Mark T., al secolo Mark Turauskis, è uno di quei geni che purtroppo, almeno qui in Italia, non godono della fama e della considerazione che meriterebbero più che ampiamente. Eppure in Gran Bretagna è tutt’altro che uno sconosciuto, anzi: al suo arrivo sulla scena folk verso la metà degli anni ’80, ancor giovanissimo strabiliò tutti al suo esordio con cui, come nessun altro al tempo, si presentava con una incredibile ed inusuale mistura di folk, punk, blues, musica balcanica e molto altro mettendo, per una volta, d’accordo ogni critico musicale d’Oltremanica per l’intraprendenza, creatività e qualità del suo lavoro.
Quelle promesse sono state certamente mantenute nel corso della sua carriera, sin dai primi veri dischi, in particolare da quelli che lo hanno visto condurre un manipoli di superbi musicisti radunati sotto la denominazione The Brickbats: l’organettista e polistrumentista Mike Townsend, il piper Paul Hancock e il sassofonista Tim Hill (quest’ultimo già noto per la collaborazione con Mike Cooper nelle sue scorribande più avanguardistiche).
Questi musicisti, con i quali Mark ha continuato a lavorare attraverso gli anni e che si ritrovano puntualmente anche in questa sua nuova fatica discografica, fornirono indubbiamente un contributo determinante alla riuscita di due dischi, “Johnny There” (Fellside, 1986) e “From Middle East To Mid-West”
(Waterfront, 1987), che ampliarono ulteriormente il raggio d’azione incrementando, se possibile, la sfera di influenze e di sperimentazione; anche questi lavori furono altrettanto bene accolti dalla critica britannica ed è un vero peccato che non siano più disponibili (a dir lo vero a suo tempo fu pubblicato un CD con il titolo del secondo che in pratica è una sorta di compilazione purtroppo però fuori catalogo, ma che si può trovare per esteso su You Tube) perché suonano ancora oggi tremendamente attuali, specialmente il secondo, nel quale spicca, nell’eterogeneità del materiale, un brano derivato dal repertorio de Li Troubaires De Coumboscuro.
Anche dopo la splendida avventura con i Brickbats, Mark ha continuato la sua esplorazione musicale avvicinandosi sempre più anche alla musica medioevale, a quella celtica e dell’Estremo Oriente. Negli ultimi anni si è inoltre riaccostato consistentemente al blues, sempre trattato alla sua maniera, ovviamente, dando vita a un nuovo ensemble chiamato Rootdogs che pure ha preso parte alla realizzazione di “Blues@Zero”.
Il titolo di questo album però non deve ingannare perché qui non c’è soltanto blues ma molto di più!
Il disco, nelle parole dello stesso musicista, vuole essere “una sorta di seguito del suo lavoro precedente,
l’ottimo “From Blues To Rembetika”, ma si muove verso una piattaforma più globale”. I due stili di quel titolo sono ovviamente di nuovo il punto di partenza ma qui tutto risulta sapientemente mescolato ed aperto anche ad altre influenze, oltre che a materiale proveniente da diversi luoghi comunque già esplorati dall’artista.
Di blues comunque ce n’è parecchio, e non solo per la presenza di diversi brani riconducibili a questo genere, ciascuno dei quali per altro proposto in una veste differente: “Rootdog Blues”, scritto dallo stesso Mark, è forse quello eseguito in modo più ortodosso ma è affidato alla fenomenale voce di Fran Wood, la cantante dei Rootdog i cui membri, anche se sparpagliatamente, appaiono in diversi altri momenti. La voce della ragazza si ritrova in “Shortman”, che per altro porta la firma della stessa cantante e vede Mark qui impegnato alla chitarra elettrica. “Willow Tree”, altra composizione del titolare dell’album, dovrebbe invece trarre ispirazione da un classico di Bessie Smith ma è diventato una sorta di country blues stralunato; infine due classici come “St. James Infirmary” e That’s All Right Mama” (proprio quella portata al successo da Elvis ma proveniente da un grande bluesman come Arthur Big Boy Crudup), sono stati trascinati rispettivamente verso il jazz più estemporaneo dal sax di Tim Hill ed il rock-blues dalla chitarra elettrica di Paul Critchfield.
La musica balcanica è pure piuttosto presente a partire da “Svornato Horo”, la rielaborazione di una melodia proveniente da un disco del bulgaro Stefan Zhamanov con Mark che qui dà un saggio della sua bravura al bouzouki, come avviene d’altronde in “Zebeikos Dance”, un motivo in 9/4 del greco Kostas Papalodopoulos (con le tablas di Iqbal Pathan). “Rembetika Tim Hill” invece è una composizione originale firmata insieme allo stesso sassofonista riportato nel titolo ed è un affascinante duetto fra clarinetto e bouzouki. Il secondo, che pare lo strumento prediletto di Mark per l’occasione (che sia quello greco o irlandese non importa), è protagonista, con il tin whistle di Paul Hancock, di una delle escursioni nelle lande celtiche, “Tommy Billie’s (for Alec Finn)”, un tradizionale dedicato, ovviamente, al compianto Alec Finn, il fondatore dei De Danann scomparso alcuni mesi fa.
Gli altri due brani in tema sono quindi un set di danze bretoni (“Deux Aired D’Andro”), che chiude il lavoro e in cui finalmente troviamo l’organetto e cornamusa (ovviamente suonati dai succitati Townsend e Hancock), e “Lucy Farr’s Reel”, altro omaggio ad una leggenda della musica irlandese, che porta la firma di Mark e pare di tanto in tanto pare virare anche verso sonorità orientali.
Ci sono ancora un paio di brani in odore di Africa, il medley “Ducks on the River Wye/Nyabingi “, solo voce e percussioni, e, dal Ghana “Mama Shile Oga”, a cui aggiungono flauto ed armonica a bocca.
Infine, per non farci mancare nulla in questa specie di viaggio personale intorno al mondo, troviamo un delizioso e delicato strumentale dal titolo “Jasmine Green”, ancora frutto di Mark e quasi a metà strada fra la musica hawaiiana e quella indiana.
La considerevole varietà musicale offerta da questo lavoro si rispecchia, inevitabilmente, nei molti strumenti usati dallo stesso titolare il quale, oltre a suonare quelli già menzionati, si destreggia qui con pianoforte, tamboura e bodhran. Inoltre, a parte i due blues interpretati da Fran Wood, canta con quella sua voce molto particolare, sottile e nasale, forse persino idiosincratica per chi non l’avesse mai sentita prima, che trovo abbia un timbro non molto dissimile da quello di Joachim Cooder (anche se sarebbe più opportuno dire il contrario) ma per niente fastidiosa.
Forse “Blues@Zero” non è proprio il lavoro che esprime in tutta la sua pienezza il carattere innovativo e comunque non convenzionale del percorso artistico di Mark T. (come probabilmente accaduto soprattutto con in Brickbats) ma le quattordici tracce scelte nella circostanza, che coprono disinvoltamente un’area geografica così estesa attraverso una rilettura assolutamente unica, e nondimeno il virtuosismo dei diversi musicisti che hanno prestato le loro capacità lo rendono un prodotto estremamente variegato e godibile e rappresentano un ottimo modo per (ri)scoprire un considerevole talento. Maggiori info su: https://www.marktmusic.co.uk/ - https://www.facebook.com/mark.turauskis
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