Artisti Vari – Ius Soli. Voci e Canti per l’Italia futura (Nota, 2022)

La collana “Crossroads”, pubblicata dalle edizioni friulane Nota in collaborazione con il Circolo Gianni Bosio, si arricchisce di un altro capitolo di ricerca e documentazione sonora sulle musiche in Italia con in primo piano questa volta bambini e adolescenti, principali mediatori, interpreti e traduttori, tra la cultura di origine della famiglia e il paese di residenza. Ci poniamo all’ascolto di voci di generazioni di “italiani negati”, guidati dai due curatori del volume, Luciana Manca e Alessandro Portelli, con i quali abbiamo discusso dell’impianto del disco che porta con sé anche una ridefinizione di categorie interpretative. Manca è cantante, video-maker e docente nella scuola secondaria; studiosa di musica di tradizione orale italiana e delle relazioni fra musica e migrazioni. Frequenta un Dottorato di ricerca in Etnomusicologia in cui si sta occupando di mappare i cosiddetti “cori multietnici” sul territorio italiano. Attualmente, è in residenza artistica all’Hollufgård Sculpture Park di Odense (Danimarca) per il progetto di arte partecipativa “Inhabiting Voices”, sul paesaggio sonoro di Vollsmose, dove risiedono in maggioranza rifugiati. Non ha bisogno di presentazioni Alessandro Portelli, ospitato più volte nelle pagine di “Blogfoolk”, già accademico  americanista, uno dei maggiori studiosi di storia orale, presidente del Circolo Gianni Bosio e direttore della collana “Crossroads”.

Quali sono gli obiettivi della collana Crossroads? 
Alessandro Portelli - La collana nasce dalla semplice osservazione che le strade, le scuole, i luoghi di culto sono pieni di musica, portata soprattutto da nuove presenze, dagli immigrati, dalle seconde generazioni. Se noi definiamo la musica popolare come l’espressione dei gruppi sociali emarginati, sfruttati, niente più dei migranti in questo momento rappresenta questa dimensione, uno dei luoghi dove prendono forma espressiva le contraddizioni della società. Non penso tanto alle contaminazioni che avvengono nella musica dell’industria culturale, ma proprio alle presenze nei luoghi tradizionali della musica popolare: strada, luoghi di lavoro, contesti religiosi, casa e famiglie. 
È un modo per dare conto del fatto che le classi popolari della città di Roma hanno una composizione diversa da quella tradizionale. Una fondamentale contraddizione sociale oggi è data dalla presenza rifiutata ed emarginata dell’emigrazione e dal rifiuto di riconoscere come parte della nostra società i ragazzini che nascono qui da genitori immigrati. La musica popolare è quella che esprime questa contraddizione. I CD di questa collana propongono musica tutta al di sotto dei radar del mondo dell’industria musicale. 

Luciana, come sei stata coinvolta nel progetto “Ius Soli”?
Luciana Manca - Il mio coinvolgimento inizia a Piàdena (alla Festa organizzata dalla Lega di Cultura Popolare, ndr), dove ho incontrato Sandro Portelli. Mi era stato chiesto di fare uno spettacolo sulla musica del Salento che parlava delle rivolte legate alle lotte contadine, fra cui l'ultima rivolta del 2011 di braccianti africani a Nardò. A me piaceva questo tema anche per un motivo personale: mia zia che faceva la tabacchina, però quando le chiedevo di cantare qualcosa mi diceva sempre che non aveva mai cantato. Poi dopo che è morta, ho scoperto che quando andava in Germania in macchina cantava sempre … Mi sono appassionata al tema musica e migrazione a al significato che ha la musica per una persona nel suo percorso migratorio. In quel periodo stavo facendo il Coro Multietnico a scuola con una classe e quindi avevo un sacco di contatti, così ci siamo confrontati con Sandro che si stava già occupando di migrazioni, è venuto a scuola e abbiamo fatto delle interviste insieme. Da lì mi ha proposto l'idea di curare questo disco insieme. 

Scrivete nell’introduzione che l’obiettivo del disco è cambiato in corso in corso d’opera: in che senso? 
Alessandro Portelli - Doveva essere un disco in continuità con la ricerca sulle musiche migranti in Italia. 
Fare sentire attraverso le voci dei bambini o le voci degli adulti che cantano ai bambini o per i bambini, il processo di formazione della nuova Italia per rendere il disco uno strumento di pedagogia interculturale. Andando avanti nella ricerca e nel confronto ci siamo resi conto che la questione principale era più profonda: cosa diciamo quando diciamo “Italia”, come riconosciamo le persone che in Italia vivono e vivranno negli anni a seguire?
Luciana Manca - Lo “Ius soli” è importantissimo, però è anche vero che l’Italia è molto indietro rispetto agli altri Paesi europei. La maggior parte dei bambini nati in Italia a 18 anni la cittadinanza ce l'hanno automaticamente. Il problema sono altre persone: c'è chi arriva in Italia che magari ha due o tre anni oppure chi arriva in Italia che ne ha 20. Penso a Richard Santana, ecuadoriano, di cui parliamo all’inizio nella presentazione. La sua è una storia abbastanza comune: è da vent'anni in Italia e non ha mai avuto diritto di voto. Sì, è cambiato nel senso che l'attenzione si è spostata su un problema più ampio che non era soltanto legato all'infanzia ma anche genitori di questi bambini. L’introduzione è stata dedicata ad Adelina Sejdini che è un caso emblematico, donna albanese uscita dalla prostituzione diventando collaboratrice di giustizia. Non le hanno mai dato la cittadinanza lei l'ha chiesta fortemente anche perché aveva gravi problemi di salute. Lei si è incendiata davanti al Ministero e dopo l'hanno portata in ospedale le hanno dato il foglio di via e lei si è suicidata, facendo il video di lei mentre  si buttava nel fiume con la bandiera italiana.

Si avverte l’arretratezza del diritto di fronte alla realtà storica sociale di esperienza di vita nell’Italia del XXI secolo. 
Alessandro Portelli - Non è solo questione di diritto, ma anche di arretratezza culturale, nel senso di immaginare un’identità italiana astratta e a cui non si adeguano presenze diverse da quelle che ha sempre immaginato. Penso a quando giocava Balotelli in Nazionale, agli slogan ‘non esistono italiani neri’. Come non esistono italiani neri? Occorre mettere in discussione certi presupposti di una versione nazionalistica di cosa è il folklore, cos’è la cultura popolare. 
Perché dobbiamo accettare il fatto che se la musica italiana è la musica si fa in Italia, in questo momento si fa anche questa musica qui. E poi diciamolo francamente, prendere atto di un'esperienza interessante che non è direttamente legata al discorso dello “ius soli”, ma che è legato a un’idea di un’Italia molteplice, come quella dei cori multietnici della nostra serie. Questo è il primo disco in cui c’è una presenza molto più ampia rispetto agli inizi di quando il progetto si chiamava “Roma forestiera”, perché abbiamo materiali che vengono da altre regioni. È una conferma sperimentale del fatto che in queste musiche che arrivano con i migranti o che i migranti e i loro figli interpretano in Italia non rimangono limitate alle cosiddette comunità migranti ma circolano. È un progetto che va contro l'idea della purezza “razziale”, contro l’idea della genuinità del folclore, contro l'idea della purezza delle radici. Perché diciamolo: si mescola tutto. La musica che i migranti portano con sé non è soltanto un’eredità delle origini autoctone ma è in qualche modo ripensata, ricostruita reinventata, cambia di senso alla luce dell'esperienza dell'emigrazione. Tutti hanno in comune la stessa esperienza che è quella di essere emigrati nello stesso Paese, di essersi dovuti confrontare con lo stesso razzismo, con la stessa burocrazia, con la stessa polizia, con la stessa ottusità culturale. 

In che rapporto sono ragazzi e ragazze con la cultura d’origine dei genitori e con quella di residenza? Come cambia questa relazione durante il percorso scolastico?
Luciana Manca - Nel CD c'è un coro che si chiama Coro Tattico con cui ho lavorato. Volevamo valorizzare le varie lingue e culture, anche perché erano quindici ragazze e ragazzi della prima media, stranieri e italiani. Abbiamo proposto dei canti di migrazione classici che potessero piacere anche a loro e poi hanno proposto loro delle cose e - casualità - quell’anno andava di moda Ghali, la cui “Cara Italia” abbiamo rivisitato con la body percussion. Abbiamo detto: “Ragazzi vi va di fare qualche pezzo della vostra famiglia nella vostra lingua? Tutti hanno detto ‘No, che schifo! Non ci piace quella musica’.
Dopo qualche settimana, una ragazza molto timida ha detto ‘Io vorrei cantare una canzone’. Ha cantato una canzone di Bollywood, che poi è diventata il primo brano del CD. Ascoltando gli altri si sono mostrati tanto entusiasmati che ciascuno voleva proporre una canzone del suo paese e della sua lingua. 

Come avete organizzato il disco: come si snoda la tracklist? 
Luciana Manca - Le registrazioni sono state fatte sul campo: a scuola, per strada da Sandro negli anni, in casa dei migranti o a casa mia. Altre ci sono state date dai cori multietnici, altre ancora sono state fatte al Circolo Gianni Bosio. Il primo brano di Sumaiya Mosammat (“Chanda hai tu”) del Bangladesh è la canzone di cui parlavo prima; dopo, molti compagni hanno sentito il bisogno di fare ascoltare canti provenienti dai Paesi di origine delle famiglia. È un po’ come quando de Martino parlava di qualcosa che “scazzica” e cambia tutto il contesto. Nella prima parte c’è una comparazione fra melodie tradizionali in Italia però in altre lingue. Ci sono poi i capitoli dedicati alle ninna nanne, madri e figlie, i giochi e le filastrocche. C’è una sezione con interviste e la parte rap, che sono state messe insieme perché si tratta di spoken word.

Quali elementi musicologi risaltano nei materiali proposti?
Luciana Manca - La maggior parte è a cappella e ad un ascolto globale penso che il risultato sia che a qualsiasi latitudine, più o meno, le ninna nanne e le canzoni dell'infanzia hanno un range di note abbastanza simile, o la scala pentatonica o non c'è una grande estensione di note, essendo a cappella molte sono non temperate, soprattutto quelle del Medio Oriente. Dei multietnici è interessante l’approccio pedagogico dei vari maestri e maestre di coro: quelli di musica di tradizione orale e quelli con partitura. I cori con partitura non sono presenti nel disco, li ho incontrati dopo, lavorano su brani arrangiati partendo da una proposta di un corista e in cui i direttori di coro sono molto specializzati sulle musiche del mondo (sono tutti in Emilia Romagna e hanno studiato con lo stesso maestro). In quelli di tradizione orale, si tende molto spesso ad armonizzare poco o a non
armonizzare affatto usando dei bordoni. Però in due brani molto belli non c’è il bordone: sono brani che non nascono dalla coralità ma dalla persona che li ha proposti, come quelli del coro Canto Sconfinato di Pordenone in cui c'è il basso in una linea semplice. O una celestiale melodia cantata da Samba Fall, senegalese che racconta che aveva imparato la ninna nanna “Ayo bey” quando stava dietro alla mamma da bambino. Nel brano c’è poi la corista Elisa Santarossa che fa uno scat: sono interessanti le ibridazioni che si creano. 
Alessandro Portelli - A me colpisce molto il fatto che le persone che abbiamo incontrato i migranti vengono da culture in cui la separazione tra popolare e popular è molto meno rigida. Per cui le canzoni di Bollywood diventano espressione di identità personale molto molto più “autentica”: usiamo… sta’ parolaccia. In tutta le culture dell’Europa orientale, dell’Asia dell'America Latina la categoria di folclore comprende una quantità di prodotti che non nascono dalla tradizione orale, ma che utilizzano le forme della tradizione orale. Ma anche in America, la “old time music” sta a cavallo tra popular music e musica popolare. Questa distinzione così secca che proviene in Italia, ma pensiamo pure al liscio e alla canzone napoletana dall'altra dove il confine viene attraversato continuamente. Quindi questa esperienza di ascolto mette in discussione rigide categorie interpretative che paiono poco applicabili all’esperienza delle persone. 

Si parla di orchestre e di cori multietnici, ma questa categoria di multietnicità ancora usata nel linguaggio corrente non appare superata, proprio dall'esperienza di incontro, di creazione, di trasformazione che si generano nell’esperienza migratoria? 
Luciana Manca - Esiste un problema di definizione. Il primo coro è nato nel 2000. Però la differenza tra cori e orchestre sta nel fatto che sono esperimenti di community music, rivolte all’inclusione. Anche l’Orchestra di Piazza Vittorio, che è stata la prima, era nata per l'inclusione, ma era diversa perché sono diventati professionisti della musica. In questo caso è inclusione nel senso che anche se sei stonato tu puoi venire a cantare. Quando sono nati i primi cori, li chiamavano multietnici perché all’epoca in Italia non esisteva ancora il dibattito sulla pedagogia interculturale. Il primo coro multietnico d'Italia è quello di Roma Se…Sta Voce che poi, dopo che i bambini son diventati grandi, sono diventati Quinta Aumentata. All'epoca, prima del 2010, si chiamavano tutti cori multietnici. Adesso ce ne sono circa 24 in Italia; facendo una carrellata più della metà si autodefiniscono così. 
Qualcuno si autodefinisce interculturale,  che magari sarebbe più alla moda a livello pedagogico. Sono concetti importanti di cui ho scritto 1, però anche se li chiamano multietnici l’approccio pedagogico dei maestri è interculturale e transculturale. 
Alessandro Portelli - Ho sempre combattuto contro l’uso di un termine legato alle origini razziali, del sangue. In qualche modo è difficile trovare un’altra parola per il momento. Penso negli Stati Uniti, dove ancora si usa “razza”. A me viene in mente che esiste il termine diaspora, dobbiamo inventarci la parabola inversa per parlare di un luogo a cui affluiscono, di un’esperienza sincretica, se vogliamo, che però è una parola che ha altri significati. L’idea è quella di pensare a qualcosa in cui molte differenze avvengono insieme. Multietnico è un termine molto inadeguato, però c'è una delle persone che abbiamo registrato che rifiuta anche di sentirsi chiamare migrante: ‘Sono dieci anni che ho smesso di migrare!’ È una difficoltà del linguaggio “Crossroads” è un incrocio, noi pensiamo sempre a Robert Johnson, a un posto da cui si dipartono molte strade. Però, è pure un posto dove arrivano un sacco di strade e dove si incrociano. E qui la parola “Crossroads” aiuta a pensare a questo concetto. 

I brani “Afroitaliano” cantato dallo “stranero” Tommy Kuti e “Cara Italia” cantata dal Coro Tattico, fanno emergere generi come rap e trap. In che misura questo rapporto con la voce cantata e la scrittura hanno cittadinanza a scuola in termini di pratica formativa, didattica? 
Luciana Manca - Nella mia esperienza, il rap l’ho conosciuto tramite i ragazzi. All’inizio mi interessava come fenomeno ora mi piace proprio come genere. Lo utilizzo sul piano didattico e l'ho visto anche utilizzare, per esempio, in Danimarca, dove c'è una scuola di rap. Penso che abbia tante potenzialità come musica di tradizione orale, è un modo per motivare, perché le giovani generazioni ascoltano solo hip hop, rap, trap. 
Quando ho fatto l’insegnante di italiano ho preparato qualche unità didattica su questo tema. Anche nei laboratori del Coro, ci sono stati giorni in cui si scrivevano dei testi e poi loro facevano free style. Io portavo la loop machine e alcuni facevano delle basi con beatbox e altri provavano a fare free style con i loro testi. 

Che opportunità offrono questi materiali agli insegnanti interessati a promuovere una didattica che è attenta all’attualità e ai temi della diversità culturale?
Luciana Manca - Dal punto di vista degli insegnanti di musica, si potrebbero utilizzare sempre per questa prassi del coro multietnico che secondo me sarebbe proprio da diffondere in tutte le scuole. Sarebbe molto bello anche chiamandolo non coro… che è un termine che a volte allontana i giovani. Il CD potrebbe essere uno spunto. Peccato che non ci siano le partiture, perché si è lavorato più sulla storia orale che come strumento didattico. Però magari in futuro. Penso a una bellissima collana pedagogica in francese in cui è stato pubblicato un libro di canti wolof.  Il libro fornisce riferimenti culturali considerati dal punto di vista musicale, propone canzoni, sono descritte tutte le fasi di apprendimento necessarie con tracce separate sulle parole, la melodia, il ritmo. L’obiettivo della collana è quello di offrire agli insegnanti uno strumento originale per affrontare un repertorio tradizionale con i giovani, attraverso la pratica vocale d'insieme 2. Ce n’è anche una curata da Facci e Santini sulla musica italiana 3. È un approccio utile nell’accoglienza. C’è una validità scientifica in questo metodo di approccio plurale, anche nell'insegnamento dell'italiano come L2. 

Due sollecitazioni per Alessandro Portelli: In che modo la rivista “I Giorni Cantati” negli anni Ottanta faceva i conti con l’immigrazione? In che misura questo tipo di ricerca di “Crossroads” potrebbe in qualche modo intersecare nuovi orizzonti? 
Alessandro Portelli - Quando facemmo il primo numero della rivista c’era un inserto fotografico con la foto di un signore congolese in giacca e cravatta: non pensiamo a questa gente come pezzenti. E questo a me pare che sia rimasto come tema portante, di sfuggire all’immagine pauperistica, vittimistica che non
vuol dire far finta che non ci sia violenza e non ci sono discriminazioni, ma partire dal punto di vista che abbiamo a che fare con persone e non come oggetti della nostra compassione. Per il futuro… Io ho dei nipoti e ogni tanto si nomina una cosa e mi dicono ‘questo lo so perché me lo ha detto il mio compagno di banco che è del Bangladesh’. Questi bambini stanno già cominciando a praticare un mondo in cui non dico che siano già scomparse, ma perlomeno si cominceranno a erodere categorie discriminatorie; mi affascina tantissimo questa idea. L’apprendimento è reciproco. 

Una quindicina d’anni fa le lotte sullo “ius soli” le facevano effettivamente i giovani che non si ritrovavano la cittadinanza italiana. Oggi invece è molto recuperata a livello più partitico, più formale, più simbolico. Non è che forse questo recupero tiene lontana una giovane generazione da lotte più significative o più partecipate. Inoltre,  noi ascoltiamo con piacere queste musiche come semi che possono essere molto fertili dal punto di vista educativo. Come estenderli al di là di una minoranza dal punto di vista della didattica? anche in chiave transdisciplinare, non soltanto di educazione musicale, ovviamente. 
Alessandro Portelli - Sul primo elemento: alla fine tutto questo non può non avere uno sbocco istituzionale, perché ci vuole una legge che deve essere votata dal Parlamento. Questa rivendicazione che nasce dal basso va poi in qualche modo fatta propria dalle forze politiche e istituzionali: è sia un elemento di cooptazione sia un successo. Alla fine, se questa cosa non passa in Parlamento, le lotte hanno avuto in questo caso la funzione di porre la questione a livello politico. Anche il secondo punto dipende tantissimo dalla politica. Temo di avere una visione un pochino ottimistica, perché conosco soprattutto le esperienze positive che ho frequentato a Roma. Voglio ricordare una figura storica di un’importanza enorme: Simonetta Salacone, dirigente scolastica della scuola Iqbal Masih. Le resistenze che ci sono nella scuola sono quelle che ci sono nella cultura. Credo che sarebbe molto importante, per esempio, pensare che l'insegnamento della storia debba includere la memoria storica delle altre soggettività presenti. 
O reintrodurre una disciplina criminalmente abolita come la geografia, che sarebbe molto importante a livello scolastico per attenuare una visione eurocentrica, se non nazionalista. E anche in letteratura: sai tutto dei minori del Trecento, ma figuriamoci se si sente mai parlare di Senghor, dei grandi poemi epici del Mali o di Tagore, che magari viene nominato da un bambino del Bangladesh nel coro di Torpignattara. Credo ci sia l’esigenza di mettere in discussione, di svecchiare e spezzare questo modello nazionalistico dell’insegnamento, che non è solo un problema italiano. 

Cosa insegna questo disco alla società italiana in senso più allargato?
Luciana Manca - Abbiamo fatto questo disco per dire non solo quant’è bello che gli italiani del futuro parlino più di 40 lingue. L’abbiamo fatto perché c’era bisogno di farlo, perché se si parla tanto di l'inclusione, ormai anche nel marketing, lo si fa perché di fatto non c’è. Tutto nasce dall’osservazione dell'arretratezza giuridica  italiana e dalla speranza che qualcosa cambi.

Quando si parla di questioni di identità, inevitabilmente salta fuori la metafora arborea delle radici, un riferimento ancora forte nel discorso pubblico di musicisti e non solo. Non credi abbia i suoi limiti nel modo in cui è interpretata? 
Alessandro Portelli - Mi viene in mente che ho degli alberi del giardino le cui radici si sono talmente espanse e stanno facendo saltare l’asfalto del vialetto. Punto primo: le radici non stanno ferme, servono a fare le foglie. Quello che non mi va bene è che partiamo da una definizione autoritaria a priori di cosa sono le radici. Le radici si nutrono di una quantità incredibile di cose. Le radici sono una cosa da cui parte il movimento. Invece questa idea che alle radici devi tornare significa rovesciare il senso dell’idea stessa di radici. Le radici sono un inizio. Mi piace l’idea delle ali, dei piedi. E poi, soprattutto, l’idea che la musica è una cosa immateriale e non la fermi. 

Cosa ha in cantiere la collana “Crossroads”? 
Alessandro Portelli - Un disco sulla musica diasporica marocchina in Italia e lavori sulle musiche religiose, sulla molteplicità delle religioni presenti nel Paese. 


Ciro De Rosa e Alessio Surian

Artisti Vari – Ius Soli. Voci e Canti per l’Italia futura (Nota, 2022)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

“Che democrazia è quella in cui tante persone che partecipano della vita di un Paese ma non avrebbero “il sangue giusto” sono escluse da diritti civili elementari?” È questo un interrogativo posto da “Ius  Soli”, album che porta come sottotitolo “Voci e Canti per l’Italia futura”. Raccoglie le musiche urbane di generazioni di “italiani negati”. Curato da Luciana Manca e Alessandro Portelli, l’album con importante pagine introduttive sul progetto, sulle musiche, sulla questione della cittadinanza, impone anche un ripensamento sulle categorie classificatorie. Il disco contiene quarantasette brani (tradizionali di varia origine, ninne nanne, composizioni originali, cover e alcune interviste). Dei tanti protagonisti, alcuni sono artisti già noti in altre pubblicazioni della collana o che hanno un proprio percorso artistico, come la scrittrice e cantante afrodiscendente Gabriella Ghermandi (“Mimiye”), la curda Hevi Dilara (con il fratello Idris Kaya al bağlama in “Lori Lori”) o Issa Abou Eita, cantante e suonatore di oud siriano (“Mama jamat baby”). Altri – e sono la maggioranza – sono bambini, adolescenti e adulti coinvolti in progetti di socialità e inclusione che prescindono dallo sbocco in forma di concerto, ma che rappresentano un processo cruciale di apprendimento reciproco nella costruzione dei repertori musicali. Quelli che si ascoltano sono canti sull’infanzia, canti per l’infanzia, canti che toccano questioni di memoria e di identità molteplici. I contesti in cui sono stati registrati sono la strada (ci sono anche cantori anonimi), la scuola, l’intimità familiare, ma anche le sale dove i cori interculturali e transculturali intrecciano vite, storie e pratiche musicali. Emerge una pluralità di lingue e di suoni: una fotografia dell’Italia di oggi e di domani, con buona pace di chi blatera che non esistono “italiani neri”, negando che sono sempre esistiti nel Paese almeno dai tempi dei “Figli di Annibale”. Un’ampia sezione è dedicata appunto ai cosiddetti cori multietnici, di certo non una mappa definitiva, perché di cori ce ne sono tanti sparsi nella Penisola, ma sicuramente si dà conto di alcune delle esperienze di punta, come il Coro Voci d’Oro di Centocelle, l’Al Frisoun di Nonantola (MO), il coro della scuola bengalese di canto e danza di Torpignattara, il Se…sta Voce, il Coro Tattico (alle prese con “Cara Italia” di Ghali), il Coro Sconfinato di Pordenone o il Quinta Aumentata. Tra i solisti, piace segnalare, oltre ai già citati artisti, il bengalese Rabir Abdullah Al Maruf (“Nikosh Kalo”), il rapper bresciano Tommy Kuti, cantautore rap “stranero” e non straniero, il senegalese Samba Fall, interprete di “Nam dem Cayor” in cui interviene Laura Scomparcini, jazzista e direttrice del coro Sconfinato, e la ninna nanna “Ayo bey”, eseguita con Elisa Santarossa. Ci sono ancora la kosovara Artjola Baxhacu (“S’po kam sabër ma me prit”), le ucraine Oxana e Olena (“Čornobryvtsi”) e l’indiana Dalijt Kauur (“Din Bachpan de Gaye”). L’emozione di storie che si scrivono nell’incontro virtuoso tra esperienze e condivisioni, nella consapevolezza che “la casa è dove sono” (Igiaba Scego) e che oltre le “radici”, che non sono che l’inizio di movimento, di un fluire e di un divenire, come rammenta Alessandro Portelli, ci sono le “ali”.


Ciro De Rosa

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1  Si veda Luciana Manca, “Più semo e mejo stamo. Antidoto al razzismo: i cori multietnici a scuola”, in Nuova Secondaria - n. 1 2021 - Anno XXXIX, pp. 29-33.
2 Luciana Penna-Diaw, “Chants wolof du Sénégal”, Paris, Cité De La Musique, 2013
3 Serena Facci – Gabriella Santini, “Chants d’Italie. Pour chanter ensemble de 8 à 14 ans”, Paris, Cité de la musique, 2012

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