Birkin Tree – 4.0 (Felmay, 2022)

Sono appena ritornati da uno dei luoghi della musica in Irlanda, Ennis, capoluogo della Conte di Clare, dove hanno partecipato all’Ennis Trad Fest: parliamo dei Birkin Tree, il cui nome è ben conosciuto dai nostri lettori. E come potrebbe essere altrimenti, visto che da lungo tempo tessono un solido legame musicale tra la Penisola e le terre d’Irlanda? Questa vota non hanno fatto passare lustri per concedersi a un nuovo ascolto.  A soli tre anni da “Five Seasons”, la band ligure ha inciso “4.0”, registrato da Alessandro Mazzitelli nel suo studio di Toirano (SV), un lavoro che se da un lato celebra i quarant’anni on the road del gruppo fondato da Fabio Rinaudo, dall’altro traccia nuovi percorsi stilistici e timbrici, in virtù dell’innesto del violinista italiano Luca Rapazzini e del consistente apporto del cantante e chitarrista scozzese Tom Stearn. L’eleganza degli arrangiamenti, l’abilità dei solisti, l’ampliamento dei timbri canori e la solidità del suono d’insieme sono i tratti centrali del lavoro di cui il pubblico italiano ha avuto un assaggio lo scorso luglio quando la band si è esibita al prestigioso Ravenna Festival, condividendo il palco anche con il trio di Martin Hayes. Ospite d’eccezione della rassegna romagnola, il violinista di Clare era stato protagonista in precedenza, in conversazione con chi scrive, anche della presentazione della sua autobiografia “Shared Notes”, un imperdibile racconto di una vita nella musica. Della nuova produzione dei Birkin, abbiamo parlato con il veterano della band, il piper Fabio Rinaudo, e Michael Balatti, imprescindibile flautista, compositore ed anch’egli anima propulsiva dei Birkin.

Iniziamo col dire che i festeggiamenti per i quarant’anni on the road sono iniziati lo scorso giugno al Ravenna Festival con il concerto della Notte Irlandese e la due giorni con Martin Hayes, che ha presentato anche la sua autobiografia “Shared Notes”. Cosa è accaduto? Che sensazioni e insegnamenti ha portato quella esperienza?
Fabio Rinaudo - Il concerto di Ravenna Festival è stato un momento davvero molto bello sia per me sia per la band e ringrazio per la grande opportunità. Incontrare Martin Hayes è sempre un importante momento di riflessione sul modo con il quale affrontiamo l’ascolto, lo studio e l’esecuzione della musica irlandese. Le sue parole, il suo suono, la sua musica indicano la via per la ricerca “dell’essenza” ovvero di quel modo dove il fare musica diventa un’espressione totale di noi stessi e che unisce cuore, mente e corpo nell’esprimere nel modo più profondo il repertorio che stiamo suonando. È un percorso di ricerca molto lungo ed appassionante. L’amicizia che mi lega a Martin  ha fatto sì che  insieme  si sia potuto più volte  esaminare, riflettere e declinare le tematiche che legano l’uomo , la musica e la “tradizione” trovando sempre novità e stimoli per continuare sempre la riflessione. Il fine potrebbe essere riassunto simbolicamente nel suono di poche note, basta quello per trasmettere e raccontare a chi ascolta ...

Birkin Tree 4.0? Cosa è un upgrade? 
Michael Balatti -
Il nome del titolo è semplicemente un gioco di parole (o di cifre) su 40, gli anni di attività del gruppo. 4.0 richiama, per gioco, alle release dei software che vengono rinominate per appunto 2.0/3.0/4.0 e così via. 4.0 è una istantanea dei Birkin Tree nel 2022, il gruppo ha quasi cambiato generazione, tramite i cambi di organico avvenuti negli ultimi tempi, che hanno fatto scendere la media di età del gruppo di dieci anni. Il sound è rimasto comunque fedele a una certa estetica – la nostra - che sempre abbina il rigore esecutivo e la conoscenza non superficiale del repertorio irlandese alla ricerca di una espressività in cui la nostra indole mediterranea possa esprimere il suo naturale calore. 

Parlateci dei nuovi ingressi nella formazione… 
Michael Balatti - I nuovi ingressi in organico sono stati sostanzialmente due: Luca Rapazzini al violino e Tom Stearn alla voce e nylon string guitar. Non è stato semplice trovare un violinista da inserire nel nostro organico da quando – per ragioni professionali – Daniele Caronna non ha potuto più suonare regolarmente nel nostro gruppo, tanto che per qualche anno nei live e anche nel nostro penultimo disco “Five Seasons”, inciso con la famosa violinista Aoife Ni Bhriain, abbiamo dovuto spesso ricorrere a ospiti irlandesi per ricoprire questo ruolo. Luca fa parte dei Birkin Tree dalla fine del 2018, combina una conoscenza approfondita dello stile irlandese con una preparazione classica, il che lo rende particolarmente duttile e utile al suono d’assieme del gruppo. Tom Stearn è un cantante, cantautore e chitarrista originario di
Glasgow, che da qualche anno si è trasferito a vivere in Italia. Nonostante la provenienza scozzese Tom non ha un background forte nella musica tradizionale, viene prima dalla musica classica e poi dal mondo dell’indie rock (il suo principale progetto in Italia è stato il gruppo Kettle of kites). Tom ha partecipato al disco in qualità di ospite (in 6 delle 10 tracks), ma da qualche mese è entrato a far parte nell’organico stabile del gruppo. Il suo apporto al suono del disco è stato determinante, la sua prospettiva sul repertorio irlandese e scozzese è quella di un valido musicista outsider, e gli outsider – quando capaci e sensibili –   possono rappresentare un valore aggiunto determinante. Il sound del gruppo è anche cambiato tramite un avvicendamento nella strumentazione del gruppo: la cantante Laura Torterolo è diventata la chitarrista stabile del gruppo mentre Claudio De Angeli si è spostato a bouzouki e banjo. L’impiego di due plettri porta a una maggiore ricchezza timbrica e ritmica.

Come mantenete vivo il rapporto con la musica tradizionale irlandese contemporanea e dell’area per così dire “celtica”? 
Michael Balatti - Gli ultimi due anni non hanno consentito di frequentare l’Irlanda regolarmente come abbiamo fatto negli anni precedenti. Il 12 novembre siamo stati a Ennis, nella contea di Clare per presentare il disco all’Ennis Trad Festival, un appuntamento molto seguito da tutti gli appassionati del 
settore. Cerchiamo di mantenere il rapporto con questo repertorio in ogni modo possibile: ascolto, confronto tra di noi e con altri musicisti con cui individualmente o come gruppo collaboriamo, lettura di manoscritti e archivi, sessions quando è possibile. Suonare questo repertorio significa – per me quantomeno – esserne in qualche modo ambasciatori (o missionari, a seconda del punto di vista!), per cui cerco sempre per quanto possibile, di partecipare alle session – che sono utili per rinnovare il repertorio nonché importanti per valore aggregativo e di comunità – per coinvolgere e frequentare le nuove generazioni, che anche in Italia praticano questo repertorio in modo convincente. 

Quali ascolti privilegiate? 
Michael Balatti - Siamo in cinque, non siamo tutti uguali, questa risposta potrebbe prendere cartelle e cartelle di testo, quindi cerchiamo di condensarla agli ascolti condivisi da tutti. In generale tutti noi ascoltiamo musica tradizionale, lavori indipendenti di singoli musicisti che per lo più incidono a titolo personale e non come band, e che spesso, ancora oggi si fatica a trovare sui servizi di streaming come Spotify o Apple Music. Il rapporto con la musica irlandese tradizionale e con il repertorio più autentico e immediato è imprescindibile. Negli ultimi anni siamo tornati e ritornati molto all’ascolto dei dischi di Peter e Angelina Carberry, che credo siano un ascolto realmente condiviso da parte di tutto il gruppo. Ci sono altri musicisti delle ultime generazioni che credo che tutti noi riteniamo particolarmente interessanti,
per l’originalità e per l’approccio fedele al repertorio, come Cormac Begley, Caoimhin O’Raghallaigh, Caitlin Nic Gabhann e Ciaran O’Maonaigh (che anche appaiono nel nostro disco come ospiti). Ovviamente ascoltiamo, riascoltiamo e ascoltiamo di nuovo e ancora Martin Hayes, che è e rimane una delle più interessanti personalità nell’ambito della musica e della cultura irlandese. La sua prospettiva su questa musica è un esempio di come si possa essere fedeli allo spirito e alla natura di un repertorio tradizionale, riuscendo comunque a comunicare e rivolgersi a un pubblico globale, con una sensibilità contemporanea.

Cosa si trova nel programma di “4.0”? 
Michael Balatti - Una scelta eclettica, suddivisa 50/50 tra canzoni e strumentali. Gli strumentali comprendono brani che attingono dal repertorio secolare irlandese come Óró sé do bheatha abhaile (nella inusuale versione tratta da Old Irish Folk Music and Songs di P.W. Joyce) e Ned of the Hill, dal repertorio recente d’autore (Charlie Lennon, Liz kane Caitlin Nic Gabhann) fino a un paio di mie composizioni. Le canzoni sono principalmente tradizionali irlandesi, tranne Land o’ the Leal, canzone scozzese cantata da Tom Stearn. In generale, abbiamo cercato di lavorare a un programma che possa soddisfare un pubblico più trasversale possibile, con una scelta originale di repertorio e arrangiamenti pensati per dare spazialità al suono, all’espressività delle voci e dei singoli strumenti. 
Fabio Rinaudo -
Il brano d’apertura dura ben undici minuti… gli altri sono comunque oltre i cinque minuti, non è cosa da poco e non molto frequente nella musica tradizionale irlandese su disco. È un set che ha pensato ed articolato Michel. Lo trovo evocativo e descrittivo, dove si possono ascoltare ma anche “vedere” diversi “musical landscape” che ci portano nella terra d’Irlanda. Sicuramente dice tanto del nostro modo di fare musica, dove il piacere del raccontare attraverso la musica sia basilare. “Muovere degli affetti” in chi ti ascolta ritengo che sia il fine ultimo del suonare. È il punto di interscambio più alto che si possa raggiungere durante un concerto, dove si crea un’energia tra il pubblico e i musicisti che permea ed accresce chi suona e chi ascolta formando una vera “Ecclesia musicale”.

C’è una centralità delle uilleann pipes nel suono di questo album? O la cornamusa è sempre parte del gran suono d’insieme?
Fabio Rinaudo - Non penso che ci sia una centralità del suono della uilleann pipes in questo disco. Certo  mi ha fatto molto piacere aprire il nostro lavoro discografico suonando ”Oró Sé do Bheatha ‘Bhaile”, un’antica  marcia che ben si presta alla cornamusa. L’ho immaginato come un momento di grande valore simbolico: il suono del mio strumento è il ‘ponte sonoro’ tra il passato, ricco di 40 anni di storia e il nuovo sound e la nuova line up. Cerchiamo sempre di distribuire i brani tra i vari solisti per dare un certo equilibrio e varietà. Ovviamente il flauto e il violino permettono possibilità più ampie dal punto di vista delle tonalità e quindi la loro presenza potrebbe risultare un pochino più ampia, ma in realtà nell’insieme del disco i suoni degli strumenti solisti si equilibrano offrendo un’ampia palette di colori e atmosfere.

Come è cambiato il tuo suono nel corso degli anni? Che influenza ha avuto l’interesse per la musica antica e per le cornamuse della Francia centrale?
Fabio Rinaudo - Sono ormai trentasette anni che suono la cornamusa. Un lungo cammino di ricerca, riflessione e crescita che non avrà mai fine. Mi ha dato tanto e sicuramente l’interesse per altre tipologie di 
cornamuse con il loro proprio linguaggio e l’ascolto e lo studio di altri ambiti musicali, in particolare la musica antica, sono stati e sono tutt’ora molto stimolanti e di grande utilità. Linguaggi diversi per esprimere il comune sentire dell’uomo: questo trovo sia particolarmente affascinante. Cercare di comprendere come attraverso il suono, lo stile ed il linguaggio si possa narrare ed emozionare è davvero molto bello. Dobbiamo farlo nostro e riportarlo in ogni strumento e in ogni genere che si suona, ovviamente nel pieno rispetto delle cifre stilistiche ed esecutive di ogni strumento o repertorio. Nel rispetto del significato più alto potremmo dire che si dovrebbe aspirare ad essere “pneumatofori”, ovvero avere la capacità di diffondere e raccontare in musica il nostro sentire attraverso il suono, la melodia ed il ritmo.

Come avete lavorato alla scaletta e agli arrangiamenti? 
Michael Balatti - Complice la pandemia e il cambio di abitudini da essa dettato, l’approccio a questo disco è stato diverso rispetto a quello con cui abbiamo affrontato i lavori precedenti. La scelta del materiale è stata principalmente mia per quanto riguarda gli strumentali, e di Laura e Tom per quanto riguarda le canzoni.  Abbiamo poi iniziato a lavorare al repertorio in gruppo ristretto per sgrossare gli arrangiamenti, in modo da ritrovarci alle prime prove in plenaria pronti per occuparci dei dettagli, e non dei concetti. L’intero processo ha richiesto poco tempo, rispetto a quanto eravamo abituati a utilizzarne per gli altri progetti discografici, che sono passati da un lavoro condiviso fin dalla fase iniziale. 

Come scegliete le songs da incidere e da proporre dal vivo? 
Fabio Rinaudo - Le canzoni vengono segnalate normalmente da tutti i membri del gruppo. Ovviamente la prima analisi di fattibilità viene fatta dai cantanti perché devono sentire questi brani nelle loro “corde sonore”. Se saranno graditi allora si passerà ad un ulteriore esame, il quale riguarda ciò che il brano 
potrebbe suggerire al nostro gusto e alla nostra creatività in relazione alle possibilità di arrangiamento e di orchestrazione. Se si percepisce un indirizzo positivo si inizia a lavorare sull’aspetto armonico per poi ricercare le migliori soluzioni per rendere al meglio quelle sensazioni che la canzone ci trasmette. 

Quali Birkin portano dal vivo questo nuovo lavoro? E per quei pochi che ancora non vi conoscono: cosa aspettarsi e cosa non aspettarsi a un concerto dei Birkin Tree?
Fabio Rinaudo - Come detto, questa è l’attuale formazione dei Birkin: Laura Torterolo (voce e chitarra), Tom Stearn (voce, chitarra e bouzouki), Fabio Rinaudo (uilleann pipes e whistle), Michel Balatti (flauto traverso irlandese) e Luca Rapazzini (violino). Molte volte si aggiungono famosi ospiti irlandesi per dare un tocco di vivacità e novità al concerto e naturalmente aumentando il divertimento per noi musicisti. Suoniamo la musica irlandese cercando di portare l’ascoltare a compiere un viaggio sonoro, ricco di immagini ed emozioni. Dove l’aspetto evocativo si unisce al ritmo ipnotico, dove le storie cantate da Laura e Tom possano essere specchio dove ritrovarsi, dove i suoni degli strumenti della tradizione possano risvegliare arcaiche sensazioni. O semplicemente che possano uscire dal teatro con un bel sorriso ed un pizzico di nostalgia.



Birkin Tree – 4.0 (Felmay, 2022)
#BF-CHOICE
 

Bastano gli undici minuti della suite iniziale, “Paddy's rambles through the park”, a mettere le cose in chiaro su come i Birkin sappiano scavare nel libro aperto della tradizione irlandese. Un set molto articolato, aperto da una marcia molto nota, “Óró se do bheatha ‘bhaile”, perché associata al rito dell’ “hauling home”, che consisteva nel portare la sposa a casa del marito ad un mese o poco più dal matrimonio ed era un’occasione di importanza pari solo allo stesso matrimonio. Nell’Ottocento il tema mutò di significato divenendo un saluto di benvenuto agli esiliati politici irlandesi. L’attenzione per la pronuncia melodica tradizionale porta i Birkin a interpretare magistralmente una malinconica slow air (che dà il titolo a tutto il set) per poi chiudere con “Ned of the hill”, un’altra canzone, questa volta ottocentesca, suonata a tempo di slow jig con un intreccio raffinato di corde e fiati. Entra la limpida e versatile voce di Laura Torterolo in “Erin on the Rhïne”, che è una song di separazione, appresa dal repertorio di Nuala Kennedy: qui, un soldato in partenza per la guerra chiede all’amata di rimanergli fedele. Il ritmo si fa serrato con il successivo set di quattro reel (due irlandesi e uno quebecchese) denominati “Sister’s reels”, ciascuno dei quali consente ai solisti di fiorire, ma mai a discapito di un efficace suono d’insieme. Un nuovo tuffo nei drammi sociali della storia irlandese lo porta “Edward on Lough Erne’s Shore”, una canzone scritta dal poeta Peter Magennis su un motivo tradizionale: il racconto drammatico in forma di lamento, dalla prospettiva di una donna, che assiste all’esilio forzato in Australia dei suoi figli e all’imprigionamento del suo Edward, pena tramutata dopo che in prima istanza erano stati tutti condannati a morte con la falsa accusa di aver ucciso un cavallo. È la vicenda di Edward Cassidy, esponente della società segreta dei Ribbonmen e figura di rilievo della comunità locale in un’area della contea di Fermanagh in lotta contro i proprietari terrieri, che ci riporta allo sfruttamento e ai soprusi da parte dei latifondisti e al dispossesso della terra dei fittavoli nell’Irlanda della prima metà dell’Ottocento. Nel brano entra alla grande in scena la concertina di Caitlin nic Gabhann. Segue un passaggio nel folk irlandese d’Australia inserito in un altro medley strumentale, “Three deer and a hare”.  Il nuovo Birkin, lo scozzese di residenza ligure Tom Stearn, porta voce e chitarra a corde nylon in “Mountains of Pomeroy” (scritta da George Sigerson, medico e scrittore nel 1869) in cui ritorna la concertina, che ben contribuisce al racconto della tragica storia del fuorilegge Reynardine e del suo amore contrastato per una donna, ispirata al personaggio letterario del brigante italiano Rinaldo Rinaldini, protagonista di un romanzo tedesco, divenuto popolare anche in Gran Bretagna e Irlanda. Un vivace valzer di Michel Balatti (“Gabriella’s waltz”) apre il set “Elevated”, che prosegue con due tradizionali e un motivo di Caitlin Nic Gabhann, di nuovo protagonista con la concertina che, insieme al violino dell’altro ospite Ciarán Ó Maonaigh, astro dello stile del Donegal, arricchisce l’impianto timbrico della band. Si passa a un’altra ballata, questa volta di origine scozzese, “Land o’ the leal”, sempre affidata al canto sicuro di Stearn con l’accompagnamento al piano di Fabio Biale, che sfocia in un finale strumentale, “The Road to Gluntane”, composizione di Cuz Tehan, in cui la band è davvero a pieno regime.  La cornamusa irlandese introduce la giga “Trip to Athlone”, primo atto delle superlative quattro danze tradizionali e d’autore, complessivamente chiamate “O’Rourke’s”, eseguite con un mirabile equilibrio e la consueta finezza esecutiva dalla band che di solito le propone come encore nei loro concerti. Qui, invece, la chiusura giunge, sorprendentemente, con un altro brano cantato: si tratta della celebre ballata del periodo napoleonico, “Bonny Light Horseman”, esemplarmente presentata nelle accurate note in lingua inglese del booklet che accompagna l’album fisico, in cui ritorna l’incisivo duetto delle voci di Torterolo e Stearn, con Rapazzini che si unisce nel coro, il tutto avvolto in un arrangiamento che via via diventa corale. Attenzione per le fonti, ricerca e rilettura di materiali tradizionali con grande sensibilità per gli accostamenti timbrici, per le melodie, per le sfumature, un ampio ventaglio di repertori che attraversano secoli di musica e pagine di storia irlandese fino a giungere agli autori contemporanei: è l’entusiasmante cammino dei Birkin Tree lungo le strade del folk, da quarant’anni, nel presente e nel futuro.


Ciro De Rosa

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