Rocco Rosignoli – Musica Straniera. Le canzoni di Leonard Cohen (Autoprodotto, 2022)

“La Canzone Del Padrone” è la versione in italiano dell’onirica, ipnotica e severa “Master Song”. Zeppa di oscure e torbide metafore, rappresenta lo strazio apocrifo e malato di un povero cristo tradito dalla sua Maria Maddalena con qualcuno che finisce per apparire come una specie di eroe immortale e il cui corpo sembra risplendere qualsiasi cosa egli faccia, anche la più banale, come porgere “il torsolo di una mela”. Il delirio del protagonista chiarisce ancora una volta come la schiavitù del sentimento laceri la libertà di chi ne è prigioniero. La simbologia eucaristica evocata dal “pane e vino” richiama anche il ciclo di morte e rinascita dei misteri eleusini della Grecia Antica. Ad essa Cohen mescola erotismo, desiderio di controllo ed una ambiguità che evoca sia un triangolo amoroso che una trinità mistica. Il corpo della donna si fa tempio, implorazione, fuoco, galera, dannazione. “Scende La Notte” appartiene a quel filone di canzoni a sfondo bellico iniziato con le immagini di “Lover Lover Lover” del 1974 e che proseguirà con quelle di “Nevermind” del 2014. Il testo di “Night Comes On” percorre il cammino a ritroso attraverso le dolorose perdite patite da Cohen: della madre che amava le canzoni yiddish tristi e nostalgiche, del padre veterano della Prima Guerra Mondiale insignito di medaglia al valore, di Suzanne e in parte dei figli, perfino degli amici del Billy’s Bar di Hydra, quando la vita e l’amore di Marianne erano un idillio paradisiaco. Nella riga finale sarà proprio la madre a spronarlo a tornare alla vita del mondo come dettato nel Deuteronomio 30,19 della Torah e scritto anche sotto la fiamma eterna nella Sala della Memoria dell’Olocauso di Washington. “La Moglie Dello Zingaro” (“The Gypsy’s Wife”) è una delle canzoni autobiografiche di coppia che narrano della fine del rapporto tra Cohen e Suzanne Elroad, madre dei suoi figli e definita “zingara” per aver deciso di riprendersi la propria libertà. Una vera tragedia emotiva per Leonard. I versi finali contengono l’ammonimento al non separare, presente nell’Antico Testamento e si concludono con la citazione del catastrofico episodio biblico del Diluvio Universale. “Storia Di Isacco” (“The Story Of Isaac”) può essere interpretata come una delle numerose denunce contro l’allora guerra nel Vietnam ma l’universalità delle immagini evocate dal racconto riuscirebbe a coprire qualsiasi conflitto. Le parole di Cohen oltrepassano l’idea di una localizzazione precisa, allargano i confini, in effetti proprio in quel momento il conflitto si stava estendendo alla Cambogia. 
Cohen a fine canzone prende le distanze e dichiara apertamente di non voler essere apparentato con assassini guerrafondai. La “misericordia” che chiede per le uniformi ricorrerà sovente nei suoi testi, è un termine, “hesed” traducibile dal lessico biblico come “amore benevolo”. Una parola che possiede una valenza molto elevata nella religione ebraica, poiché non è frutto solamente di una alleanza tra Dio e l’uomo ma è origine dell’alleanza stessa. Leonard non ha mai composto canzoni cosiddette “pacifiste” e anche questa non termina con una dichiarazione di riconciliazione tra generazioni ma con una profonda affermazione di onestà: “Quando tutto sarà ridotto in polvere vi ucciderò se devo, vi aiuterò se posso, quando tutto sarà ridotto in polvere vi aiuterò se devo, vi ucciderò se posso”. Il pavone che dona l'immagine finale alla canzone, spalancando la ruota in segno di vittoria, in natura è un simbolo di lotta e di ripristino della giustizia e in religione di spiegamento cosmico dello spirito. Leonard rimescola le carte scegliendo che l’io narrante sia Isacco, il figlio che miracolosamente Sara partorirà in vecchiaia quando anche Abramo, a cento anni aveva perso speranze di avere una discendenza che portasse il suo nome. Questo divenne possibile poiché la sterilità di Sara non era fisica ma “teologica” e aveva lo scopo di dimostrare che il figlio che sarebbe arrivato era “dono” di Dio. Non frutto di semplici meccanismi generativi biologici umani ma offerto ad Abramo come desiderio esaudito. Leonard, alla vittima predestinata, fa dire di avere nove anni e di dover correre per star dietro al passo del padre. Ma la realtà biblica è ben differente: quando il padre lo condusse sul Monte Moriah, Isacco di anni ne aveva ben trentasette e difficilmente avrebbe potuto correre con il peso della legna che gli era stata caricata sulle spalle e che sarebbe servita al sacrificio. Questo silenzioso viaggio dello sconforto da parte del vecchio patriarca Abramo, non è geografico, ma disegnato nella geografia della fede. Nella struggente “Non Sto Per Andare” (“Hey, That's No Way To Say Goodbye”) l’amante (Leonard) lascia la donna nel dolce momento supremo dopo il quale il sentimento inevitabilmente si logorerà. Non si tratta di un abbandono ma di un tentativo di metamorfosi per contrastare l’inevitabile, il rapporto d’amore è dolcemente paragonato al confine mutevole tra la riva e l’acqua del mare. 
In “Il Bel Cappotto” (“Famous Blue Raincoat”) è talmente evidente che Cohen parla di sé che se ci fosse anche il minimo dubbio, appone la firma finale con il proprio nome e cognome. E’ la canzone sull’arrendevolezza delle passioni che si sgretolano col trascorrere degli anni, sul fatalismo di quel che non si tenta neanche più di evitare, sull’accettazione a tutti i costi e qualunque sia il prezzo da pagare. Un testo facilmente adattabile alla maggior parte delle storie d’amore, di gelosia o di riconquista. Nella canzone, oltre al protagonista e Jane, il triangolo ha un lato misterioso, un personaggio che non viene mai nominato ma solo evocato e perfino ringraziato con riconoscenza. A lui verrà riservata da entrambi gli amanti una porta sempre aperta. L’interpretazione immediata o più evidente nelle parole di Cohen, sovente però ne cela altre. Questo innominato destinatario della lettera potrebbe non essere per niente un secondo uomo, quanto piuttosto un’altra parte di Leonard stesso, con la quale l’autore tenderebbe per l’ennesima volta ad una riappacificazione. Quella parte che Freud chiamava Es, la riserva di energia psichica che racchiude le pulsioni sessuali, aggressive ed autodistruttive di ciascun individuo. Anche Jane potrebbe non essere la donna perduta e ritrovata ma il super-io di Leonard conteso tra ego ed Es, la depressione quindi sarebbe sia l’ispiratrice che l’autrice di questo testo di struggimento. Verso il finale arriva “Il Traditore” (“The Traitor”) nella quale l’aria dolce e l’atmosfera pastoral-bucolica indurrebbero alla serenità ma si tratta del racconto di una colpa che non contempla perdono. Il sesso dell’uomo, mascherato da cigno, galleggia sul fiume in preda alla vergogna, quello della donna è una rosa che pur spalancandosi è preda della malattia, mentre i giudici che prima osservavano dall’altra riva, ora hanno preso ad impartire i loro ordini. 
Cohen sa di appartenere all’esercito nemico dell’amore per essere stato posseduto dalla lussuria, sa di aver sempre baciato come fosse un assetato e per punizione il calabrone della propria falsità lo colpisce con il suo veleno. L’auto-indulgenza non gli risparmia neppure il disamore della donna e questo per lui e il proprio orgoglio, rappresenta la punizione più feroce. “Alleluia” (“Hallelujah”) inizia descrivendo David che suona per far piacere a Dio e per quietare l’anima di Saul, figura tragica e suo predecessore sul trono d’Israele. Leonard indica la progressione degli accordi nelle parole stesse del testo. David è l’artista prediletto dal Signore e grazie alle sue qualità è capace di suscitare amore nei cuori altrui e di ascendere a vette maestose. Ma è un Re profondamente perplesso perché nonostante sia il prescelto dal Divino non è riuscito a fare a meno di seguire la propria umana bramosìa e resistere alla sconvolgente bellezza nuda di Betsabea, al bagno sotto i raggi lunari. Oltre a sedurla ha inoltre poi fatto molto di peggio. Seppur nella devozione questa canzone di Cohen è la preghiera umana di chi conosce la bellezza quanto l’inganno, il fondale melmoso che sta dietro l’apparenza: l’alleluia è quello sacro ma ugualmente quello spezzato. Cohen intravede un salmo in questa imperfezione, una sacralità nel profano, una salvezza nell’ambiguità. Il brano diventa la richiesta di riconciliazione al Signore di Leonard che si identifica completamente in David, nel bene e nel male. Il suo Alleluia è assai differente dagli altri Salmi in cui si esaltavano le opere e la generosità di Dio. A tutt’oggi si contano più di seicentocinquanta registrazioni ufficiali di questa canzone di Leonard Cohen, anche se comunemente e superficialmente viene intesa o utilizzata come preghiera. Al contrario non contiene alcuna lode a Dio e ripetutamente compare tra le righe la fondamentale congiunzione “ma” tra versi dai 
grandi contrasti: tra devozione e dubbio, tra desiderio e perdita, tra sacro e profano, tra sublime e sovvertito. Le quattro strofe scelte dalle tantissime composte per questo testo ed incise in Various Positions, verranno fischiate in Israele, con gran dispiacere di Leonard che da allora le sostituirà parzialmente, come appare nelle sue interpretazioni dal 1988 in poi. L’ultima canzone è L'Uomo Dell'Anno Scorso. In “Last Year’s Man”, la Potenza Suprema appare perplessa davanti allo sfacelo della sua creatura che gli si dimostra composta da elementi che paiono inconciliabili. Quel che vede riflesso nell’opera dell’uomo è tale da lasciarlo immobile per un’ora di tempo. Come nel sesto capitolo della Genesi, la catena di sangue, odio e violenza sembrano aver infranto il sogno della sua creazione e di generazione in generazione, la contrapposizione sanguinosa tra fratelli si ripete. Non si tratta di quel che fa ma di quel che sembra voler fare in risposta alla solitudine e al deserto dell’uomo. La plumbea visione richiama altresì all’orrore di un lager nazista dove i corpi venivano usati come materia e dove il senso biblico era totalmente devastato. La mancanza di certezze viene dimostrata da Cohen alterando la comune idea occidentale di personaggi e luoghi religiosi e prostituendo il corpo verginale della santa-eroina Giovanna D’Arco. Se peccato e colpa vengano redenti su quel tavolo apocalittico da quel dio perplesso, la canzone non lo rivela, nessun verdetto è lasciato intuire e si tratta di una di quelle canzoni che Leonard non ha mai presentato in pubblico. 
E quando tutto ciò che ritieni sacro 
crolla irrimediabilmente 
ricordati che la morte non è la fine 
(Bob Dylan) 
Leonard Cohen, con la consueta ironia, affermava che le sue canzoni partivano lente ma duravano trent'anni come le Volvo ma sbagliava perché dalle prime, di anni oramai ne sono passati più di cinquanta e siamo ancora qui ad ascoltarle, a parlarne e a nutrircene. Rimangono nei nostri labirinti d’esistenza ma sono un dono prezioso che affascinerà senza dubbio molta gente sparsa ovunque nelle future generazioni. Sul finire degli anni sessanta del secolo scorso, quando iniziò a farle conoscere, le comunità chiedevano molto agli artisti: di rappresentare simboli di lotta, di essere portavoce di istanze sociali, di indicare vie di cambiamento e, soprattutto, di dimostrare coerenze assolute. A differenza di oggi, erano tempi, quelli, in cui nessuno tirava indietro il piede. L’America era alla ricerca di nuovi valori e percorsa da atomici terrori ma il distacco estetico e culturale di Leonard non lo spingeva a descrivere gli avvenimenti catastrofici che gli vorticavano intorno e i loro effetti sulla realtà. La cronaca che trattava era unicamente quella del sincero umano sentire interiore, senza concessioni a scorciatoie o facilitazioni. Nelle sue canzoni i suicidi e gli assassini stanno nelle stesse righe a fianco di martiri e carnefici, santi e depravati, i corpi delle donne vengono letti con il rigore dello studioso talmudico, in essi Leonard cerca la cerimonia senza la santimonia, la disciplina senza il dogma. La sua è una poetica sapiente dove elementi minuscoli possono contenere particelle spesso colossali e passaggi delicati, nascondere minacce oscure. E’ fatta di parole che nuotano nell’amore ma finiscono per annegare nella solitudine, ogni verso contiene sufficiente splendore per accettare e sufficiente disperazione per rifiutare. I testi di Leonard sono favole illusorie ma tessute sul severo telaio dei codici delle leggi religiose. 

Nelle sue parole l'anima naufraga va alla deriva, la collina e l'alleluia si spezzano, i bambini recano addosso brandelli di luce, il corpo dell’amata diventa un altare, la poesia viene intinta nella fede, la fede lo è nella parola. Nelle sue frasi si mescolano un tempo storico reale ed un tempo dilatato dalla percezione nel ricordo, un tempo lontano ed un tempo di sogno lieve, un tempo fisico di gioventù e bellezza ed un tempo bisbiglio dell'anima, tenuto in ostaggio dal tramonto dell'età. Sono tutte luci buone che però invitano l’uomo ad un banchetto apparecchiato dalle tenebre. Le sue canzoni affermano continuamente la bellezza nascere dalla sconfitta e sembrano sempre provenire da uno a cui sono stati svelati misteri su cui noi possiamo al massimo fare qualche vaga supposizione. Oltrepassano la malinconia per farsi sangue, la tenerezza per farsi cuore, nel breve volgere di pochi arpeggi e di qualche riga, universali ed enigmatiche come fino a prima di lui solo la poesia pura aveva saputo essere. Sono come camere che appaiono modeste ma nascondono saloni sontuosi, affrescati magnificamente. Inaspettatamente lo stile confessionale e la mancanza di freni inibitori nello scrivere di intimità, dolori, debolezze o paure di Cohen sono diventati per gli altri qualche cosa di attraente. Nella sua scrittura, la carne e la pelle vengono indagate nella loro interezza, senza tralasciare il brutto, il bestiale, il patologico e tutto ciò che è in antagonismo quotidiano con lo spirito, perché le qualità intellettualmente più sublimi siedono a fianco degli istinti primordiali. Leonard ha avuto sempre questa capacità di mostrarsi nudo, di uscirne disarmato, spesso ridotto a pezzi e mai da eroe. La poesia è stata il suo luogo del disincanto, dove i fiori marcivano, le navi si inabissavano, il corpo si trasformava in museo. Ha indagato l’animo umano senza alcuna indulgenza, denudando i miti sacri mentre le parabole degli apostoli sono state ricondotte a fraseggio colloquiale. Ma non è stato sempre accolto con solennità com’è accaduto nell’ultima parte della sua vita artistica, negli Stati Uniti le critiche sono state spesso molto severe. Nel passato quasi ogni disco alla comparsa sul mercato è stato regolarmente definito inferiore a quello precedente. Il primo fu criticato già per la copertina, per quella immagine in giacca scura e camicia bianca, virata a seppia, completamente fuori contesto per il periodo storico. Era una comunissima fototessera scattata da una macchinetta automatica di una stazione metropolitana newyorchese ma qualcuno ebbe a scrivere che perfino la cornice nera era troppo funerea. Una volta uno scrittore suggerì grottescamente alla CBS di allegare agli LP di Cohen qualche lametta da barba per vendere il prodotto come “kit completo per suicidio fai da te”. Ma Leonard sosteneva che tutto ciò non riguardava lui, le canzoni una volta create avrebbero saputo badare a se stesse. E aveva, come sempre, ragione lui. Era stato troppo vecchio per gli hippies, troppo borghese per il movimento folk, troppo introverso per l’America, troppo unico per il successo commerciale e mai perfetto per incarnare lo spirito di un’epoca in particolare. Eppure l’insieme dei suoi dischi è un mosaico che narra anatomie e antinomie del suo essere umano, nella cui figura fluttuano lacerazioni e simbolismi tra senso di colpa remoto e eros intenso. Dove credere ed amare sono finite per diventare la medesima cosa. Le sue preziose canzoni hanno ordito e tessuto una summa che è più di una mitologia privata nel corpo sensuoso, drammatico e vivo della scrittura contemporanea. Un grazie eterno, Leonard. 


Flavio Poltronieri 

Le foto di Rocco Rosignoli sono tratte dal profilo FB. La 3 e la 5 sono di Sara Fantozzi

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