Angeline Morrison – The Sorrow Songs: Folk Songs Of Black British Experience (Topic Records, 2022)

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Che in terra britannica vi fossero individui di ascendenza africana fin dal periodo elisabettiano è ben attestato né, tantomeno, mancano riferimenti attendibili su una presenza in epoche precedenti, almeno a partire dai soldati delle legioni romane. È anche certo che con la costruzione dell’impero, nel XVIII secolo, la presenza nera sul suolo britannico assunse più ampie proporzioni. Eppure, della diaspora africana non c’è traccia nelle canzoni popolari e le loro storie sono ancora poco conosciute, sebbene la storiografia abbia da anni colmato questo vuoto smantellando un’idea diffusa che riporta tutto all’attracco della motonave Windrush. A mettere al centro dell’attenzione queste storie è un album che è senza dubbio uno dei migliori e più significativi lavori di folk contemporaneo pubblicato nel Regno Unito dalla storica etichetta Topic Records; il suo titolo è “The Sorrow Songs: Folk Songs of Black British Experience” ed è stato inciso dalla cantante, cantautrice e polistrumentista Angeline Morrison (voce, autoharp e contrabbasso), originaria della Cornovaglia, madre giamaicana e padre scozzese. A produrlo nientemeno che Eliza Carthy (suona anche il violino e ha curato gli arrangiamenti degli archi). Il disco è stato registrato proprio in Cornovaglia presso i Cube Studios. Con l’ausilio dei fondi della Lotteria Nazionale dell’Arts Council, Morrison ha intrapreso una ricerca durata all’incirca un anno, andando a indagare questo aspetto del tutto trascurato della storia britannica. Morrison parla del suo lavoro come di un “re-storying”; il titolo dell’album deriva da “Of the Sorrow Songs”, capitolo 15 di “The Souls of Black Folk”, caposaldo della letteratura afro-americana scritto da W.E.B. du Bois (1903), che Morrison ha ripreso a leggere dopo l’assassinio di George Floyd nel
2020 e in cui si parla delle canzoni popolari degli africani schiavi in America e dei loro discendenti. Su questa altra sponda dell’oceano il discorso sui Black British nelle canzoni si nutre di stereotipi o proietta un’immagine negativa del loro ruolo. Da qui, la necessità di “fare la storia”, attingendo a fonti orali o a biografie di vite vissute. Oltre alla già menzionata Eliza Carthy, a condividere il progetto sono Cohen Braithwaite-Kilcoyne (anglo concertina, organetto e voce), Clarke Camilleri (chitarra, banjo e voce), Hamilton Gross (violino e voce), Rosie Crow (piano e voce), Alex Neilson (batteria e voce), Mary Woodvine (voce), con un cameo di Martin Carthy, che interviene nella traccia conclusiva, “Slave No More”. Il mantice accompagna l’incipit del disco, in cui due voci sintetizzano il razzismo dei primi decenni del secondo Novecento, commentando il fatto che “la gente di colore ha delle abitudini terribili, usa il giardino sul retro come gabinetto [...] se ce ne fossero di meno di loro e più di noi potrebbero imparare a vivere come noi”. Il suono delle onde e dei gabbiani introduce la splendida “Unknown African Boy”, per autoharp e violino. La canzone riprende la cronaca di un giornale ottocentesco, dove la madre racconta del tragico naufragio di una nave negriera al largo delle isole Scilly, elencando gli oggetti portati a riva, tra cui olio di palma, centinaia di zanne di elefante, dollari d’argento, scatole di polvere d'oro e il corpo di un bambino di circa otto anni (“O mie braccia brune, sono tristi e vuote, O dove, o dove è il mio piccolo figlio? È stato portato via dagli schiavisti inglesi, con un colpo di clava e una pistola puntata”).

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