Dan Whitehouse – Voices from the Cones (Autoprodotto, 2022)

“Storia orale” è esplorazione dei significati di eventi del passato, è presenza di soggettività, è analisi di racconto, immaginazione, desideri e sogni, è riconoscimento dell’interesse pubblico del lavoro di ricerca e di documentazione attraverso testimonianze orali. È in questa cornice interpretativa ed estetica che va ascoltato “Voice from the Cones”, un importante progetto di storia orale diventato anche una produzione musicale. Il cantautore inglese delle Midlands Dan Whitehouse (https://www.dan-whitehouse.com) e il poeta e narratore John Edgar hanno lavorato su materiali d’archivio raccolti in interviste ad ex operai della comunità di Stourbridge, nelle West Midlands, per secoli centro dell’industria vetraria, con tecniche introdotte da immigrati ugonotti, riparati in Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni cattoliche. Un territorio che abbondava di materie prime adatte alla fabbricazione del vetro artistico. Per quattro secoli quest’industria è fiorita con riconoscimenti importanti, tanto che gli oggetti di design di Stourbridge arrivarono fin nelle case dei reali d’Europa. Nell’area ancora oggi si produce vetro, seppure in misura molto ridotta a seguito della deindustrializzazione negli anni '80 e '90 del Novecento che ha visto la chiusura di molte delle aziende più grandi. Nel 2019, su commissione di Alan Ellsmore (Ruskin Mill Trust) e con il sostegno della Red House Glass Cone di Wordsley, Dudley Museum Service e National Heritage Lottery, Whitehouse ed Egar hanno lavorato al progetto che celebra quattrocento anni di storia operaia, Prodotto da John Elliott dei The Little Unsaid, che suona piano, synth ed elettronica, il lavoro coinvolge la cantautrice e pianista locale Elizabeth J. Birch, il polistrumentista svedese Gustaf Ljunggren (pedal steel, banjo, synth) e un piccolo stuolo di musicisti: Lukas Drinkwater (chitarra), Chris Cleverley (chitarra, voce), Kim Lowings (voce) , Nicole Justice (voce), Angella Corinna (voce), Simon Smith (basso) e John Large (batteria). Il progetto discografico si compone di due dischi: il primo, “The Songs”, contiene dodici canzoni, il secondo, “The Story”, segue la scrittura documentaristica delle radio ballad sul modello di Ewan McColl, raccontando storie tratte da un archivio di interviste a 100 ex lavoratori del vetro che raccontano i loro ricordi del lavoro nel settore, insieme a nuove interviste condotte da Dan ed Edgar. Prende forma un racconto corale che restituisce il senso profondo della vita, delle lotte, delle trasformazioni che hanno investito questa comunità. “Voices From The Cones” è l’apertura in veste di folk song, una sorta di introduzione con i ricordi in viva voce di Malcolm Andrews, l’ultimo apprendista a lavorare a Stourbridge. L’elettronica ammanta la vivace “Moving”, che rende in note il movimento del vetro, costruendo una similitudine con le migrazioni che diverse parti del mondo raggiunsero Stourbridge. La martellante “Rouse Ye Women” narra la vicenda della sindacalista Mary Macarthur e si ispira al vaso “Strongest Links”, creato dall’artista Vic Bamforth, che celebra lo sciopero del 1910 di dieci settimane delle chainmaker (fabbricanti di catene di metallo), guidato da proprio da Mary, che condusse a salari più alti ed equi. Con “Front Door” entriamo in un’atmosfera da music hall: John Edgar canta una canzone che ricorda come i lavoratori del vetro usassero spesso i pub locali come luogo di mercato per vendere gli ornamenti che avevano realizzato e arrotondare il salario. Tra gli oggetti venduti nei pub c’era una percussione costruita con una sottile membrana di vetro, di cui si canta e si rappa (Nicole Justice) nel R’n’B “Flip Flop”. Voce (Kim Lowings), pianoforte e hammer dulcimer in “Picking Up Sticks”, il cui titolo si riferisce a un rito di passaggio per i maestri incisori in cui gli apprendisti dovevano scendere lungo il canale per trovare un bastoncino usato come attrezzo di lavoro. Sono minimali “The Last Apprentice" (voce di Chris Cleverley e synth di Gustaf Ljunggren) e “The Old Savoy” (voce e chitarra di Whitehouse), dove affiorano i ricordi di Malcolm Andrews. “Rose Bowl" parla dell’inusuale generosità dei datori di lavoro. La storia è quella di Joan Plant (la voce narrante), alla quale il datore di lavoro permise di nascondersi in una cassaforte durante un episodio di astrafobia, mentre il titolo della canzone fa riferimento al regalo di nozze che le fu fatto. Banjo e chitarra sostengono il canto nel folk blues di “Free Beer”, una canzone che è ispirata nuovamente alla testimonianza di Andrew: assetati per il caldo prodotto dalla lavorazione del vetro, alcuni operai sorseggiavano durante il lavoro una bottiglia birra presa al pub. Lo strumentale per chitarra e synth, “The Hive" è uno strumentale, il cui titolo fa riferimento ai forni conici. La conclusiva “Hands Heart Head” vede Cleverley alla chitarra, Ljunggren alla pedal steel e Katie Whitehouse che armonizza con Dan. La delicata song riassume lo spirito di questo mondo conducendoci nella contemporaneità del Glasshouse College, un’impresa sociale che ospita un centro artigianale e delle arti e un centro di documentazione del patrimonio locale. Come detto, il secondo disco, nello stile della radio ballad, riprende le canzoni, intervallate dalle narrazioni di John Edgar e da spezzoni di interviste a Malcom Andrews e Joan Plant. Un articolato lavoro di storia locale che ripercorre esperienze di lavoro, di lotta, di vita in una dimensione affettiva, emozionale e politica. 


Ciro De Rosa

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