Si è svolta nel segno di una vera e propria rinascita la quarantanovesima edizione di Umbria Jazz, che ha letteralmente riempito la città di Perugia dall’8 al 17 luglio. Una rinascita percepita da tutti e che tutti – pubblico, artisti, organizzatori e operatori – hanno contribuito a denotare come un evento dal carattere straordinario. Come è ovvio, la cesura che ha sospeso il flusso della manifestazione è stato il Covid, che ha imposto di smembrare il programma del 2020, riducendolo a pochi scampoli di concerti, e assottigliato, nel 2021, il cartellone, con defezioni, anche dell’ultimo minuto, di diversi artisti e la mancanza di nomi di rilievo del panorama musicale internazionale. Quest’anno ha marcato però una svolta necessaria: da un lato a lasciarsi alle spalle la rarefazione delle ultime edizioni, dall’altro a tratteggiare più marcatamente i nuovi lineamenti di un festival proiettato al futuro. Difatti, se molti media non hanno rinunciato a trattare la notizia del verosimile avvicendamento al vertice, che coinciderebbe, il prossimo anno, con la scadenza del contratto del direttore artistico e fondatore di UJ Carlo Pagnotta (inventore
passionale e mai stemperato della prima edizione del 1973), altrettanti giornalisti e osservatori hanno saputo cogliere il vigore che ha sospinto questa edizione. Perché a sostenerla vi era anche la proiezione al cinquantesimo anniversario, annunciato come un evento imperdibile, presenziato da grandi musicisti. Intanto il profilo di questa edizione si è definito in modo impeccabile. A cominciare dalle aree di maggiore prossimità con il pubblico più ampio. Quelle cioè dei concerti gratuiti, nelle location storiche di Piazza IV Novembre e dei Giardini Carducci – i due poli opposti e le due alture (i due colli) che racchiudono (la direttrice avvallata di) Corso Vannucci, la via principale dell’acropoli perugina – a cui quest’anno si è aggiunta, per la prima volta, la vicinissima Piazza Matteotti. A questo proposito sottolineo che la selezione degli artisti – oltre che sulla presenza scenica – si è basata sull’inequivocabile competenza musicale, che ha accomunato tutti, nella loro stimolante diversità. Molto spazio è stato lasciato ai musicisti solisti (primo fra tutti il pianista di origini franco-malgasce Mathis Picard), così come alle band ispirate alle radici del
jazz e del blues, come King Pleasure and The Biscuit Boys, le formazioni italiane Stiky Bones e Sugarpie & the Candymen, i Tuba Skinny e il gruppo tutto al femminile Shake ‘Em Up Jazz Band da New Orleans. Il risultato è stato una varietà di qualità, che per dieci giorni (da mezzogiorno a mezzanotte - ora di iniziò dell’ultimo concerto) ha intrattenuto migliaia di persone. Come ha puntualizzato l’assessore alla cultura del Comune di Perugia Leonardo Varasano alla conferenza di chiusura del festival (gestito dalla Fondazione di partecipazione Umbria Jazz, di cui sono soci, oltre al Comune di Perugia, la Regione dell’Umbria, il Comune di Orvieto, dove si svolge la versione invernale del festiva, e la Fondazione Perugia), la città ha dimostrato di essere preparata ad accogliere un festival di queste dimensioni. Non soltanto in termini di spazi – non è scontato, ma quelli ormai sono più che rodati – ma anche sul piano generale dell’accoglienza e della capacità di interpretare le esigenze di un flusso così straordinario di pubblico e artisti internazionali.
I quali, oltre alla bellezza dell’acropoli, hanno trovato ad aspettarli nuovi alberghi, iniziative organizzate per l’occasione, mostre d’arte straordinarie e musei rinnovati. Insomma un contesto proteso a una forma di accoglienza completa e ricca di stimoli. Basti pensare che la Galleria Nazionale dell’Umbria – ormai divenuto uno dei luoghi d’elezione del festival, con una selezione mirata e di alta qualità – ha ospitato, tra gli altri, le performance di artisti come Franco D’Andrea, il quartetto sperimentale TellKujira (composto da Ambra Chiara Michelangeli, Francesco Diodati, Francesco Guerri, Stefano Calderano), il duetto composto da Alice Ricciardi e Pietro Lussu (voce e pianoforte), Alessandro Lanzoni, il duo Luca Aquino & Natalino Marchetti (tromba e fisarmonica), il pianista Giovanni Guidi con lo spettacolo “100 comizi d’amore”, dedicato a Pier Paolo Pasolini, il Marco Bardoscia Trio, il chitarrista brasiliano Pedro Martins (tra le migliori rivelazioni di questa edizione), Fred Hersch e la band di fiati Unfall. Al teatro Morlacchi – venue straordinario con circa ottocento posti, incastonato nella piazza omonima a due passi
da Corso Vannucci – il programma ha incluso grandi nomi del jazz, sia nazionale che internazionale, con un cartellone che accontenterebbe anche i più esigenti: Dado Moroni, il virtuoso del contrabbasso Christian McBride con il quintetto Inside Straight, il nuovo trio del pianista Vijay Iyer (con Tyshawn Sorey alla batteria Linda May Han Oh al contrabbasso), il Charles Lloyd Quartet con Bill Frisell alla chitarra, i Doctor 3 di Danilo Rea, Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra (che hanno festeggiato i venticinque anni di carriera), il trio composto da Paolo Fresu, Rita Marcotulli e Jaques Morelenbaum (forse uno dei migliori concerti del festival, a pari merito con quello del sassofonista americano Immanuel Wilkins). Ogni sera il programma ha previsto, infine, ospiti d’eccezione. Anche questa parte del cartellone è ormai una tradizione che si rinnova all’Arena di Santa Giuliana (a pochi metri dall’omonimo monastero cistercense, fondato nel XIII secolo), nella quale confluiscono la necessità di attrarre un numero sempre maggiore di paganti e la strategia di introdurre anche gli ascoltatori meno specializzati allo spirito
(agli spiriti) del jazz. Questo spazio (che i detrattori liquidano come commerciale) ha visto esibirsi, nel corso degli anni, artisti come Eric Clapton e Prince, David Byrne e Buddy Guy, B.B. King e Quincy Jones (per citarne, a memoria, solo alcuni). Quest’anno si sono succeduti, difronte a una platea sempre piena, Herbie Hancock e Tom Jones, Gilberto Gil e Dee Dee Bridgewater, ma anche i mitici Incognito, Joss Stone, Diana Krall, Marisa Monte. Molte proposte interessanti sono pervenute da fenomeni come Cory Wong feat Dave Koz, The Comet is Coming, Cimafunk e il grande Christone “Kingfish” Ingram. La chitarra di quest’ultimo non lascia dubbi: il blues è vivo e ha molto da dire. Impossibile non citare – seppur in chiusura e sottolineando quanto la chitarra sia stata una delle protagoniste di questa edizione – la serata conclusiva con Jeff Back: era lui la star più attesa (sicuramente lo era per chi scrive) e la musica emessa dalla combinazione delle sue mani, la leva e le corde della sua Fender (sul cui corpo bianco, in omaggio al suo ospite Johnny Depp, campeggiava l’adesivo di un pirata) continuerà per lungo tempo a risuonare in città.
Daniele Cestellini
Foto di Davide Morresi x Fammivedere PH
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