Rocco Rosignoli – Musica Straniera. Le canzoni di Leonard Cohen (Autoprodotto, 2022)

Dopo aver preso parte ad alcuni progetti collettivi e aver dato alle stampe nove album come solista tra cui vanno citati il disco di canti ebraici “Shir” del 2018, il concept dedicato ai canti politici “Canti Rossi” del 2020 e il più recente “La canzone dei dinosauri” del 2021, Rocco Rosignoli torna con “Musica Straniera – Le canzoni di Leonard Cohen” nel quale ha raccolto le personali traduzioni di dodici brani dal canzoniere del cantautore canadese e che arriva in contemporanea alla pubblicazione del volume monografico a sua firma “L'arte di Leonard Cohen tra storia, musica ed ebraismo”, pubblicato dalla Mimesis Edizioni. Registrato a La Taverna di Contile, nel comune di Varsi, tra il 14 e il 18 giugno 2022, il disco è stato prodotto ed arrangiato dallo stesso cantautore parmense che si destreggia tra chitarre, basso, violini, violino baritono, fisarmonica, oud, tastiere, avvalendosi del contributo di Vince Robivecchi alla batteria e Miriam Camerini alle voci. Le canzoni originali “Stranger Song” “Master Song” e “Hey, That's No Way To Say Goodbye” provengono da “Songs Of Leonard Cohen” del 1968, “Story Of Isaac” da “Songs From A Room” del 1969, “Famous Blue Raincoat” e “Last Year's Man” da “Songs Of Love And Hate” del 1971, “Chelsea Hotel #2” da “New Skin For The Old Ceremony” del 1974, “The Gipsy's Wife” e “The Traitor” da “Recent Songs” del 1979, “Dance Me To The End Of Love” “Night Comes On” e “Hallelujah” da “Various Positions” del 1984, “Treaty” da “You Want It Darker del 2016. I brani evidenziano una scelta inequivocabilmente tesa a celebrare la tensione poetica di canzoni in perenne bilico tra aspirazione e distruzione, possibilità e avvilimento, corruzione e innocenza. Ad aprire il disco è “Fino Che L'Amore E’ Vivo” (“Dance Me To The End Of Love”), un piccolo sortilegio vestito di ritmo klezmer. Descrive l’orrore delle agghiaccianti esecuzioni musicali da parte di un’orchestrina di ebrei internati, costretti a suonare per accompagnare i loro compagni introdotti nei forni. Quella musica classica, nell’intenzione dei carnefici nazisti, aveva lo scopo di rappresentare la bellezza della fine della loro vita. 
La sensualità e la carnalità di questo testo hanno pochi eguali, le parole mettono in scena la colomba che fu simbolo di salvezza raggiunta per l’Arca di Noè e le tende che rimandano alla tradizione ebraica che vuole i matrimoni celebrati sotto un baldacchino di stoffa, simbolo della casa “nomade” che gli sposi costruiranno assieme. Per Cohen la fine dell’amore ha il significato di termine della vita, la canzone incoraggia a portarlo avanti fino all’estremo sacrificio. La vita finisce solo quando termina il sentimento di umanità, come avvenne nell’Olocausto. La parola stessa “danzami” invertendo l’azione ad opera dell’oggetto verso il soggetto, sconvolge la grammatica, questo improprio transitivo al posto del corretto intransitivo rafforza il significato assoluto di danzare fino all’interno del corpo e all’intimità dell’anima. Affinché il ballo fonda i due esseri in uno solo. Si prosegue con “Canzone Dello Straniero” (“The Stranger Song”) che probabilmente non si riferisce solamente alla sfera dell’estraneità affettiva di Cohen ma ne descrive l’identità nomade, l’individuo ebreo è storicamente esiliato per discendenza stessa. Il Levitico, terzo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana, sottintende come anche l’Eterno si dichiari “straniero”, anzi lo straniero assoluto, figura paradigmatica dell’altro da sé. La canzone è un salmo metà biblico e metà picaresco in cui il gioco d’azzardo diventa rituale sacro, indispensabile per l’espiazione. L’immagine del gioco delle carte con le sue tensioni, la sua drammaturgia permanente, i suoi sviluppi psicologici dalla dinamica dubbiosa, si addice perfettamente all’allegoria amorosa. E la fortuna in amore non potrà che restare inevitabilmente delusa per un giocatore alla ricerca della carta vincente, se altro non è se non un buon “Giuseppe in cerca di una mangiatoia”. 
Per Cohen, l’amore dunque non è letizia, viene rappresentato in tutto il suo pericolo, il giocatore deve stare sempre all’erta, essere pronto a barare o a fuggire, superando le proprie emozioni ingannatrici e il desiderio di una qualsiasi stabilità, poiché il rischio di perdere la propria creatività prima e la propria volontà poi, è sempre incombente. La terza canzone è “Tregua”. Il ritornello di “Treaty” implora una qualche certezza, la firma di un patto, anche se Cohen è incredulo davanti alla distanza tra l’uomo e una divinità che lo lascia in balìa dei propri veleni. Nella canzone c’è il richiamo al passo del Nuovo Testamento dove i farisei chiesero a Gesù quando sarebbe venuto il regno di Dio, ci sono citazioni del miracolo delle nozze di Cana, del sacrificio sul Golgota, delle folle danzanti nel giorno delle Palme, del serpente e del peccato originale. Per contro, più che al Creatore parrebbe riferirsi al suo egotismo nei confronti di Marianne, quando afferma “abbiamo venduto noi stessi per amore ma ora siamo liberi, mi dispiace così tanto per averti reso un fantasma ma solo uno di noi era vero e quello ero io”. “Chelsea Hotel No.2” ci porta a New York dove il Chelsea era all’epoca, uno squallido hotel nel quartiere dei teatri, un palazzo vittoriano di dodici piani dai mattoni rossi e dalle inferriate nere, costruito a fine ottocento. Tra i suoi corridoi e l’ascensore nemmeno l’ombra di turisti in vacanza, piuttosto anime in cerca di gloria o di autodistruzione, le droghe sembravano aprire la possibilità, come scriveva Lady Betjeman “di intrufolarsi in paradiso”. Cohen compose la canzone narrando del fugace incontro con Janis Joplin che prima di morire per overdose dichiarò che lui e Jim Morrison erano gli unici uomini famosi con cui era stata e che entrambi non le avevano lasciato proprio un bel niente. 

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