Operazione più che complessa quella della Smallable Ensemble, che in questo splendido tributo organizza una affascinante rilettura di dodici brani di John Lennon. Operazione complessa sì, ma ben riuscita. Perché lo spirito è quello giusto. Quello cioè che emerge da uno sguardo non solo di riverenza, ma anche di affezione sincera al musicista e all’uomo: uno sguardo che abbraccia la politica musicale di Lennon, rielaborata in egual misura con divertente distanza formale e analisi attenta. Con John Lennon si deve partire dalla scrittura (dalle scritture), e gli Smallable – fondati dal chitarrista Alex Kid Gariazzo, affiancato dal polistrumentista Marco Benz Gentile, Michele Guaglio al basso e Roberto Bongianino alla fisarmonica, oltre che da ospiti come Jono Manson, Bocephus King, Doug Seeger e Patricia Vonne Rodriguez – lo hanno compreso in pieno: quella di Lennon ha la forma di una cascata, richiama chiaramente l’immagine di un flusso che si compone di tutte le contraddizioni dell’irruenza. Come è noto, John Lennon era, prima ancora che un musicista, un narratore. O meglio un mescolatore di linguaggi e di parole, capace di assorbire ogni espressione narrativa e di elaborarla dentro il suo grande racconto. È vero che ha cantato che non credeva più in Dylan, ma la sua lirica lo ha letteralmente travolto, aprendogli una strada che solo lui poteva percorrere: nella confluenza tra melodia indimenticabile, sarcasmo tagliente, elaborazione poetica e sintesi immaginifica. Ce lo dimostra bene questo tributo, perché condensa nuove forme di visioni lennoniane incomprensibili se non attraverso il richiamo vago alla matrice. Questa vaghezza controllata – e pensata dentro un tributo che, a partire dalle melodie originali, sviluppa direzioni plausibili dei brani di Lennon – rappresenta il nervo sottile che sorregge la successione dei brani (selezionati sia nel canzoniere beatlesiano che in quello solista) e il fulcro vero dell’album. Che ci piace perché è intelligente, passionale, sperimentale: elaborato in una prospettiva non semplicemente devozionale, ma premurosamente selettiva. Ciò che emerge dalla scaletta è – per rimanere in metafora – il pensiero complesso di un devoto che sprona sé stesso affinché il suo contributo possa essere compreso tra gli omaggi doverosi al maestro. Così questi musicisti – che elaborano ogni brano in modo diverso pur in una cornice folk-blues – ci suggeriscono, proprio attraverso la loro musica e gli schemi che hanno deciso di adattare ai singoli brani, le straordinarie articolazioni dei brani di Lennon. Certo, a questo punto la domanda che tutti si fanno è se ce ne sia bisogno. Altroché: è l’evoluzione del pensiero, l’elaborazione dell’idea che continua a stupirci. E non certo la meccanica che reitera la riconoscenza al genio (questo può valere anche per John Lennon, il quale ovviamente ci piace anche così com’è). Per di più, quell’elaborazione e quell’evoluzione non riescono certo a intaccare la massa della narrativa lennoniana (inutile dirlo), ma al contrario contribuiscono a rimarcarne l’ingegnosità, la straordinarietà, nello stesso momento in cui generano narrazioni nuove e (condizione indispensabile) comprensibili. Nel quadro di queste evidenze lo Smallable Ensamble riesce a trasformare i brani di Lennon in una cornice di naturalezza, che mette a proprio agio l’ascoltatore, perché viene a trovarsi nella condizione di comprendere l’elaborazione proprio attraverso la struttura dei singoli brani. Per questo dicevo che ogni brano ha un suo carattere peculiare che contribuisce a sviluppare l’idea originale (o la struttura basilare) dei brani di Lennon. “Watching the wheels” diviene, senza le note stranianti del pianoforte della versione originale, una ballata quasi dolce, in cui solo percussioni e chitarre morbide (con qualche inserto di fisarmonica) sorreggono il canto, e l’unico elemento di tensione è rappresentato dalla linea melodica della voce. “Julia” è tra le interpretazioni migliori dell’album: mantiene la rarefazione dell’originale, pur configurandosi in modo più netto come una preghiera cantata. La più bella, però, rimane “Oh my love”, proposta in versione strumentale: la slide che canta la melodia della voce fa tremare i polsi, perché connette Lennon a George Harrison, il quale ha lasciato, nella versione originale del brano, una traccia indimenticabile di chitarra.
Daniele Cestellini