Angeline Morrison – The Sorrow Songs: Folk Songs Of Black British Experience (Topic Records, 2022)

Sempre in stile folk “Black John”, assume la prospettiva di John Ystumlynn, rapito da bambino nel XVIII secolo, diventato servo in una famiglia gallese di proprietari terrieri, in seguito sposato a una ragazza del posto e diventato un celebre orticoltore con il nome di Black John, recentemente onorato con una rosa che porta il suo nome. Alle canzoni sono interposti interludi di spoken word, sulla scia degli insegnamenti delle seminali “Radio Ballads”, prodotte da Ewan MacColl, Peggy Seeger e Charles Parker, provenienti da interviste degli anni ‘60 e ‘70 del XX secolo con bianchi “rispettabili”, che riecheggiano la landlady della formidabile “Telephone Conversation” (qui, si dice che i neri dovrebbero vivere in un quartiere tutto loro, evitando così i bambini del posto). Un’atmosfera da music hall, guidata dalla concertina, accompagna “The Beautiful Spotted Black Boy”: è la storia di George Alexander Gratton, un bambino africano che, affetto da vitiligine, che gli causava macchie bianche sulla pelle, veniva esposto come attrazione da baraccone dal suo proprietario. La canzone è sapientemente costruita sullo scambio tra George, che si lamenta, e il suo padrone che si dice affezionato al bambino. I due finiranno per essere sepolti vicini nel cimitero. La magnifica “Mad-haired Moll O’Bedlam” si ispira alla credenza popolare che i capelli arruffati fossero un segno di follia e a una vecchia fotografia di una diciannovenne nera, dalla pelle chiara, con tali capelli rinchiusa nel Bethlem Royal 
Hospital per aver parlato in modo non appropriato a un poliziotto. La narrazione in prima persona prende la forma di un lamento, sostenuto da drone e da un coro da spiritual nella parte finale. Arriva un altro interludio, dove questa volta ci si lamenta degli odori della cucina dei neri. In “The Hand Of Fanny Johnson” appare la figura di Fanny Elizabeth Johnson, serva della famiglia Satterthwaite, una cui discendente nel 2006 ha deciso di seppellire la mano mummificata di Fanny Elizabeth (che è la voce narrante), tenuta incorniciata sopra il camino nel parco del Lancaster Priory per oltre due secoli. Con “Cinnamon Water”, invece, conosciamo Mary Jane Seacole, infermiera di origine giamaicana, la quale prestò servizio nella guerra di Crimea; senz’altro è meno nota della contemporanea Florence Nightingale: le sue pratiche di medicina popolare informano il ritornello della canzone. Entriamo nel XX secolo con “Hide Yourself”, eseguito per sole voci: è la cronaca dei disordini di Liverpool del 1919. Alla fine della Prima guerra mondiale, la smobilitazione delle truppe causò una forte competizione per i posti di lavoro. La percezione che gli stranieri, manodopera a basso costo, “rubassero” il lavoro scatenò rivolte e attacchi alle comunità nere e ad altre minoranze nelle città portuali britanniche. Molte famiglie dovettero barricarsi in casa e non mancarono i morti. Un’autentica, nuova canzone tradizionale è “Cruel Mother Country”, ambientata, invece, durante la guerra d'indipendenza americana, quando gli schiavi neri furono incoraggiati a fuggire, arruolandosi nell’esercito britannico con la falsa promessa di libertà in Inghilterra. Dopo un interludio di
razzismo di ambientazione agreste, ecco “The Flames Grow High”, motivo dall’atmosfera molto cupa (drone, tocchi percussivi, un violino inquieto ed ululante). Qui, ci si sposta di nuovo in Galles per apprendere la storia di June Allison Gibbons e Jennifer Gibbons, due gemelle i cui genitori erano arrivati dalle Barbados all’inizio degli anni Sessanta: insomma, erano la cosiddetta Windrush Generation. Lasciata la scuola per le vessazioni subite, per i traumi subiti il loro linguaggio divenne incomprensibile per gli altri. Nella fase estrema la loro criptofasia le portò a non parlare con nessuno, tranne che tra loro. Note come “le gemelle silenziose” iniziarono a scrivere opere di narrativa. Nella tarda adolescenza, le gemelle iniziarono a fare uso di droghe e alcol. Le cronache parlano di una serie di crimini commessi; nel 1981, dopo aver appiccato un incendio in un edificio abbandonato, furono condannate alla detenzione a tempo indeterminato nell’ospedale psicriatico di massima sicurezza di Broadmoor, a Crowthorne, nel Berkshire. Il successivo “Need no apply” è il secco interludio, che riprende i cartelli razzisti affissi sulle case o nei luoghi di lavoro (che negli anni Sessanta erano rivolti con altrettanta risolutezza agli immigrati irlandesi) che precede “Go Home”, una canzone in cui la voce di Angeline è accompagnata dalle note minimali del pianoforte, mentre
il coro (“Go Home”) fa da contraltare al canto: “This is the only home I’ve ever known”. Inizia con voce sola “Slave No More”, accompagnata poi dalla concertina, fino a diventare un canto corale. È la storia di Evaristo Muchovela, nato in Mozambico, venduto come schiavo all’età di sette anni, acquistato in Brasile da un minatore della Cornovaglia, Thomas Johns, che sembra si prese cura di lui. I due si trovano sepolti nella stessa tomba nel cimitero di Wendron, la lapide reca l’iscrizione: “Qui giacciono il padrone e lo schiavo/fianco a fianco in una tomba/ La distinzione è perduta e il calco è finito/ Lo schiavo non è più schiavo”. Spiega Angeline che “quando ho visitato la tomba per la prima volta, sapevo che avrei dovuto cantare questa iscrizione. Sentivo la voce di Martin Carthy che la leggeva, interpretando il ruolo del vicario durante la sepoltura... quindi è stato davvero un sogno che si è avverato quando lui ha accettato di farlo”. E così uno dei padri del folk revival inglese recita l’epigrafe, suggellando non solo questa emozionante canzone, ma l’intero straordinario progetto in cui musica, poesia e memoria camminano insieme. 

 
Ciro De Rosa

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