Shadi Fathi & Bijan Chemirani – Âwât (Buda, 2022)

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“Âwât”, in curdo, significa “gran desiderio”, una dimensione con cui leggere i versi della poesia persiana da cui i sedici brani di questo album traggono linfa. Shadi Fathi e Bijan Chemirani sono già stati introdotti nel 2018 ai lettori di Blogfoolk in occasione di “Delâshena” , a due anni dal loro primo incontro, foriero di concerti un duo attraverso la Francia e l’Europa, a Marsiglia, la città in cui vive Chemirani. Il filo rosso che unisce questi due musicisti passa per Teheran dove Shadi Fathi, curda, è nata nel 1977 (due anni prima di Bijan) ed ha studiato setâr e shourangiz con Dariush Tala’i, prima di trasferirsi in Francia nel 2002. Sempre nella capitale iraniana ha appreso a suonare lo zarb con Hossein Therani il padre di Bijan, Djamchid Chemirani che si è trasferito in Francia nel 1961, divenendo un riferimento per la musica persiana nel dialogo con grandi maestri, fra cui lo stesso Dariush Tala’i.  Oltre all’amore per la musica, Djamchid Chemirani ha condiviso con la figlia Maryam e con i figli Keyvan e Bijan la passione per il ritmo dei versi della poesia, un ambito cui Keyvan ha dedicato due lavori intitolati “Le Rythme de La Parole”.  Per il loro nuovo album, Shadi Fathi e Bijan Chemirani hanno tratto ispirazione dai classici come Omar Khayyâm e Rumi, così come ai versi contemporanei di Sohrab Sepehri e di Hushang Ebtehaj (H. E. Sayeh), morto il 10 agosto a Colonia, dove si era trasferito nel 1987. 
Proprio recitando una sua poesia, “Khâb o Khiyâl”, Shadi Fathi apre “Âwât”, e ne riprende i versi anche in “Khodâyâ”, uno degli ultimi brani, composto, come il primo, da Bijan Chemirani che coinvolge nell’esecuzione anche Redi Hasa al violoncello e Sylvain Barou alla zurna. Barou è stato coinvolto con l’ampio ventaglio di fiati di cui dispone anche in altri brani, intersecando in alcuni di loro, come “Alideh” il violino kamantcheh di Shervin Mohajer, all’interno di una formazione che si muove, sempre magistralmente, a fisarmonica fra il duo e il quintetto. Pur ispirato dalla poesia, l’album rimane soprattutto strumentale, con nove dei sedici brani frutto di composizioni Bijan Chemirani, molto interessanti anche dal punto di vista metrico, per esempio nel 10/8 di “Âsâyesh” e nella breve e incalzante “Tchâbok” in 5/8 con le percussioni a offrire un’articolata dinamica contrappuntisca agli strumenti solisti e in particolare al flauto di Barou che si incarica del crescendo finale. Un brano, “Tchenine Bâdâ”, è composto a quattro mani con Shadi Fathi e dedicata ai rispettivi padri: 
in questo caso Fathi (come fa anche in “Khayyâm”) si incarica di rendere esplicita la carica metrica dei versi di Rumi, coinvolgendo nelle parti vocali anche Bijan Chemirani, per poi prendersi uno spazio di dialogo fra il suo setâr e il duduk di Barou nella sognante “Goftogou”. Shadi Fathi e Bijan Chemirani sanno anche dar vita a un impeccabile duo di percussioni, con daf e zarb, ed è in questa veste che interagiscono con il flauto bansuri di Barou in “Afsâneh” in un brano che ben amalgama i tre strumenti veicolando una sorta di carica ipnotica. Tre tracce permettono anche di ascoltare setâr e percussioni in improvvisazioni che li vedono protagonisti. Per Shadi Fathi, queste sono due opportunità per improvvisare senza accompagnamento ispirandosi prima a Ostad Ebadi – esplorando il modo Tchahâr-gâh – e poi a Ostad Sabâ, nel modo Navâ. Sullo sfondo degli accenti dei daf, Bijan Chemirani fa cantare il suo zarb in “A Tash e Del”. Un album che conferma la profonda affinità e intesa non solo tra i Fathi e Chemirani, ma anche con i tre compagni di viaggio. 


Alessio Surian

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