Vito “Forthyto” Quaranta – Forthyto rilegge Maul di Enzo Del Re (SquiLibri, 2022)

Come strumento per accompagnarsi usava spesso una sedia dipinta di rosso, a volte sostituita da scatole di cartone o valige o dal semplice schioccare della sua lingua. Il suo compenso era quello di un operaio e non scendeva a compromessi con nessuno sia esso discografico o direttore artistico. Figlio della cultura orale e granitico nel suo essere anarchico, Enzo Del Re è stato qualcosa di più di un cantastorie, nelle sue canzoni c’è tutto un mondo fatto di ritmo e parola ora sofferte, ora urlate, ora ancora cantante con introspezione. Il suo canto affondava le radici nella tradizione, nei canti di lotta e guardava alla società che tra gli anni Sessanta e Settanta stava mutando radicalmente. Insomma, era un personaggio del tutto fuori dagli schemi e da ogni logica, una “capatosta” da competizione che vendeva le sue canzoni incise in musicassette in un banchetto nei mercati rionali o alla fine dei suoi concerti. Tra le sue ultime esibizioni lo ricordiamo al fianco di Vinicio Capossela sul palco del Concerto del Primo Maggio a Roma nel 2010 e al Teatro Ariston di San Remo per il Premio Tenco. L’anno dopo venne a mancare nella sua Mola di bari e di lui resta un segno indelebile tracciato nella storia della canzone e della controcultura italiana. In questi anni non sono mancate le iniziative per ricordarlo, tra cui non si può non ricordare l’annuale appuntamento con “MAUL. Omaggio a Enzo Del Re”, ma mancava un segno discografico importante. Un vuoto colmato dal pregevole “Forthyto rilegge Maul di Enzo Del Re”, firmato da Vito “Forthyto” Quaranta che ha riletto integralmente l’opera prima del corpofonista molese. Nell’intervista che segue il chitarrista pugliese ci ha raccontato il suo percorso artistico e formativo per soffermarsi sulla genesi e l’approfondimento di questo nuovo lavoro.

Partiamo da lontano e precisamente dal nome Forthyto. Ci puoi raccontare come mai lo hai scelto?
Forthyto il mio pseudonimo è una sorta di anagramma nato casualmente. Agli albori delle configurazioni mail un mio caro amico mi chiese cosa inserire come password; gli indicai di scrivere Quaranta, il mio cognome in inglese, che sarebbe stato “Forty”. Fortunatamente la distrazione gli fece aggiungere una “acca” in più generando un “Forthy” che non ha nessun significato ma che lessi subito in una combinazione tutta sua. Forth significa anche “Avanti” e quella “Y” la vedevo come una sorta di ideogramma formata da “V” e “I” e quindi le prime due lettere del mio nome; quindi, a quel punto mi sembrò logico aggiungere il resto. Ed ecco Forthyto, ossia la voglia di guardare oltre e di andare avanti al di la degli steccati musicali e culturali.

Hai conseguito il diploma in musica jazz al Conservatorio Nino Rota di Monopoli. Quanto è stata determinante la tua formazione accademica nel tuo percorso artistico?
Il mio percorso accademico lo affrontai che ero già un uomo di ventisette anni ed avevo già una formazione da autodidatta abbastanza solida fatta sui dischi e sui libri ascoltando e divorando qualsiasi cosa. Ma l’opportunità del conservatorio devo dire che fu straordinaria. Ebbi la fortuna di condividere il percorso con alcuni dei migliori musicisti tutt’ora in circolazione che uniti alla presenza dello scomparso Gianni Lenoci, praticamente un nostro coetaneo, il percorso divenne una sorta di laboratorio perenne dove era concesso praticamente tutto. Ognuno portava la sua conoscenza e la propria personalità, quindi gli stimoli e la sana competizione mi fece crescere molto allargando ancor più la percezione dell’oggetto musicale e dandomi consapevolezza soprattutto nella composizione, conoscendo e usando tecniche e forme fino ad allora a me sconosciute.

Quali sono i tuoi riferimenti dal punto di vista della tecnica chitarristica?
Sono l’ultimo di sei figli e casa girava tantissima musica e tanti libri, ed anche in questo caso i miei fratelli attraverso le loro conoscenze portavano musica diversissima, dalla west coast all’hard rock, dalla musica d’autore al jazz, dal progressive alla classica, senza dimenticare le musiche dal mondo. Creando in me una sorta di melting-pot musicale e chitarristico. Ma dovendo fare delle citazioni mi sono sempre piaciuti quel lavori dove i chitarristi avevano un ruolo compositivo ed avessero la capacità di essere poliedrici nell’uso dello strumento, per questo citerei anche album che mi hanno veramente forgiato. Da Woodstock a “Four Way Street” di CSN&Y, da “Shadows & Light” di Joni Mitchell a “The lamb lies down on Broadway” dei Genesis passando attraverso George Benson e John McLaughlin, Michael Hedges e Paco de Lucia solo per citarne alcuni.

Le tue coordinate musicali vanno rintracciate nel jazz che ha caratterizzato anche la tua produzione discografica precedente. Come sei entrato in contatto con il repertorio di Enzo Del Re?
La storia di Enzo del Re è la storia della musicale della nostra città Mola di Bari, prima di lui nessun Molese aveva mai osato tanto come artista quindi i suoi lavori e la sua fama divennero popolari. È un artista che appartiene a tutti ed è l’emblema di una generazione che della canzone ne fece un atto politico. Ancora una volta uno dei miei fratelli portò a casa il disco Maul acquistato da lui ad una festa dell’Unità e fui subito rapito da questa voce aspra e tribale unita alla straordinarietà di accompagnarsi solo ed esclusivamente percuotendo la sedia, questo ancor prima che imparassi la chitarra. 
 
Cosa ti ha colpito delle sue canzoni?
La sincerità, la schiettezza, l’ironia e soprattutto la capacità visionaria dei suoi testi. Testi mai banali ma ricchi di allusioni, metafore, malinconici ma allo stesso tempo carichi di speranza e la capacità di poterli raccontare attraverso un mezzo, la sedia, che ha tutta una sua visione, da quella reale che lo identifica - la storia di Sacco e Vanzetti - a quella popolare. Enzo era figlio di un esportatore ortofrutticolo, e dalle nostre
parti non è difficile trovare agli angoli delle strade sedie colme di frutta e verdura che i contadini vendono nella loro abitazione. È stato un modo anche, di rimane legato sempre alla sua terra.

Quanto sono attuali le canzoni di Enzo Del Re?
Completamente. Ogni brano parla e sviscera argomenti e problematiche di una contemporaneità imbarazzante. Complessità che tuttora rimangono invariate a livello sociale e che anzi sembrano essere ancor più accentuate da una tessitura capitalista che giorno dopo giorno sempre più tende a deformare e plasmare l’individuo e soggiogarlo alle proprie necessità; il mercato, regno ormai incontrollato che nel tempo sta fagocitando sé stesso.

Com'è nata l'idea di leggere "Maul", lo storico album che Enzo Del Re diede alle stampe nel 1973?
Tutto nasce nella prima metà degli anni Novanta quanto appunto ormai consapevole dell’importanza di Enzo lo vado a trovare al mercato della frutta dove si metteva a vendere le sue cassette audio. L’incontro è stato come me lo sarei aspettato, timoroso all’inizio, conoscendo il suo non facile carattere ed eccezionale e rilassato dopo, quando come un segugio che annusa la sua preda comprese tutti i miei migliori intenti e mi mise a mio agio, sorprendendomi con parole di elogio che mi porto addosso come medaglie. Ma dell’idea di partecipare al mio progetto, ossia rifare le sue canzoni riviste e riarrangiate proprio non gli interessava ma mi disse: “Se lo vuoi fare fallo, io ti vengo a sentire”. Onestamente in quel momento non la presi benissimo e così lasciai stare, ma quell’idea non mi ha mai abbandonato e nel tempo dopo la sua morte ero determinato nel chiudere questo progetto e la fortuna ha voluto che incontrassi Luciano Perrone che mi ha dato una mano determinante per raggiungere questo obiettivo.
 
Dal punto di vista degli arrangiamenti in che direzione è andato il tuo lavoro di ricerca?
Dover concentrare cinquant’anni anni di musica senza scalfire o banalizzare il messaggio di Enzo è stata una bella sfida, ma devo dire che avevo le idee abbastanza chiare su come affrontare il tutto, sia dal punto di vista della strumentazione - Enzo prima di passare all’uso della sedia aveva preso lezioni di pianoforte, 
suonava  la chitarra e la fisarmonica -  che dal punto di vista dell’ ambiente musicale da creare. Sentivo il tutto intellegibile attraverso lo studio dei testi, sembrava che già mi suggerissero la direzione da intraprendere, mi sono dovuto solo abbandonare ad uno sforzo di immaginazione che potesse raccontare queste storie con delle vesti che dal mio punto di vista fossero più calzanti possibili. 

Quali difficoltà hai incontrato nel lavorare su “Maul”?
Le uniche difficoltà sono state nel cercare un partner che potesse e che volesse sostenere questo mastodontico lavoro che, dopo l’inspiegabile diniego di un primo, abbiamo trovato nella Regione Puglia attraverso l’entusiasmo e l’interesse della dott.ssa Loredana Capone che ha preso subito sotto la sua ala il lavoro riconoscendo ad Enzo, la statura di Maestro e a noi il merito di averlo valorizzato. Senza dimenticare, il grande apporto dato da Mimmo Ferraro della casa editrice Squilibri determinante in tutta la fase creativa ed operativa del lavoro.  

Quanto è stato determinante il contributo degli eccellenti strumentisti che ti accompagnano in questa nuova avventura?
Una prerogativa fondamentale è che i partner che mi affiancano nei miei lavori non devono essere solo squisitamente capaci ma ad essi mi devo sentire legato da un rapporto umano che vada oltre la condivisione della musica. Anche in questo caso sono tutti amici con i quali condivido pezzi di vita, e dei quali conosco, o comunque mi sforzo di comprendere, le loro caratteristiche musicali ed empatiche. E così rifacendomi alla strumentazione prima citata, ossia gli strumenti tradizionali che Enzo suonava, la scelta di avere Marinella Dipalma alla voce, Vince Abbracciante alla fisarmonica, Giorgio Vendola al contrabbasso e Francesco De Palma al set percussivo è stata una condizione estremamente naturale. 
Perché, partendo da questi presupposti il lavoro diventa molto più veloce ed istintivo e le partiture spesso, al di là delle note scritte, prendono vita spesso solo raccontando la storia del brano e del significato che ne consegue.  

Quali caratteristiche della scrittura di Del Re hai cercato di mettere in luce nelle tue riletture?
L’universalità del suo messaggio al di là della lingua usata; la capacità, la forza e la determinazione di aver guardato oltre, una condizione che solo i giganti si possono permettere. Il nostro compito è quello di salire sulle loro spalle non per sentirci a nostra volta tali, ma per guardare più lontano. Non a caso la musica che ho immaginato non ha caratteristiche specifiche, ha una sorta di assenza di peso, velata ma allo stesso tempo rende chiare tutte le forme espresse.  

C'è un brano in particolare di "Maul" a cui sei legato?
Domanda complicata! Tutti mi appartengono profondamente, ma se proprio dovessi citarne uno non faticherei ad ammettere che “Ammenazz’ u murte!” è la composizione che continua a darmi letteralmente i brividi. A partire dalla storia che Enzo ha messo su - il racconto di un contadino attraverso l’analessi -  ho costruito una sorta di ballata, anzi dal mio punto di vista penso alla circolarità di un Bolero. Un incessante, costante ed ossessionante andamento che, come il tempo, scandisce dal primo all’ultimo respiro, la vita. Una danza che in maniera sinuosa si muove fra gli accadimenti ed i mutamenti di un esistenza. La storia fa emergere uno spaccato di vita dove, la festa di paese, riassaggiare il sapore della carne un'altra volta, il sarto, il vestito buono, i fuochi d'artificio, i forestieri, sottolineano in maniera inequivocabile la ripetitività degli appuntamenti temporali, unici momenti che permettono di assaporare la
vita fuori da una condizione di anonimato e sacrificio fino allo giungere della pace estrema nel quale ancora una volta l’uomo è visto come un “numero” al quale dare fretta per far spazio ad un altro corteo funebre che deve seguire. In pochi minuti si riassume tutto il paradosso della vita.
 
Qual è stata la risposta del pubblico durante i concerti di presentazione?
Emozionante. Ero molto timoroso di come il pubblico avesse potuto reagire a questo tipo di operazione, ma l’entusiasmo dimostrato a tutti gli eventi mi hanno e ci hanno veramente appagato di tutti gli sforzi fatti. Mi auguro adesso di riuscire a portare questo progetto in giro per l’Italia soprattutto in quei luoghi dove la memoria di Enzo è ancora viva.

Il tuo lavoro sul repertorio di Del Re proseguirà in futuro?
Non sei il primo che mi pone questa domanda, in molti, giornalisti e appassionati sono entusiasti del lavoro che ne è venuto fuori e mi spingono a fare lo stesso tipo di operazione sul “Il Banditore” il suo secondo lavoro affinché anche lì, gli straordinari brani, questa volta in italiano, possano riprendere nuova vita. Non so dirti in questo momento, non vorrei forzare la cosa, se ci sarà lo stesso tipo di spontaneità con il quale è nato questo progetto ne potremo riparlare, intanto cerchiamo di fare in modo che questo lavoro dia il giusto lustro ad un Artista da molti dimenticato ma che per molti ha significato tanto e per altri, completamente da scoprire e riscoprire.   



Vito “Forthyto” Quaranta – Forthyto rilegge Maul di Enzo Del Re (SquiLibri, 2022)
Pubblicato tra il 1972 e il 1973 con il titolo “Voce e ritmi”, ma più noto come “Maul” per il brano omonimo dedicato alla sua Mola di Bari, l’esordio discografico di Enzo Del Re è un disco di prepotente attualità, una raccolta di canzoni “per sedia e sola voce” che trasudano di sofferenza e raccontano di quegli ultimi, i contadini, i manovali, gli operai, i naviganti con cui è cresciuto e vissuto tra i vicoli della sua città e le barche ormeggiate nel porto e, nel contempo, suonano come una condanna verso i pregiudizi e la superstizione, l’ingiustizia sociale e le prepotenze del potere. A dieci anni dalla sua scomparsa, il chitarrista molese Vito “Forthyto” Quaranta ha finalizzato il progetto a lungo meditato di rileggere proprio questo album epocale in una veste nuova e con arrangiamenti dal tratto jazz con la complicità di alcuni tra i migliori strumentisti pugliesi: Giorgio Vendola (contrabbasso), Vince Abbracciante (fisarmonica) e Francesco De Palma (percussioni) a cui si è aggiunta la voce della talentuosa Marinella Dipalma. Realizzato grazie alla caparbietà di Luciano Perrone, presidente dell’associazione ETRA E.T.S. e il sostegno del Consiglio Regionale della Puglia, il disco vede i dodici brani rinascere in una nuova veste che esalta l’apparato ritmico e vocale e risplendono grazie ad una ricerca armonica volta ad esaltare l’attualità, i temi e la prepotente intensità dei testi. Durante l’ascolto si attraversano atmosfere e sonorità differenti, racconti di storie di vita quotidiana popolate da naviganti, santi, padroni, donne, anziani, storie di manifesti e di sfruttamento, che vivono una nuova vita grazie ad un sorprendente lavoro di ricerca musicale. Ad aprire il disco è il racconto delle tracce indelebili di miseria e disperazione lasciati dal fascismo ne “I manefiste” a cui segue “A vegghiéine!” in cui la descrizione di un insegnante diventa metafora delle diseguaglianze sociali. Le intersezioni tra jazz, rock e world della preghiera laica “Segnore ne uarde!” e il ritratto di un operaio sfruttato de “I prête” ci introducono al vertice del disco, la trascinante versione di “Scitterà” in cui Del Re metteva alla berlina la superstizione e il pregiudizio e che Vito Quaranta rilegge a due voce con Marinella Dipalma. Se struggente ed intensa è la malinconica “U cande du navegande”, la successiva “L’Organéƶƶaƶƶiauna nove” è un canto di emigrazione nella quale non manca l’invettiva anticapitalista e la speranza di una nuova organizzazione sociale nuova che possa trasformare questo inferno in paradiso. La dedica appassionata a Mola di Bari di “Maule” ci introduce alla bella sequenza con il canto di un carpentiere sfruttato dal suo datore di lavoro di “Marà Luéise” e l’ironica “Te iadore e te rengraƶƶie” che racchiude il verso “Te iadore e te rengraƶƶie/ca sénza mangiè(ie) me sède sazzie” che rimanda a “Qui si campa d’aria” di Otello Profazio e “Padrone mio” di Matteo Salvatore. Il duro lavoro nei campi cantato ne “Ammenazz’u murte!” e il canto d’amore di un contadino “Matalêne” chiudono un disco di assoluto spessore, un progetto culturale di alto profilo, completato dal corposo libretto con i contributi di Patrizio Fariselli, Luciano Perrone e Eugenio Bennato e le traduzioni in italiano di Antonio Palumbo, il tutto intercalato dai disegni di Gianni Castellana.


Salvatore Esposito

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