Artisti Vari – Gnawa Rumi. Musica diasporica marocchina in Italia (Nota, 2022)

All’inizio degli anni Novanta, il libro di Pierre Guicheney “La Storia di Bilal” (Sensibili alle Foglie) e una visita fra Cenci e Roma di musicisti da Casablanca e Marrakech cominciò a far riverberare in Italia qrāqeb, guembri e voci gnawa (allora si scriveva “gnaua”), musiche e rituali marocchini imparentati nel Maghreb con le pratiche diwan a stembali. Trent’anni dopo, “Gnawa Rumi” ha propiziato l’incontro di musicisti gnawa attivi da decenni fra Bologna, Firenze e Roma con alcuni musicisti ed etnomusicologi. 
In Europa, almeno tre sentieri discografici hanno veicolato la musica gnawa: le registrazioni a carattere etnomusicologico effettuate in Marocco; l’incontro delle confraternite locali con musicisti jazz come Archie Shepp, Mal Waldron, Randy Westonn e Pharoah Sanders; le musiche delle diaspore maghrebine che in quest’ambito hanno visto protagonisti soprattutto connessioni algerine fra Grenoble (Gnawa Diffusion) e il quartiere Barbès di Parigi (Orchestre National De Barbès fondata da Youcef Boukella). Altri capisaldi europei connettono Raval (Barcellona), Ginevra e Bruxelles. Proprio alla capitale belga, nel 2015, Hélène Sechehaye e Stéphanie Weisser hanno dedicato un’analisi approfondita, che riprende i lavori di Jean Pouchelon e Bertrand Hell sulla democratizzazione della società gnawa, e racconta lo sviluppo di pratiche educative inedite, così come l'integrazione nei gruppi di musicisti con provenienze eterogenee. 
Sechehaye ha curato anche “Jola. Hidden Gnawa Music in Brussels”, un album pubblicato da Muziekpublique (2020), dedicato alla scena gnawa della capitale belga. 
Proprio una visita di Sechehaye a Roma ha fatto da propulsore a “Gnawa Rumi”, al contempo viaggio lungo i decenni della diaspora marocchina e affascinante trama di relazioni fra protagonisti e frequentatori delle musiche gnawa attraverso la Penisola. E’ il quinto capitolo della collana Crossroads, rivolta a documentare le musiche migranti in Italia, che viene presentato il 20 e 21 agosto al Festival delle Culture Popolari a Collelongo (L’Aquila). Abbiamo chiesto di introdurci alla genesi e ai tanti risvolti di questo lavoro a Reda Zine e Stefano Portelli.

Com’è nato e si è sviluppato questo progetto discografico? 
Stefano Portelli - A giugno 2018 durante il festival Gnawa di Essaouira, in Marocco, ho conosciuto Hélène Sechehaye, musicologa, che aveva appena pubblicato un disco di musica Gnawa marocchina in Belgio. Io in quel momento stavo lavorando sulla diaspora della comunità Gnawa in Italia; ci è risultato naturale provare a immaginare un disco di Gnawa italiana. Nel 2021 grazie a una borsa dell’Accademia Belga abbiamo avuto la possibilità di invitare in Italia Hélène, che è stata ospitata dal Circolo Gianni Bosio, e in estate abbiamo riunito a Roma i cinque musicisti Gnawa che avevamo individuato: Reda e Abdallah Ajerrar di Bologna, Amine Ezzalzouli di Firenze, Nour Eddine Fatty e Abderrazzak Telmi di 
Roma. Abbiamo registrato per tre giorni nello studio romano The White Lodge, gestito da mio fratello Matteo Portelli, invitando alle sessioni anche due musicisti italiani che già avevano lavorato con la musica Gnawa: Roberto Bellatalla e Mario Camporeale, e un etnomusicologo esperto di Gnawa, Antonio Baldassarre, che ci ha mandato un suo brano registrato. 

Le registrazioni sono avvenute con tempi e modalità diverse: volete presentarle?
Stefano Portelli - Oltre ai cinque brani registrati in studio, abbiamo inserito nel disco altri sette pezzi registrati autonomamente: due brani di Nour Eddine, uno dei quali è una riedizione di un suo brano degli anni Novanta di fusione tra musica calabrese e marocchina; due di Reda, uno dei quali l’ho registrato io durante un concerto del suo gruppo Fawda a Bologna; uno del gruppo di Abdallah, i Jedbalak, anche lì con una transizione interessante con la musica calabrese; e uno che Matteo e io avevamo già registrato con Abderrazzak a Roma, con un’atmosfera più psichedelica. Abbiamo rilavorato su alcuni di questi brani per rendere meno brusca la giustapposizione; l’idea era che il disco riflettesse la varietà di forme con cui i musicisti gnawa esprimono il loro repertorio in Italia.
Reda Zine - Le tre registrazioni che mi hanno riguardato hanno storie diverse. La prima nasce da un lavoro 
di didattica musicale. Lavorando con progetti musicali nelle scuole, avevo già realizzato una registrazione con bambini e bambine della scuola elementare di San Lazzaro di Savena, in Emilia Romagna, durante i difficili mesi di pandemia Covid. Si tratta del brano tradizionale Gnawa “Soudani Manayo” cantato da bimbi e bimbe. Ho così pensato di proporlo e inserirlo nel progetto perché è una prova di come questa musica attraversi, in modi sempre nuovi, spazi, geografie e generazioni diverse. Poi, nell’album è stato inserito anche un altro mio brano, “I Got the blues”, presente nel primo Lp dei Fawda trio e registrato dal vivo da Stefano durante un concerto bolognese con l’attuale formazione della band Fawda; la registrazione è interessante perché include anche una presentazione e introduzione al brano fatta durante il live. Infine, un ulteriore brano, “Shalaba”, è stato registrato a Roma, con Amine Ezzalzouli e Abdullah Ajerrar. 

È possibile disegnare una mappa della vitalità gnawa oggi in Italia? Quale cronologia ha alle spalle? 
Stefano Portelli - A differenza di altri paesi europei, dove le comunità marocchine sono centralizzate, e tanti maestri Gnawa vivono nella stessa città o addirittura nello stesso quartiere, in Italia gli Gnawa sono sparsi per tutta la penisola, e sono costretti a suonare con musicisti di altri stili e di altre tradizioni. Da quando abbiamo completato il disco, comunque, stanno iniziando ad uscire altri musicisti Gnawa in altre parti d’Italia, da Torino a Napoli. È difficile fare una mappa perché la Gnawa in Italia è ancora un fenomeno privato, non la si trova nelle piazze, e non ci sono ancora gruppi conosciuti al grande pubblico.
Reda Zine - Bologna comunque ha un posto centrale, non solo perché è una città con una grande comunità marocchina, ma anche perché la Scuola Popolare di Musica Ivan Illich è stata la prima realtà a organizzare seminari e rituali tradizionali, già negli anni 90’. Io stesso, a distanza di oltre vent’anni anni, continuo questa tradizione didattica a scuola con un laboratorio tematico sulla Gnawa. 

Vorreste introdurre il repertorio dell’album e Oulad Bambara?
Reda Zine - Una caratteristica distintiva di questo disco è che pur essendo quello Gnawa un repertorio religioso, queste canzoni sono profane, quasi scherzose. Tutta la prima parte del rituale della lila prevede una serie di brani leggeri, che non hanno molto a che vedere con la mistica della trance su cui si
concentrano molti antropologi e musicologi; sono brani per mostrare il virtuosismo, per presentare il gruppo di musicisti, non per evocare gli spiriti. Non abbiamo chiesto ai musicisti un repertorio specifico, eppure, spontaneamente, sono usciti tutti brani della parte senza trance. Credo sia significativo. L’unico brano che ho esplicitamente chiesto ai musicisti è una canzone che amo molto, che si chiama “Zid el mal”, che emerge in una delle improvvisazioni che chiudono il disco. È una canzone che evoca insieme la schiavitù, il rapporto con il denaro, la conoscenza segreta degli Gnawa. Ci sarebbe da lavorare per anni solo su questa canzone. 

La strumentazione che si ascolta nell’album non si limita a guembri e qraqeb: come sono entrati in scena altri strumenti e quali? 
Reda Zine - Personalmente, suonando già il guembri in due brani dell’album, ho preferito portare con me a Roma, per la sessione di registrazione con Abdallah e Amine, il mio primo strumento: la chitarra elettrica, con uso dell’archetto e un minimo di effettistica. L’idea era quella di dare un tocco rock psichedelico e cambiare colore, restando però nei timbri che ci piacciono.
Stefano Portelli - La Gnawa si è sempre combinata bene con altri tipi di musica. Anche se guembri, qraqeb e voce sono gli strumenti dei rituali, i musicisti Gnawa non lavorano solo nei rituali, e partecipano a continue e lunghissime sessioni di musica in strada, nelle piazze, dove sono benvenuti ogni sorta di musicisti e di strumenti. Pensiamo ai circoli gnawa che ci sono tutti i giorni nella grande piazza di Marrakech, Jamaa el Fnaa. Negli anni Settanta anche Jimmy Page e Robert Plant hanno suonato con gli Gnawa, e a Essaouira tutti ricordano la visita di Jimi Hendrix. La dicotomia “tradizione e innovazione” è completamente insensata: la musica popolare si nutre di quella commerciale, e viceversa, e la musica religiosa non fa certo eccezione. Se ci disturba sentire la chitarra elettrica nella Gnawa, è perché
continuiamo a ragionare a compartimenti stagni ereditati dall’antropologia coloniale. Per fortuna il mondo è fluido, e ci sorprende sempre.

Come sono nate le strofe in italiano che ascoltiamo nell’album? 
Reda Zine - Sempre seguendo l’esigenza di modernizzare il linguaggio e l’energia che veicola questa musica, ho buttato giù, nel treno che mi portava a Roma, due righe in italiano sul brano tradizionale (“Shalaba”) che pensavo di far registrare ai ragazzi. Ho semplicemente cercato di interpretare e trascrivere il sentimento che viene dalle parole originali del brano “Shalaba”, come le ho sempre immaginate cantante 
per sopravvivere durante la lunga traversata del Sahara; parole che non possono non farci pensare a ciò che succede oggi, ai nuovi e spesso terribili tentativi di attraversamento delle frontiere della fortezza Europa, storie che non ho smesso di cantare durante gli ultimi vent’anni.  
Stefano Portelli - È possibile che la quartina di Shalaba in italiano sia la prima registrazione di un brano gnawa cantato in una lingua europea!

Quale significato attribuite a questo album nel contesto italiano ed euro-mediterraneo? 
Stefano Portelli - La Gnawa celebra e compiange la diaspora che, dopo la caduta di Timbuktu nel XVI secolo, ha portato decine di migliaia di uomini e donne subsahariane attraverso il deserto fino alle città del Marocco. Oggi i musicisti marocchini che suonano Gnawa in Europa, e le donne marocchine che organizzano o partecipano ai rituali, hanno vissuto un’altra diaspora, di tipo sicuramente diverso, ma anch’essa dolorosa e disgregante. Questi brani celebrano la marginalità e la sventura come strumenti divini; forse possono aiutare a superare i traumi inflitti dal mortifero sistema di frontiere che i burocrati e i politici europei hanno imposto sul Mediterraneo e i suoi abitanti? Nel libretto abbiamo inserito una frase a cui tengo molto: “Questo disco celebra il continuo lavoro di appaesamento e radicamento degli Gnawa marocchini in Italia e di tutti i migranti e le migranti, come contributo a un futuro prossimo in cui attraversare deserti e mari per crearsi una vita altrove non sarà più un obbligo o un privilegio di pochi, ma una scelta e un diritto di tutte e tutti”. 

Il libretto che accompagna il disco è molto ricco e dettagliato e richiama varie attività educative: dove e come la musica gnawa interseca e da vita a percorsi educativi in Italia? Ci sono altre esperienze in questo ambito, anche all’estero, da cui traete ispirazione? 
Stefano Portelli - È interessante notare che quando ho iniziato a cercare di capire quali sono stati i primi passi della Gnawa nella diaspora italiana, e in particolare dove si sono svolti i primi rituali gnawa in Italia, sono usciti due spazi educativi: la Scuola popolare di Musica Ivan Illich di Bologna, di cui parlava prima Reda, e la casa-laboratorio di Cenci gestita da Franco Lorenzoni vicino Amelia, in provincia di Terni. Negli anni Novanta a Cenci si svolse un rituale gnawa in piena regola, con l’uccisione del capretto, la trance e tutto: la organizzarono alcuni dei più grandi esperti di Gnawa in Europa, Viviana Paques e Pierre Guicheney. A inizio anni 2000 invece ci fu un altro rituale a Bologna, organizzato dalla scuola Ivan Illich. È interessante pensare che in Italia alla celebrazione di un rituale esotico si attribuisca un potenziale educativo. 

Fra i gruppi che partecipano all’album, Fawda ha appena pubblicato il suo secondo album: cos’è cambiato rispetto al primo lavoro? 
Reda Zine - Tra i due album c’è un importante viaggio tra il Cairo e Addis Abeba e c’è la rielaborazione di legami antichi tra l’Italia, l’Africa orientale (sud dell’Egitto, Sudan ed Etiopia) e l’Africa occidentale. “Abou Maye”, infatti, è un album centrato sull’“inconscio italiano” - per citare il titolo di un film dedicato al colonialismo italiano e mai distribuito -, su rimossi e rimandi storici al colonialismo nell’“Africa Orientale Italiana”, come la chiamavano. Oltre ciò, questo è un album realizzato con una nuova formazione, non più un trio ma un quartetto stabile, grazie all’arrivo di Brothermartino alla drum machine, al flauto e al sassofono (per questo la vecchia denominazione “Fawda trio” è decaduta lasciando il posto al 
semplice nome “Fawda”). Infine, in quest’album, oltre all’arabo, ho usato per la prima volta anche l’italiano per il brano “doni e droni”. Un ulteriore cammino di trasformazione del nostro lavoro e di ricerca tra repertori, lingue ed estetiche. 

Che rapporto c’è fra musicisti gnawa ed etnomusicologi ed antropologi in Marocco ed in Europa? 
Stefano Portelli - La Gnawa ha catturato l’attenzione degli studiosi e delle studiose sin dagli albori dell’antropologia del Marocco, sin da quando Edward Westermarck compilò il suo monumentale “Ritual and Belief in Morocco” nel 1926. Negli anni 60’ diversi antropologi e etnomusicologi si interessarono alle «religioni degli schiavi», ma svilupparono una vera ossessione per la trance, la cosiddetta “possessione” e 
gli spiriti, trascurando altri aspetti fondamentali dell’organizzazione sociale degli Gnawa. Reda Zine - Ovviamente come fu il caso per Cheikh Anta Diop nello studiare l’egittologia, i ricercatori autoctoni hanno chiavi di lettura molto diverse.  L’antropologia marocchina recente ha sviluppato riflessioni molto profonde sulla natura del potere, sulla struttura di trasmissione dell’autorità, e sugli aspetti politici dei fenomeni culturali. Anche se una vera e propria etnografia della Gnawa in questa chiave ancora non è stata scritta, leggere la Gnawa alla luce di Mohamed Tozy, di Hassan Rachik, di Abdellah Hammoudi, ci permette di sviluppare una lettura molto più materialista, meno esotizzante. 

Quali dischi gnawa consigliate ad un ascoltatore che si avvicina oggi a questa musica? 
Stefano Portelli - Le personalità più conosciute sono sicuramente Mahmud Guenia di Essaouira, Hmida Boussou e Malem Sam di Marrakech. Ma bisogna aver presente che questa non è una musica fatta di grandi personalità artistiche che inventano canzoni, bensì un repertorio enorme trasmesso da maestri che, semmai, riorganizzano e strutturano i brani tradizionali. Per chi è interessato al repertorio in sé, consigliamo i cinque CD curati da Antonio Baldassarre (TITOLO), ma anche la serie “Gnawa home songs” che si trova su Youtube; Randy Weston e i Gnawa di Tangier ma anche i mitici Nass El Ghiwane.

Il disco è stata anche un’occasione di confronto e di scambio: ci sono o ci saranno altre forme di incontro collettivo in ambito italiano?
Stefano Portelli - Il lancio ufficiale del disco sarà quest’estate nell’ambito del Festival delle Culture Popolari organizzato dal Circolo Gianni Bosio a Collelongo, L’Aquila. Si tratta di un festival nuovo, che è alla sua seconda edizione, ma che promette molto bene, visto che - a differenza di molti eventi simili - gli abitanti del paese stanno dando un contributo essenziale alla sua realizzazione. Quest’anno faremo una prima presenza di Gnawa Rumi sul palco, nel tardo pomeriggio del 20 agosto, e il 21 agosto la prima presentazione ufficiale del disco, con un intervento di Helene e di Antonio Baldassare, il primo etnomusicologo italiano della Gnawa, una delle prime persone ad aver portato gli Gnawa in Italia, e che vive a Isola del Gran Sasso. Baldassarre a casa sua sotto la montagna custodisce uno degli oggetti in assoluto più importanti della Gnawa: il mitico guembri del maestro Abderrahmane Paqqa, che appare nella copertina di uno dei dischi più famosi del gruppo controculturale Nass el Ghiwane di Casablanca. Come concludiamo il libretto, “è nascosta, ma c’è della Gnawa nel cuore dell’Italia”.



Artisti Vari – Gnawa Rumi. Musica diasporica marocchina in Italia (Nota, 2022)
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Emilia, Toscana, Lazio, Calabria: i dodici brani raccolti in questo CD, energetico e spirituale, raccontano voci e interazioni diverse con uno dei versanti più generativi del percorso diasporico marocchino in Italia, quello legato alle pratiche gnawa. Quasi in contemporanea con “Gnawa Rumi” è uscito anche “Abou Maye”, secondo album dei Fawda che vede protagonista al guembri e voce Reda Zine, regista, insegnante e mediatore culturale di Bologna (gli altri due musicisti del trio, Fabrizio Puglisi e Danilo Mineo compaiono in “I got the blues”). In “Shalaba”, il brano che apre “Gnawa Rumi”, Reda suona la chitarra elettrica e da voce ad una quartina in italiano: "Ogni volta che sbarco in Europa / mi fan sentir che vengo dall'Africa / Quanto ci vuole per sentirsi in vita / lasciando terra, famiglia, per la libertà / Shalaba Titara l’afo lillahi / Wa la ilaha illa llah, o l’aziz a rasul llah”. L’atteggiamento di Reda Zine in questo brano riassume alcuni aspetti chiave dell’intero album: “Ho lasciato il guembri ad Amine e il mizan/il ritmo a Abdellah e ho scelto il mio primo strumento, la chitarra, per dare più graffio”.  Il libretto che accompagna il CD, con testi in italiano, inglese e arabo, è molto accurato (con i profili di tutti i musicisti e collaboratori, riportati anche in https://www.facebook.com/gnawarumi/) e spiega come “Shalaba” sia un invito a radunarsi, a condividere i propri sentimenti. Il titolo della canzone seguente, “Mhiriza”, richiama il mortaio che in cucina aiuta a mischiare i diversi ingredienti così come avviene qui nelle chiamate e nelle risposte fra solista e coro, ancora più evidenti nei momenti strettamente vocali come avviene nella prima parte di “L’ada”, con i cori dedicati alla processione iniziale del rituale gnawa cui Amine Ezzalzouli  aggiunge i ritmi sincopati del suo tamburo, invito alla cerimonia, a mettere in relazione umani e spiriti, a farli dialogare prima di accelerare il tempo, verso la trance... Sono state anche riprese registrazioni già effettuate in passato: “La ilaha 'illa-llah”, per esempio, aggiunge in il guembri di Abdallah Ajarrar ad un brano precedentemente inciso da Nour Eddine Fatty (voce), Rashmi Bhatt (tabla) e Thomas Vahle (flauto peul). In ambito italiano, l’incontro più fertile sembra essere stato quello con i soni a ballu calabresi, testimoniato dal CD “Taragnawa” - nato dall'incontro vent’anni fa fra i calabresi Phaleg e Nour Eddine – che in “Gnawa Rumi” viene ripreso in brani come “Uma baniya” (con Gabriel Macri alla lira e al tamburello) e “Malu malu”, testimonianza del “moroccan’roll” bolognese e dell’intesa fra Abdallah Ajarrar, Gianluca Sia, Mimmo Mellace e Nico Canzoniero che da un decennio coltivano il gruppo Jedbalak. L’album è inoltre un’occasione per ascoltare il contrabbasso di Roberto Bellatalla in “Yurki madani” e “Sla a nbi” dove le sue linee con l’arco fanno riemergere le atmosfere free del sodalizio pluriennale con Louis Moholo. Il penultimo brano, “Sudani manayo” vede al centro il bel coro dei bambini della quinta C della scuola primaria “Luigi Donini” di San Lazzaro (Bologna) a testimonianza della capacità di alcuni di questi musicisti di dar vita a percorsi generativi anche nei contesti dell’educazione formale, ambito ben esplorato recentemente da un altro CD Nota. E, per terminare, “Allah Mulana (Khali Mbara meskin)” va al cuore delle danze collettive, e della suite “Neqsha”, raccontando le vicende del servo “zio Mbara” (già protagonista di “Malu Malu”), cui dà voce dall’Abruzzo l’etnomusicologo Antonio Baldassarre.


Alessio Surian

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