Tradurre il testo di una canzone di Gaston Couté (Beaugency, 23/9/1880 – Parigi, 28/6/1911) è spesso un enigma che può iniziare a volte già dal titolo o poco oltre. Ma non erano certo intellettualismi spiccioli o vezzi pittoreschi di ancor meno valore, le parole strane di questo ribelle, acuto, anarchico e amabile poeta ragazzino. Quando non sono in francese esplodono in beauceron 1. Improvvise, illuminanti, rivelatrici, incendiarie, un vero e proprio “deragliamento” dei nostri sensi rispetto all’ordinaria percezione di un testo. Rappresentano il suo linguaggio vivo, talvolta anche truculento, con cui prende distanze, afferma quel che non conviene, dona voce a chi non l’ha perché si trova fuori dall’ordinato gregge della civiltà: vagabondi, emarginati, miserabili, prostitute, rivoltosi, rivoluzionari. Rappresentano il compiersi del suo incosciente destino di veggente di fine ottocento poiché ovunque rimane valido e ben presente a tutt’oggi, quel che lo indignava del potere e dell’organizzazione della società umana. Diventato tristemente tessuto quotidiano delle nostre benestanti realtà occidentali di centotrenta anni dopo. L’antimilitarismo 2 dello “zotico” Gaston Couté aveva chiaro che le masse contadine non parlano mai le lingue nazionali bensì i dialetti locali. Le guerre si compiono nelle prime ma sono i secondi quelli nei quali muore la gente, oggi come sempre e come allora. Lo sapeva che “un dialetto è una lingua senza esercito”. La poesia che giunse a sconvolgere come un temporale l’adolescenza contadina di Gaston agì su di lui come un buon artigiano che lavora con precisione e pazienza, trasformando le sue parole in dettato oracolare ed immediato di rara potenza espressiva. Parole frastagliate e pungenti, rurali ed ecologiche quanto potevano apparirlo i dipinti di Van Gogh. Chi si pone ad ascoltarlo o a tradurlo è travolto da questo linguaggio svolazzante e inafferrabile.
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Storie di Cantautori