Un disco genuino e spontaneo, registrato in quattro ore, dove partendo da una musica tradizionale, lontano dal farne un esercizio di stile, si va verso una musica nuova, senza che si tratti per questo di una “nuova musica bretone”. Un disco seminale e senza eredi che giocò storicamente un ruolo considerevole nell’apportare notevole spinta al rinnovamento della musica popolare bretone. Il vinile non ha avuto mai purtroppo in seguito una ristampa in alcun formato. Il gruppo assemblato per l’occasione incorporava i suonatori di bombarda e biniou all’interno della sua Intercommunal Free Dance Orchestra, abituale portavoce di una musica di sintesi delle differenti comunità di immigrati che lavoravano (male) e vivevano (peggio) a quel tempo in Francia. Il repertorio dell’Orchestra fondata all’inizio del decennio andava dalla Comune di Parigi al Maghreb, passando dall’Africa Nera alla Penisola Iberica. In questo disco le tonalità delle bombarde, abitualmente in si maggiore sono modificate affinché non soverchino con la loro proverbiale potenza sonora gli altri fiati e per poterle meglio affiancare ai tasti del pianoforte. E’ una visione musicale che raggiunge vette vertiginose non solo per l’epoca e assolutamente visionarie, favorendo l’integrazione nel mondo della tradizione di strumenti a fiato solitamente appartenenti al jazz. Inoltre il suono del basso di Tangy Ledoré ha uno stile di accompagnamento originale che corrispondente ai passi e ai ritmi delle danze bretoni di cui è appassionato conoscitore. Alle partiture scritte delle gavotte suonate dalle bombarde rispondono le improvvisazioni dei sassofoni africani, dal canto suo il biniou è adoperato in una forma blues assolutamente inedita. Tusques, alchimista di tradizioni senza frontiere, è stato per assurdo confinato in Francia durante tutta la sua carriera, ad una marginalità che stona e stride con i suoi progetti di comunità delle musiche popolari. Ma del tutto coerente e fedele con le sue grandi e ostinate utopie creatrici di collettivi liberi. La musica dell’Orchestra è rimasta sempre intercomunitaria e non ha mai dimenticato, riscoprendoli attraverso le sorprese degli abiti nuovi dell’improvvisazione, i suoi legami profondi con jazz nero, danza e melodia.
Un altro musicista parigino come Tusques, il contrabbassista e compositore Henri Texier, nel secondo quinquennio degli anni settanta incise in solitaria due onirici e romantici dischi più uno in compagnia di qualche amico, suonando e sovraincidendo voce, oud, violoncello, bombarda, flauto, pianoforte e percussioni: “Amir” (1976), “Varech” (1977), “A Cordes Et A Cris” (1979), nei quali le sue origini bretoni erano evidenziate da alcuni titoli molto eloquenti: “Les Korrigans”, “Varech”, “Kan Ar Labour”. Dopo anni a suonare accompagnando colossi del jazz americano quali Bud Powell o Dexter Gordon, un qualche richiamo ancestrale dev’essere risuonato nella sua testa, denso di sonorità ipnotiche ed esplorative per indurlo a tali sospensioni cariche di pathos e di flussi onirici. Un po’ forse come era accaduto alla fine degli anni cinquanta al suo collega di strumento al di là dell’oceano Ahmed Abdul-Malik, che oltre ad accompagnare Art Blakey, Coleman Hawkins, Randy Weston, Thelonius Monk, sentì il bisogno di esplorare le proprie radici africane e arabe imbracciando l’oud. Il richiamo per Texier in qualche modo si riaffaccerà nuovamente in seguito visto che a fine 1997 si confronterà con la Bagad Men Ha Tan nel cd “Doue Lann” (Doëlan, piccolo porto bretone adagiato in una stretta ria del Finistère, vicino a Clohars-Carnoët).
Al 1975 risale anche l’esordio su vinile di Talisker, il gruppo creato e diretto dal batterista e percussionista scozzese Ken Hyder, per la benemerita etichetta Caroline, la linea economica e progressista della Virgin, che tanti capolavori ha regalato nei suoi pochi anni di gloriosa vita. Inizialmente influenzato dalla musica americana di Coltrane, Ayler, Rollins ben presto Hyder si rese conto che lo emozionava altrettanto quella tradizionale delle pipe bands e delle donne-lavoratrici dello Skye.
Nacque in questo modo “Dreaming Of Glenisla” dove le sue composizioni si mescolavano a quelle dei pibroch tradizionali di cui il disco è zeppo utilizzando anche gighe e scale musicali da bagpipe all’interno di composizioni jazzistiche. In un paio di casi (Tha Cu Ban Againn e Heel an’ Toe, Foot an’ Moo’) i titoli sono in gaelico nonostante le composizioni siano originali. I primi suoni che Hyder udì in vita erano legati alla chiesa e ai nonni che gli cantavano a Dundee i temi tradizionali, da adolescente poi sentì dire da Mingus in una intervista che la musica jazz è la musica folk urbana americana e che gli Europei, invece di copiare, avrebbero dovuto cercare la loro per creare il proprio jazz. Nel disco “Land Of Stone” pubblicato nel 1977 dalla tedesca Japo Records il gruppo coadiuvato anche da prestigiosi cantanti free come Maggie Nichols e Phil Minton o folk come Frankie Armstrong celebra in musica anche J. Scott Skinner, il re dei violinisti scozzesi d’inizio secolo scorso oltre alle musiche delle corali delle Isole Ebridi e ai ritmi delle waulking songs (canzoni vaganti), originariamente intonate dalle operaie tessitrici. Parallelamente ad altri progetti, anche di vita, l’avvicinamento al buddismo zen, alla meditazione e allo sciamanesimo, Hyder con Talisker inciderà dischi per una quindicina di anni, tutti ad altissimo livello d’ispirazione e di qualità tra musica improvvisata e lamenti tradizionali scozzesi. Una musica astilistica nella quale l’improvvisazione senza forma si sposa con ballate del XVIII° secolo, slip jigs e arie bretoni. Nell’ultimo disco “The Known Is In The Stone” (1998) la copertina raffigura un triskel celtico del 3000 avanti Cristo, ritrovato in un tumolo funerario di New Grange in Irlanda. Tra il 1983 e il 1985 Ken Hyder aveva collaborato anche con il connazionale folksinger Dick Gaughan esplorando una nuova
musica che non fosse nelle intenzioni né folk né jazz al fine di esprimere i propri comuni punti di vista socialisti. Quando il duo si recò in studio per la registrazione del loro disco strumentale improvvisato “Fanfare For Tomorrow” cadeva il giorno seguente al venticinquesimo anniversario del massacro di Sharpeville, Sudafrica e un brano verrà dedicato in quella occasione a Nelson Mandela.
Altri musicisti percorreranno questi cammini nei decenni successivi dopo questi pionieri del suono la cui modestia della persona è pari solo alla loro grandezza artistica. A margine vorrei ricordare un polistrumentista oramai scomparso, si tratta di Rufus Harley, atipico americano della Carolina del Nord, suonatore di cornamusa delle Great Highland. Si innamorò all’istante di questo strumento che non aveva mai udito prima, dopo aver assistito a Philadelphia all’esibizione della banda militare dei Black Watch in occasione del funerale di John Kennedy, nel novembre del 1963. Nonostante le numerose difficoltà l’adottò come suo strumento principale, assieme al kilt in tartan che gli Scozzesi portano nel considerarsi Celti contemporanei. Perché Harley indossasse abitualmente questo indumento per suonare rimane un mistero. Si tratta di un abbigliamento del ‘700, che solo un atteggiamento romantico definisce come segno di continuità col passato visto che i Celti fino all’arrivo dei conquistatori Romani indossavano una comune gonna (come del resto altri popoli antichi). Negli Stati Uniti la musica di cornamusa alla morte dei membri dell’esercito o di alti funzionari del sistema è tradizione consolidata, Harley dopo la folgorazione di quei suoni e dopo molte ricerche ne trovò una ad un banco dei pegni.
Iniziò a studiarla da autodidatta, senza farsi scoraggiare dalla mancanza di possibilità di sviluppo dinamico del suo volume, dalla limitata estensione della canna di melodia suonata dalle dita e dalla presenza di bordoni a suonare note singole e continue difficilmente collocabili nel mondo del jazz. Suonava in si bemolle minore e la sua tecnica allo strumento era talmente poco ortodossa che preferiva posizionare i droni sulla spalla destra anziché sulla sinistra. All’ascolto la sua non appare certo come musica di ricerca, nei casi migliori si tratta di jazz più cornamusa solista al posto di altri strumenti a fiato più convenzionali ma chi, almeno in Europa, ascoltando una cornamusa non pensa immediatamente al mondo celtico? Per ragioni storiche e culturali questa associazione diventa inevitabile. L’unicità e il coraggio di Rufus Harley gli vanno riconosciuti, anche perché ai suoi tempi (e probabilmente ancor oggi) una cornamusa nel jazz equivaleva ad una fisarmonica che suona musica medioevale o ad un’arpa all’interno di un gruppo heavy metal. Si esibì con grandi musicisti come John Coltrane, Dizzy Gillespie o Dexter Gordon e collaborò anche con Sonny Stitt, Herbie Mann e Sonny Rollins durante la tournée europea dell’estate 1974: lo si può ascoltare nel lungo “Swing Low, Sweet Chariot” in The Cutting Edge, registrazione dal vivo al Festival di Montreux. Venne inoltre chiamato da Laurie Anderson per partecipare all’incisione di “Sweaters” (Big Science, 1982) e in tutta la parte tre di United States Live (1983). Morirà di malattia nel 2006.
Flavio Poltronieri
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