Annie Keating – Bristol County Tides (Appaloosa Records/I.R.D., 2021)

Decimo album per Annie Keating, artista apprezzatissima da pubblico e critica, che ha ormai un posto di spicco nel panorama cantautoriale americano. Come capita spesso di questi tempi, anche “Bristol County Tides” è segnato dalla pandemia: la Keating lo ha scritto durante i mesi più bui, isolata, insieme alla famiglia, in una fattoria del Massachusetts. Ad ogni modo, il risultato è ottimo. Perché se da un lato le condizioni che lo hanno visto nascere lasciano un riflesso nella sua stupenda profondità, dall’altro lasciano emergere un atteggiamento di contemplazione, che si riconosce nella cura sonora, nel respiro ampio che definisce ogni brano. Certo, l’attenzione al suono e la centratura timbrica sono una caratteristica di questa autrice straordinaria – che può vantare una scrittura elegante, ancorché eterogenea e che è, a ragione, paragonata alle stelle più brillanti del panorama folk americano – ma qui è talmente evidente che abbraccia ogni passo, ogni sviluppo melodico. A questo si aggiunga, poi, una doverosa riflessione sulla narrativa, sulla parola. Che si configura come un elemento di primo piano: come il vettore necessario di un racconto che spazia tra immagini complesse, che richiamano la perdita e la speranza, l’amore e la ricerca. Da qui nascono brani colmi di partecipazione che, nella confluenza equilibrata di suono (pochi strumenti acustici, nel segno di un racconto folk soffuso e sognante, delicato e incisivo), melodie (soavi e mai pallide) e parole, riconducono la musica di Annie Keating a un presente tutto da esplorare. Ad una contemporaneità che si rinnova continuamente, appesa a una traiettoria veloce che trascina ogni elemento narrativo fuori da una interpretazione lineare. Questo carattere di transizione mescola gli elementi che generalmente riconosciamo come “segnali” attraverso cui analizzare l’insieme. Tanto meglio, perché la sorpresa è una novità e, come è naturale, spinge ad approfondire, spostando gli strati in superficie. Andando in fondo, allora, dentro i brani, riscontriamo il gusto dei dettagli, l’accortezza nel marcare i solchi musicali più significativi, a evitare le sovrapposizioni: ripulendo, ordinando, soffiando via le opacità. Uno dei brani più significativi, in questo senso, è “High Tide” che, insieme a “Half Mast”, rappresenta anche uno dei punti più alti che Annie riesce a toccare, in termini di equilibrio, compostezza armonica e seduzione melodica. L’immagine che prende forma nell’atmosfera sospesa di “Half Mast” riconduce, in modo non necessariamente esplicito ma indubbiamente evocativo, alla sensazione di perdita, che travolge e ingabbia lo sguardo, costringendolo a riconsiderare ciò che lo circonda, penetrando lo spazio in cerca di appigli, di cardini: “Time is moving slow, thoughts are racing fast/ Nowhere to go, flag’s at half-mast”, ma anche “As things fall apart, we carry on”. La descrizione musicale di questo sentimento ambiguo e asfissiante è affidata innanzitutto a una voce soffusa, il cui andamento discendente ci spinge giù, a riflettere, forzando però lo sguardo anche in là, verso il sole nascosto. Una chitarra slide lacrimante accompagna questo andamento in alternanza alla voce, provando a svincolarsi dai battiti lontani e inafferrabili della batteria. “High Tide”, il brano appena successivo, sembra raccogliere lo strascico di questa atmosfera, ma ne riconduce la forza in una dimensione meno sommessa, più aperta a fronteggiarne la complessità. Il brano assume, fin dai primi passi, un ritmo più marcato, da cui emergono suoni decisi e un atteggiamento generale più corale, corposo. Insomma, di questo si tratta, di maree (declinate in più modi, a partire dal titolo dell’album) che, semplicemente, scendono e salgono: “I don’t recall the day of the week but I know the tide’s high”. 


Daniele Cestellini

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