Atse Tewodros Project – Maqeda (Autoprodotto, 2022)

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Vissuto nel XIX secolo, l’imperatore (atse) Tewodros (Teodoro II) viene ricordato come esempio dell’identità etiope e dell’unità del Paese per aver dato vita a processi di modernizzazione rispettando le tradizioni e per aver combattuto contro l’esercito coloniale inglese salvaguardando l’indipendenza dell'Etiopia. Dal 2010 Gabriella Ghermandi, scrittrice (“Regina di fiori e di perle”, Donzelli 2007), narratrice e cantante italo-etiope ha dato vita a un progetto e a un gruppo musicale ispirato a questa figura, da cui prende il nome. Iniziato nel 2010 ad Addis Abeba, in collaborazione con il compositore etiope Aklilu Zewdie e il professore Berhanu Gezaw, il progetto è stato, innanzitutto, un territorio di incontro e creazione artistica fra musicisti etiopi e italiani da cui sono scaturiti concerti, tour e l’album omonimo, “Atse Teodros Project” otto anni fa. A novembre 2022 Marilena Umuhoza Delli l’ha intervistata per il programma Eccellenze Afrodiscendenti. Per Blogfoolk, qui di seguito, Gabriella Ghermandi, da Bologna, ha raccontato il percorso quinquennale che ha portato al nuovo album, “Maqeda”, dedicato alle donne etiopi.

Vuoi ricordarci come nasce il tuo rapporto con la musica e come è sorto l'Atse Tewodros Project?
Innanzitutto, mi preme spiegare che io non nasco come musicista, ma come scrittrice e performer. Ho sempre inserito canzoni tradizionali etiopi nelle mie performance. In fondo, in Etiopia la narrazione ha questa triplice valenza, si racconta scrivendo, narrando e cantando. Nel 2009, con una mia narrazione, venni invitata in Etiopia per un convegno di “Ethiopian Studies”. Un paio di anni dopo, il Dipartimento di Storia dell’Università di Addis Abeba mi invitò a cantare i canti di guerra al cospetto dell’associazione dei patrioti etiopi che hanno combattuto contro l’occupazione italiana per la commemorazione dell’eccidio ordinato da Rodolfo Graziani. La mia partecipazione era prevista alla fine del convegno, che si è svolto tutto in amharico, ad esclusione di un intervento di Ian Campbell sul suo libro “The Plot”, relativo al massacro di Debre Libanos, sempre parte dell’eccidio ordinato dal Maresciallo Graziani. Spesso ho sentito italiani dire che gli etiopi non alcuna forma di acredine nei confronti degli italiani, ma molti conoscono poco la cultura etiope e il concetto di “ospite delle proprie parole”: nessun etiope direbbe facilmente cosa pensa dell’occupazione, a meno che non sia una persona che ha vissuto all’estero a tal punto da avere assorbito anche una forma occidentale di espressione che permette l’accusa verbale esplicita. Ma quel giorno, in quel convegno, ho sentito professori e figli di vittime del massacro raccontare di quei giorni attorno al 19 febbraio 1937. Ho avuto i brividi tutto il tempo, e tutto il tempo mi sono chiesta cosa sarebbe successo quando mi fossi alzata per cantare i canti di guerra. Forse qualcuno mi avrebbe urlato “Ehi! Ma tu sei figlia di un italiano. Uno di quei tempi”. Invece, quando mi sono messa a cantare, la sala è esplosa di cori di gioia e condivisione. Le donne hanno accompagnato i miei canti con i trilli di gioia. Io ho pianto. Dopo, tre anziani patrioti di oltre novanta anni, che avevano combattuto l’occupazione fascista, mi hanno chiesto di portare nel mondo i canti della resistenza, della loro lotta per la libertà. E io ho accettato la loro richiesta, dicendo a me stessa che se fosse nato un gruppo, sarebbe stato metà italiano e metà etiope per ribadire che gli ideali di libertà e dei diritti dei popoli sono ideali condivisi. Così è nato Atse Tewodros Project. Oltre a questo, Atse Tewodros è nato anche con un
altro fine: promuovere gli strumenti tradizionali etiopi e mettere in evidenza, per gli etiopi stessi, come questi strumenti possano dialogare con strumenti occidentali, moderni, ed essere parte anche di collaborazioni jazzistiche.

L'organico del gruppo si è trasformato nel corso degli anni: quali sono stati i principali cambiamenti e come ne hanno influenzato le sonorità e la poetica?
Si, l’organico del gruppo, dopo il primo album e il primo tour del 2014 in Italia, si è modificato. Inizialmente è cambiata la parte italiana. Nel primo album, pianista, bassista e percussionista erano di Bari (Michele Giuliani al piano, Cesare Pastanella alle percussioni, Marcello Piarulli al basso), ma i loro impegni non hanno permesso che continuassimo assieme e, a quel punto, ho provato a rivolgermi a musicisti di Bologna, a partire da Tommy Ruggero che già conoscevo ed amavo tantissimo. Lui mi ha suggerito di coinvolgere la bassista Camilla Missio ed entrambi mi hanno detto che sarebbe stato fantastico se si fosse aggiunto Fabrizio Puglisi, pianista di fama internazionale, jazzista molto vicino alla musica da trance e alla ricerca di uno spazio tra jazz e tradizione. Sul versante etiope i cambiamenti sono avvenuti successivamente. Purtroppo il grande maestro e amico, il flautista Yohanns Afeworki è deceduto e, al suo posto, è arrivato il flautista Abu Gebre, e poi Anteneh Teklemariam al posto di Fasika Hailu. Il sound è progressivamente cambiato, sicuramente per l’apporto dei nuovi musicisti, ma anche con questi stessi musicisti, nel corso degli anni, si è iniziata ad instaurare
una relazione musicale dove ciascuno si è sentito sempre più libero di portare sé stesso e la propria esperienza. Un viaggio lungo e lento che è iniziato prima di tutto con la comprensione profonda della musica etiope. Mi ricordo nel 2015, la prima volta che Camilla Missio affrontò con il basso un brano di musica tigrigna, alla fine mi ha detto: “Sono dimagrita di 15 kg”. La musica tigrigna è una musica ipnotica, in 4/4 ma con una suddivisione particolare e degli accenti inusuali, e va avanti, sempre uguale. È fatta per ballare e avvicinarsi alla trance con la danza. Il basso fa sempre lo stesso giro, e deve avere cura di tenere gli accenti al posto giusto, basta spostarne uno e il brano non gira più.
Poi c’è un altro brano, non nostro, ma della tradizione etiope, che suoniamo perché ci piace molto. Si intitola “Mela mela”, della cantante Maritù Legesse, ed è nella scala etiope “tizita minor”. Ogni volta che suoniamo questo brano Camilla alle mie spalle dice a Tommy: “Zoff pronto”, perché non si sa mai dove inizia il brano. Parte con una apertura definita, ma poi c’è un canto introduttivo che non ha una suddivisione precisa in battute, va dove tira il vento e quando finisce il canto inizia il resto. Ci è voluto del tempo per digerire la struttura irregolare della musica etiope. Per irregolare intendo che è una musica dove la metrica si costruisce di volta in volta in base al canto e non il contrario. Quando tutto questo è diventato un bagaglio assorbito e digerito, ciascuno ha iniziato a mettere la propria voce, con la capacità di farlo senza togliere nulla alla tradizione etiope. Tutto questo si sente bene nel nostro album appena uscito, “Maqeda”.

In che modo i viaggi in Etiopia hanno contribuito alla vita del gruppo? Vuoi raccontarceli?
Ci sono due diversi punti da spiegare. Il primo sono i viaggi che abbiamo fatto per andare a suonare e per incidere il disco “Maqeda”. Al primo concerto che facemmo ad Addis con questa formazione, nel 2017, vennero anche tutti i patrioti etiopi. Era la prima volta, dopo la fine dell’occupazione, che i patrioti etiopi entravano come ospiti in una istituzione italiana.
Mentre cantavamo i canti di guerra uno di loro si è alzato per declamare versi di guerra, e poi un altro e poi una patriota si è messa a cantare e ballare. Era una cosa straordinaria. Mi sono voltata per guardare i musicisti ed ho visto Tommy che piangeva. Le bacchette in mano, continuava a suonare al ritmo serrato del “Che Below” e piangeva. Una emozione incredibile, che ci ha legati molto. L’Etiopia è magica. Ci ha fatto diventare una famiglia. Quest’anno siamo stati tutti giù quindici giorni ad incidere il disco, e nuovamente abbiamo messo altre fondamenta per il nostro legame.
Altro punto sono i viaggi che io ho intrapreso per fare delle ricerche musicali. Ho fatto vari viaggi per andare dal sud al nord e lavorare con compositori di diverse etnie, con i cori delle donne, con poetesse e poeti per costruire il disco “Maqeda”, un disco dedicato alle figure femminili della storia e mitologia etiope. Questi viaggi sono stati molto importanti ma, al contempo, frustranti perché c’è tanta tanta tanta
musica dell’Etiopia che non si conosce, e non solo musica, anche strumenti, ed ho paura che prima che qualcuno la colga questa musica scompaia, distrutta dai sintetizzatori che la ripropongono storpiandola profondamente. Una lotta contro il tempo e anche contro la mancanza di risorse economiche. Ci vorrebbero dei fondi per queste cose.

Chi sono le donne protagoniste del vostro nuovo album e cosa raccontano all'Etiopia e all'Italia odierna?
Questo album è dedicato alle figure femminili della storia e mitologia etiope e nasce come reazione ad un progetto che arrivò in Etiopia finanziato dalla lotteria britannica e dalla Nike Foundation, per la crescita femminile. In un’intervista, i gestori del progetto dissero che volevano creare “Le Spice Girls d’Etiopia”: io mi sono sentita bruciare di rabbia. Un paese che ha costruito la propria appartenenza e la propria epica sulle figure maschili, voleva venire a insegnare in Etiopia, paese che fonda la propria nascita sulla figura della regina di Saba, come aumentare il potere delle donne. Non ci potevo credere. Sì, in Etiopia esistono situazioni molto pesanti di patriarcato e pratiche lesive dei diritti a danno delle donne, ma è anche il paese in cui esistono pratiche tradizionali che lasciano uno spazio di privilegio alle donne; esiste una storia che racconta di Saba, delle regine Candace del regno di Meroe, racconta di Lucy, racconta di Wolette Petros, prima scrittrice etiope del 1600. Ecco, io di questa Etiopia volevo parlare ed è nato il disco “Maqeda”.
Come scrittrice credo che ci sia una grande violenza nella narrazione, quando questa è fatta per costruire un mondo disuguale, dove una parte viene raccontata come inferiore, a danno di tutti. Perché molto di quello che sono le donne etiopi potrebbe aiutare a vedere i confini del mondo delle donne italiane. In Etiopia la presidente della repubblica è una donna, la presidente della corte suprema è una donna, metà dei
ministri sono donne, ci sono molti direttori di dipartimenti, tra i quali quello di musica, che sono donne,
imprenditrici donne. E io voglio raccontarlo nella musica questo mio paese.

Vuoi raccontarci il tuo modo di comporre e arrangiare e il percorso che ha generato “Maqeda”?
“Maqeda” è il frutto di un lungo lavoro tra Italia, Etiopia e anche Senegal. Sì, perché “Maqeda” ha visto la partecipazione di diciassette musicisti. Al gruppo base si sono aggiunti il musicista etiope Misikir Mindaye Barance, tre musicisti senegalesi (Kow Sissoko, Mbar Ndaye, Pace Diouf), tre cantanti italiane (Camilla Ferrari, Silvia Donati, Daniela Galli), una body musician (Federica Loredan) e un beatboxer (Leonardo Puglisi). Nel 2018 ho fatto la prima ricerca musicale in Etiopia, andando a lavorare con alcune donne dei cori polifonici del sud dell’Etiopia, tra cui i cori dell’etnia Gamo, in un villaggio che conosco bene perché vi ho trascorso parecchio tempo durante la mia infanzia. Al mio ritorno ad Addis ho lavorato con due compositori dell’etnia kunama, una etnia matriarcale del nord dell’Etiopia. Sono nati così i primi pezzi. Quei brani li abbiamo rielaborati in Italia e li abbiamo suonati in vari concerti. Poi sono tornata in Etiopia ed ho lavorato con altri compositori e ad altri brani, tra cui “Lucy”. Volevo un brano dedicato alla prima ominide, ritrovata in Etiopia, nelle terre Afar, e sottolineare come in tutto il mondo si chiami Lucy, mentre in Etiopia si chiama Dinkinesh, che significa “sei una meraviglia”; poi ho lavorato con un compositore e mi ha colpito una sua frase: “Mi sono sempre chiesto quale fosse la prima lingua di Dinkinesh, la lingua dell’onore, la lingua dei ritmi del corpo. Che sia stata una donna a mettersi su due gambe per prima non
mi meraviglia. Mi immagino sempre che volesse vedere più avanti. Così fate voi, volete vedere più avanti per vedere la strada del futuro, quella dei figli, anche quando non sono i vostri. Dei figli del mondo”. Così 
“Lucy”, invece di una presa di posizione in cui si ribadisse il nome etiope, è diventato un brano dove ci sono tante voci, body percussion e suoni della natura, perché ho ascoltato la visione del compositore e desiderato assieme a lui che potesse essere questa l’antica lingua dell’onore, quella dei ritmi del pianeta in cui viviamo e il ritmo del cuore.
Tra i compositori mi preme molto citare Akliku Zewidie perché è un grande musicista, un grande compositore e mi ha aiutata a realizzare melodie già dal primo disco. Del nuovo album sue sono le melodie di “Set Nat”, “Dink Hona” e “Maqeda”.
Insomma, “Maqeda” è stato un lungo andare e tornare dall’Etiopia, e tanto sentire, suonare e risuonare. Melodie ideate assieme a compositori e poi spesso stravolte dai musicisti durante il lavoro di rielaborazione.
Io non sono una persona che riesce a fare le cose in fretta. Devo digerirle, farle diventare parte di ogni mia 
molecola, solo dopo posso risputarle fuori e mi sono sentita così bene quando un giorno Fabrizio Puglisi mi ha detto: “Per capire se un brano funziona bisogna suonarlo e risuonarlo sul palco. Solo dopo puoi registrarlo”. Dico che mi ha fatto sentire bene perché ho sempre avuto paura di lavorare con musicisti che mettono fretta, e poi anche di lavorare con musicisti italiani che non si prendono il tempo di entrare dentro la musica e la cultura etiope. Insomma, con i musicisti di Atse Tewodros Project mi sento dentro la mia pelle. “Maqeda” è anche una celebrazione del nostro stare assieme e suonare prendendosi il tempo. In questo disco ogni musicista ha messo qualcosa di suo. È questo che lo rende così speciale.
Attualmente Atse Tewodros Project è composto da otto musicisti: Camilla Missio al basso, Anteneh Teklemariam al kirar (lira etiope) elettrico e acustico, Abu Gebre al washint (flauti di canna di fiume), Endris Hassen al masinko (violino etiope monocorde), Fabrizio Puglisi al pianoforte, synth e Fender Rhodes, Misale Legesse al keberò (batteria tradizionale etiope), Tommy Ruggero alla batteria e io, Gabriella Ghermandi, alla voce, più eventuali ospiti.


Atse Tewodros Project – Maqeda (Autoprodotto, 2022)
Prima di entrare in studio di registrazione, le canzoni di “Maqeda” sono state presentate dal vivo negli anni scorsi nei concerti “Maqeda - La parola alle donne; racconti, memorie, tradizioni e poteri delle donne d'Etiopia”. Il filo conduttore della scrittura, letteraria e musicale, di Gabriella Ghermandi è la storia: nel romanzo “Regina di perle e di fiori” racconta l’occupazione italiana in Etiopia e l’emigrazione in Italia; con il primo album, “Atse Tewodros”, rilegge le canzoni etiopi cantate durante la guerra contro l’esercito italiano; il nuovo album, uscito lo scorso ottobre, è dedicato alle figure femminili nelle cronache e nelle mitologie etiopi. Fra queste, Saba è universalmente conosciuta attraverso i testi biblici e coranici: raccontano della Regina del Sud, la sovrana etiope che visita Salomone per metterne alla prova la saggezza. Per le fonti arabe è Bilqis (o Balkiyis). Ma per la tradizione etiope il suo nome è Machedà, o Maqeda: il “Kebra Nagast” ("La Gloria dei Re", del IV secolo d.C., il testo fondamentale del Rastafarianesimo cui strizzano l’occhio gli accenti reggae di “Hendeke”) racconta come il sovrano etiope Menelik I fosse figlio di Maqeda e Salomone, facendo risalire la discendenza della monarchia etiope alla stirpe di Davide. Fra i nove brani, il settimo (“Maqeda”) la definisce “fiore dell’antichità” e “regina di regni benevoli”, dedicandole introspettive melodie sulla scala pentatonica Anchi Hoye, mentre il terzo (“Saba”), sulla pentatonica Ambassel, ripercorre il suo viaggio alla ricerca di conoscenze da condividere con la sua terra d’origine. Questo brano era già stato registrato in sestetto tre anni fa mettendo in evidenza la parsimonia e la sensibilità con cui si intersecano i contributi del masinko di Endris Hassen con il piano e il synth di Fabrizio Puglisi (protagonista di altre luminose pagine recenti di musiche italiane ispirate dalle tradizioni orali, dai Fawda a “Moviti ferma” di Eleonora Bordonaro).Lo ritroviamo al Fender Rhodes in “Boncho”, il brano di più ampio respiro (sette minuti), composto ed interpretato con Misikir Mindaye (come “Hendeke” e “Baranche”), effervescente manifesto per il rispetto delle donne in lingua gamo, con un ipnotico coro che interviene a più riprese mutando e infondendo sempre nuova energia al flusso musicale, con il flauto di Abu Gebre in evidenza, seconda voce capace di imprimere un tratto distintivo diverso ad ogni brano. Al flauto di Abu Gebre e al masinko di Endris Hassen sono affidate anche le avvincenti narrazioni iniziali che caratterizzano “Dink Hona”, prima di passare il testimone e lasciare che sia il Fender Rhodes di Puglisi a dilatarla e a richiamare il resto del gruppo in un trascinante crescendo. Il finale è un ritorno alle origini, a “Lucy”, sostenuta da suoni ambientali e dalla percussione corporea di Federica Loredan e Tommy Ruggero in un dialogo radioso con un ispirato coro di quattro voci femminili (Camilla Ferrari, Daniela Galli, Gabriella Ghermandi, Silvia Donati), nel brano più spiccatamente acustico, punteggiato dal basso di Camilla Missio e dalla chitarra di Papa Amath Diouf. Un’origine che rende ancora più esplicito il messaggio con cui “Set Nat” (“Sei femmina”) apre l’album: “tu sei completa, o sorella mia”, versi in piena corrispondenza con lo straordinario e articolato amalgama dispiegato dall’ottetto Atse Tewodros Project.


Alessio Surian

Foto da 1 a 6 di Ettore Tebano

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