Peter Brook, il ritmo del teatro

Il regista cinematografico e teatrale Peter Brook è morto a Parigi il 2 luglio a novantasette anni. La sua prima regia teatrale fu “Dr Faustus”, nel 1943, al Torch Theatre di Londra. A tre anni dopo risale la sua prima regia per la Royal Shakespeare Company di cui divenne direttore nel 1962 insieme a Peter Hall. L’anno successivo firmava la regia cinematografica de “Il signore delle mosche”, caratterizzato dal tema del Kyrie Eleison, con una colonna sonora composta e diretta da Raymond Leppard. Ha realizzato la direzione di 15 film e oltre 50 spettacoli teatrali, oltre ad aver pubblicato una decina di libri, l’ultimo, nel 2019, dedicato alla musica, “Playing by Ear: Reflections on Sound and Music”. Rai Radio 3 gli ha dedicato una puntata speciale con testimonianze di Monique Veaute, Nino Marino, Anna Bandettini, Antonio Audino. Il rapporto di Peter Brook con il teatro e la musica comincia frequentando il collegio, luogo dove tutti gli insegnanti lo mettono a disagio tranne il professor Taylor, giovane insegnante di musica appassionato di recite scolastiche gli consegnò una domanda particolarmente generativa: “Perché il fattore comune di tutte le arti è il ritmo?”. Scriveva Brook nel 1998 ne “I fili del tempo”: “delle migliaia di parole (…) pronunciate dai miei insegnanti, riesco a ricordare soltanto questa singola frase. E’ un quesito che ancora mi dà filo da torcere (…) che cos’è che dà ad un’opera d’arte il suo vero tempo?”.
Il secondo incontro decisivo avvenne con la maestra di musica Biek: “Posò sul leggio lo spartito di una sonata semplice di Mozart e disse: ‘Suona!’. Ma prima che la mia mano potesse suonare la prima nota, mi aveva già fermato: ‘No! Devi prepararti! Sai cosa significa?’ In quell’istante scoprii qual era la sfida (…) La musica è un tutt’uno e deve evolversi con la propria spinta dinamica (…) La sua richiesta agli allievi di comprendere la realtà della musica rendeva l’esecuzione essenziale”.
Saranno proprio queste caratteristiche di essenzialità a caratterizzare l’agire narrativo di Peter Brook, in particolare con l’avvio, nel 1970, del percorso legato al teatro parigino Bouffes du nord e la collaborazione con Jean-Claude Carrière. Così lo descrive Gabriele Vacis: “Peter Brook è uno che pensa che la mancanza di scenografia è un requisito necessario per l’immaginazione. Per questo la sua Bouffes du Nord si presenta sempre così com’è: come una bellissima signora che non ha bisogno di vestiti costosi, non ha bisogno di abitare nei quartieri alti: la sua eleganza è nei segni della memoria che porta sul viso, sul corpo. Alla Bouffes du nord è impossibile oscurare la sala: lo spazio scenico è lì in mezzo e il pubblico tutto intorno, quindi gli spettatori vedono gli attori, ma anche gli attori possono vedere il pubblico: è un teatro in cui ci si guarda in faccia”.
Il suo è anche un teatro nomade e attento agli elementi di diversità culturale; scriverà in “Conversazioni”: "viviamo in un'epoca di povertà emotiva. La parola emozione è quella che porta con sé tutti i sentimenti migliori attraverso cui l'umanità si è elevata. L'Occidente vive di emozioni povere o di emozioni rozze. E in certe parti del mondo, ci sono certe forme, certi modi di vivere o certi linguaggi che sono reliquie vive di una sostanza diversa che va sotto lo stesso nome di ‘emozione". Le arti e, in questo caso particolare, le arti dello spettacolo, hanno un solo materiale di cui vivono, che è l'emozione. Storicamente, ci troviamo in un momento molto importante di oscillazione del pendolo. Una forma grezza di emotività ha raggiunto un certo livello. Il teatro è lì come alimento per percezioni più elevate.
Nascono così opere come “La Conférence des oiseaux”, ispirata dalla spiritualità sufi e occasione per interagire con il Maghreb e l’Africa occidentale fra Dicembre 1972 e Marzo 1973 e il film “Incontri con uomini straordinari” dedicato a Gurdjeff e girato in Afghanistan, che vede le collaborazioni musicali con Laurence Rosenthal e con David Hykes, in particolare per il canto difonico.


Il film è anche un documento sulle danze e le pratiche fisiche legate a Gurdjeff.


Emblematico del suo lavoro è l’approccio a “Carmen” di Bizet fra le opere più rappresentate nella storia del melodramma.  Nel novembre 1981 presenta al Bouffes du Nord la “Tragédie de Carmen”, in collaborazione con Marius Constant che seppe ridimensionare la partitura in tre atti dell’opera in un atto unico per orchestra da camera di 15 elementi e con Jean-Claude Carrière, per un libretto che riprende la novella originale di Prosper Mérimée. L’attenzione per le vite e gli amori dei protagonisti porta a tagliare alcune parti anche molto conosciute, mentre si conservano le arie principali, rendendo la narrazione quasi senza epoca, specchio di temi che interrogano tutti: l’amore, la libertà, il desiderio. Allo stesso modo rende spoglia e essenziale la scenografia.


La convinzione di Brook, ribadita nelle “Conversazioni” è che “attraverso il teatro che si può raggiungere la facoltà di percepire in modo più vivido. C'è una battuta nel Re Lear che lo dice in modo molto efficace. Dopo essere diventato cieco, Gloucester dice: ‘Lo vedo sentendo’. Vedere con i sentimenti è una qualità dell'emozione che penetra, che diffonde luce. Per capirlo, pensiamo a Ted Hughes (il poeta e l’autore di Orghast) quando dice che in ogni uomo c'è la chiave che apre quel sentimento".
Il lavoro sull’antico poema epico in sanscrito “Mahābhārata” coinvolge straordinari musicisti - Toshi Tsushitori, Mahmoud Tabrizi-Zadeh, Kudsi Erguner, Djamchid Chemirani, Kim Menzer, Philippe Eidel. Debutta in francese nel 1985 a Boulbon, vicino ad Avignone, nella versione di nove ore (la stessa versione sarà prodotta anche in inglese due anni dopo), per essere poi ridotta a sei nel 1989 per la televisione e a circa tre ore per il cinema. La versione per l’album prodotto nel 1990 dalla Real World viene registrata negli studi Ferber di Parigi sotto la direzione di Toshi Tsushitori, coinvolgendo la cantante Sarmila Roy per le canzoni di Rabindranath Tagore.


Nel 2015 Brook propone “Battlefield”, episodio inedito sviluppato durante la lavorazione del “Mahābhārata” che vede protagonista la morte, in uno spazio “vuoto”, abitato da quattro attori, attraversato dalle sonorità del campo di battaglia grazie al lavoro percussivo sul djembe di Toshi Tsuchitori, a suggellare quarant’anni di collaborazione con Peter Brook (spesso insieme al maestro iraniano Djamchid Chemirani nei duo di pakhawaj e zarb).


Altro collaboratore storico è il musicista iraniano Mahmoud Tabrizi-Zadeh (morto nel 1997), unica voce musicale de “L’Homme qui” adattamento dei saggi di Oliver Sacks curato insieme a Marie-Hélène Estienne de “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, e musicalmente in primo piano in “Qui est là”.


Nel 2010 Peter Brook torna a Mozart e (dopo “Le nozze di Figaro” e “Don Giovanni”) realizza “Un flauto magico” adattando con libertà la musica, insieme al compositore e pianista Franck Krawczyk, e il testo del libretto con Marie-Hélène Estienne, approntato per sette giovani cantanti e due attori narratori alla ricerca dell’essenza dell’ultimo lavoro di Mozart: la magia del passaggio all’età adulta.


Attento alla dimensione spirituale così come a quella politica del mestiere dell’attore, in occasione dell’occupazione del Teatro Valle a Roma aveva registrato un video messaggio ed un incoraggiamento a trovare le forme del “fare” insieme.


Alessio Surian

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