Piero Ciampi tra cani randagi e delfini occitani

Ho letto da qualche parte che il lavoro dei poeti è quello di scuotere il cielo affinché qualche frammento possa cadere sull’uomo. Come Cesare Pavese nei decenni precedenti, Piero Ciampi scriveva da una personale torretta sempre più ridotta a catasta incenerita, sulla devastazione e la tragedia, assediato dalle proprie assenze. Con un canto incerto a difesa contro il sentirsi perennemente braccato, la sua poesia rappresentò probabilmente tutto quel che sentiva di poter opporre all’autodistruzione. Non era stato molto considerato ma neppure ignorato come paroliere negli anni sessanta ma quando il suo nome entrò nel mondo discografico della canzone d’autore italiana, non assomigliava già a nessuno. La sua imprevedibilità nella scrittura era decisamente più prossima ad alcuni tipi di pittura, chiazze di quotidianità randagia a testimoniare la sua impossibilità pressoché totale di comprensione nei riguardi dell’esistenza. Con quel carattere non faceva sconti a nessuno e la sua inaffidabilità non risparmiava neppure gli amici più vicini. Anche se non ci fosse stato lo spietato finale, di strada non avrebbe comunque potuto farne molta, gli anni che seguirono quel 19 gennaio 1980 non gli sarebbero piaciuti e lo avrebbero probabilmente emarginato ancora di più, lui e il suo “bicchiere gelato”.  La prematura dipartita ha reso immortali le frasi delle sue canzoni, “Ti ricordi via Macrobio? Qualche volta eri felice” su tutte. Il suo ricordo ha riempito spazi vuoti nell’animo anche di molti che non l’avevano conosciuto. 
E tuttavia assieme al crudo e sincero disincanto dei versi vive anche il suono mesto della sua voce malata davanti ai fiori ricevuti dopo tre mesi e mezzo di pesante ricovero ospedaliero: “è un giardino questo, sono pieno di orchidee, una me la metto all’occhiello, non ho gli occhielli, me ne inventerò uno”. Questo rimane impresso indelebilmente nella mente alla luce dell’ascolto delle sue ospitate di oltre quaranta anni fa nelle trasmissioni romane di Radio Luna condotte da Gianni Elsner. Quel suo voler assolutamente brindare con enfasi all’arrivo del 2000 ma il farlo nella primavera del 1978, con i pensieri forse rivolti “in paradiso” come affermava si sarebbe intitolato il suo prossimo disco, già preparato alla RCA e previsto per fine maggio: l’ennesimo bluff di un giocatore d’azzardo che dietro “escludo l’inferno” nascondeva in realtà solo un pugno di strazianti provini: “nel 2000 Madonnina, quegli sguardi così bianchi sembrano il vuoto”. Piero che, anni prima, fiero e spavaldo affermava “…non distinguo un prete da una contadina, una pecora da un pastore, un asilo da una prigione, un guerriero da una chiromante...ho solo la faccia di un uomo ma guai a chi non rispetta il mio spazio perché se entra per vincermi e per distruggermi troverà tempo solo per ricordare. Dove voglio arrivare? Ad essere in pace…”.
A pagina 261 del prezioso “Tutta l’Opera” che nel novembre 1992 raccoglieva postumo tutto il minuzioso lavoro d’archivio di Enrico de Angelis, si trova accovacciata una poesia minore che vestita di tutta la sua disperata lucidità ribadisce anche lei, nel proprio piccolo, lo stesso concetto di inadeguatezza espresso da Piero in così tante maestose occasioni. La poesia recita così:
Sarebbe stato molto bello se quella notte fossi andato a dormire ma non 
avevo un letto, né una lira, ero ubriaco e mi sentivo male. Così dalla 
rabbia ho dato una pedata a un cane senza contare che era un lupo e 
disperato. Lui, invece di reagire, si è accasciato ma aveva negli occhi un 
tale furore che avrei preferito mi avesse castigato.
La sera del 18 dicembre 1995 al Teatro Brancaccio di Roma, nello storico quartiere Esquilino, Giuseppe de Grassi, anch’egli da sempre rapito dall’arte di Ciampi, riunì molti artisti per un secondo grande tributo collettivo che ne seguiva uno di cinque anni prima al Teatro Argentina. Dopo Gianni Marchetti, autore di molte delle melodie “ciampiane”, questa volta la direzione musicale toccò all’altrettanto appassionato pianista-medico genovese Marco Spiccio. Tanti cantautori aderirono, tra cui Nada, Franco Califano, Grazia de Michele, Vinicio Capossela, Umberto Bindi, Ernesto Bassignano, Dodi Moscati, Marco Ongaro, Claudio Lolli e anche alcuni gruppi tra cui La Crus, che da pochi mesi avevano sul mercato il proprio omonimo esordio discografico contenente una magistrale interpretazione de “Il Vino”. Quella sera tra mille meraviglie venne cantato anche un testo originale inedito in lingua occitana dai piemontesi Lou Dalfin. Il gruppo folk-rock proveniente da quella regione che inizia oltre la periferia dell’impero, da quattordici remote valli cuneesi e dieci torinesi, per arrivare fino al sud della Francia e ai Paesi Baschi. “Il delfino” e' il simbolo del Delfinato, la regione Occitana a cui appartengono quelle valli all’interno dello Stato Italiano. Era l'epoca dell'uscita sul mercato discografico di “Gibous, Bagase e Bandì” ma quella canzone apparirà ufficialmente solamente tre anni dopo sul cd “Lo Viatge” (1998) sotto il titolo “Chans d'abandon/Gando”.

Chans d’abandon 
(Fabrizio Simondi) 

Lo diau me porte, era mielh fesse estat cojat 
paure de mi, una meison l'avìu pas era a 
rabel, ero choc, ero sensa un liech "vai via 
d'ici", tu m'as dich 'quela nuech

M'as laissat òuta en la via a la freit
sensa salut abò la mia choca 
marria, mas perqué m'as 
pas tengut?

Abandonat come un chan, solet mai 
que mai a strambaliar, en pau en sai, en pau en lai 
s'aramba un ves, part un caus, un gros caus 
iè dau
"vai via d'eicì, fila via, passa al diau"

D'arvirar-se encala pas, al me beiqua desperat sem 
dui soiro, dui bastards, e mi sìu lo pus empestat. 
Cani Abbandonati 
(traduzione di Flavio Poltronieri, 1996) 

Che il diavolo mi porti, era meglio se restavo coricato
Povero me, una casa non ce l'avevo
Ero a pezzi, ubriaco, senza un letto
“Vai via di qui” tu mi hai detto quella notte

Mi hai lasciato per strada, al freddo
Senza un saluto
Con la mia cattiva ciucca Ma 
perché non mi hai tenuto?

Abbandonato come un cane, più solo che mai
A barcollare di qua e di là
Un cane viene vicino, parte un calcio
Un calcione gli do
“Fila via da qui, vai al diavolo”

A rivoltarsi non osa, mi guarda disperato
Siamo due cagnacci bastardi e il più feroce sono io
Il testo in lingua “d’Oc” proveniva dalla penna di Fabrizio Simondi, su una musica che comprendeva una coppia di bourrée a due tempi composta dal front-man del gruppo, il ghirondista  Sergio Berardo. Com’è del tutto evidente, l’ispirazione arrivava diritta dalle righe di quella poesia di Ciampi. Durante la serata verrà nuovamente interpretata, questa volta con il testo originale di Piero, dalla toccante voce di Enzo Gragnaniello che, da par suo, porterà Livorno oltre la linea gotica di Napoli, fin nel corpo di Salita Trinità degli Spagnoli. Non conosco la data esatta della composizione della poesia di Piero ma nel 1975 una delle canzoni contenute nel suo doppio LP  “Dentro e Fuori” recava il titolo “Tra Lupi” e parlava di furti e fughe sulle colline. Quel “tra” stava forse ad indicare un’appartenenza? Che ora docili, umili e timidi cani erano ridiventati lupi?  Di cani metaforici in poesia e canzone ne abbiamo incontrati tanti: da quelli sovietici vittime delle sadiche e criminali cacce con bandierine rosse o elicotteri di Vladimir Vysotskij a quelli di Lower Manhattan di Tom Waits che perdono la direzione di casa dopo che la pioggia ha lavato via gli odori dalle strade. Da quello dell’Ottava Armata Italiana che spezza finalmente il fucile di ritorno dalla guerra di Spagna cantato da Ivan Graziani a quello fiorentino senza la testa, inventato da Gianni Rodari, così simile a tanti umani. Quello che immagino è che l’acida eredità di quei doni irriverenti che sono la voce e le parole di Ciampi faranno a bottigliate in eterno con i dolori e le insofferenze di ogni amore, divorando il ridicolo dell’esistenza con la loro disarmante e malinconica ironia. Avendone ascoltati tanti nel corso degli anni, vorrei sottolineare come in ogni tributo a Piero, indipendentemente dai nomi coinvolti, la qualità artistica dei risultati sia sempre stata eccelsa ed ogni artista abbia espresso il proprio massimo potenziale. Perché come il carattere, anche la poetica di Piero Ciampi non perdona e i suoi bacilli sono e restano più contagiosi di quelli del Covid-19. 

Flavio Poltronieri

1 Commenti

Nuova Vecchia