Eliza Gilkyson – Songs from the River Wind (Howlin’Dog/IRD, 2022)

La discografia della cantautrice californiana nella prima parte del nuovo millennio ha prodotto solo gemme di livello assoluto: dal seminale “Hard Times in Babylon” al recente “2020”, disco immerso nell’attualità, passando per gli imprescindibili “Paradise Hotel” e “Land of Milk and Honey”, pietre miliari per chiunque sia appassionato del composito genere convenzionalmente denominato “Americana”, la Gilkyson ha disseminato la sua produzione di album mai meno che notevoli. Lo scorso anno Eliza si trasferisce da Austin a Taos, cittadina del New Mexico, e ci regala questa (sono parole sue) dichiarazione d’amore verso il West, i suoi luoghi, le persone e i ricordi. Un disco totalmente acustico, quasi bucolico nella sua ambientazione sonora, con mandolino, violino e steel-guitar a fare da contraltare alla voce sempre bellissima e sempre più “soffiata” della Gilkyson e alle sue chitarre. L’album, suddiviso in undici tracce, per quasi 50 minuti di musica, comprende canzoni nuove, tradizionali riscritti (la celebre ”Buffalo Gals”), un paio di cover e un bel brano scritto a quattro mani con John Gorka, altro nome eccellente della canzone americana contemporanea. Il disco, non c’è bisogno di dirlo, è bellissimo, vario e, a dispetto della veste rigorosamente acustica e solo apparentemente dimessa, ha al suo interno almeno una manciata di canzoni sopra la media. Il primo sussulto arriva con la terza traccia “Farthest End”, una ballata per chitarra elettrica e voce, una cowboy-song moderna con un bellissimo ritornello (“Where’s the Farthest End of the Deepest Sky/Why does my Heart Still Cry”). Altra canzone epocale “Bristlecone Pine”, anche qui chitarra elettrica, banjo e poco altro. Sono settimane che la immagino cantata da Jack Hardy, scomparso songwriter che avrebbe indossato a meraviglia questa canzone di Hugh Prestwood così come fa Eliza Gilkyson in questa appassionata versione. A seguire forse il brano più bello dell’album, un’interpretazione della ballata dei Rifters (band che è originaria proprio di Taos, NM) “Before the Great River Was Tamed”, un omaggio al Rio Grande, fiume che nell’immaginario popolare è emblema, confine e definizione stessa del “West”, attraversando Colorado, New Mexico e Texas, prima di sfociare nel Golfo del Messico. Infine il mood gentilmente retrò di “Don’t Stop Loving Me”, con tanto di ritornello fischiettato. In mezzo, tanti brani di atmosfera più country, tutti gradevoli e alcuni persino bellissimi, come il brano di apertura “Wanderin’”, canzone di origine irlandese appresa dal padre Terry Gilkyson e riscritta “al femminile”. “Songs From The River Wind” è un disco da avere, e magari l’occasione per andare anche a cercare a ritroso nella discografia di questa splendida settantenne. 


Gianluca Dessì

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