenso, la nostra vita è fatta di parole e sarebbe necessario non sprecarle. In mezzo a tutte queste possibili espressioni vocali c’è anche la lingua yiddish, sopravvissuta ai lager, rimasta anima di un popolo. E l’anima, è risaputo, contiene sempre un linguaggio universale. Lo yiddish è lingua dell’erranza, sorta dal vecchio tedesco e che ha sposato un nomadismo senza frontiere dove si incontrano francese, latino, rumeno, olandese, inglese, russo, polacco, armeno. Franz Kafka sosteneva “...vorrei dirvi Signore e Signori che voi capite lo yiddish molto più di quanto crediate...non ha grammatica...è fatto solo di parole straniere...sarete vicini allo spirito dell’yiddish se prenderete coscienza che esso è dentro voi stessi...forze convergenti vi permetteranno allora di comprenderlo per intuizione...se resterete in silenzio, all’improvviso vi troverete esattamente nel cuore dello yiddish...”.

Flavio Poltronieri



___________________________________________

1 La composizione viene talvolta erroneamente datata Maggio 1942.
2 Traduzione italiana di Flavio Poltronieri

1 Commenti

Nuova Vecchia